Seconde generazioni tra aspirazione alla modernità e reazione identitaria

Di Renzo Guolo Mercoledì 26 Ottobre 2011 12:41 Stampa
Seconde generazioni tra aspirazione alla modernità e reazione identitaria Illustrazione: Alessandro Sanna

La mancanza di efficaci politiche di integrazione culturale e la retorica xenofoba del discorso pubblico alimentano reazioni antagoniste nei giovani immigrati di seconda generazione, ostacolando la coesione sociale. Solo inclusione e cittadinizzazione possono evitare che simili sentimenti collettivi sfocino in conflittualità aperta.


La proposta italiana

La questione “seconda generazione” non ha solo a che fare con i fenomeni migratori, ma riguarda, più in generale, la coesione sociale della società investita da tali fenomeni. I figli di almeno un genitore immigrato, nati o socializzati in tutto o in buona parte in Italia, sono presenti in grande numero nelle scuole, nei luoghi di lavoro, negli spazi urbani e danno vita a un’interazione con la popolazione autoctona che muta la geografia sociale del paese. Dunque affrontare il tema G2 rinvia, inevitabilmente, al nodo cruciale dell’identità della società italiana nel suo complesso, non solo a quella in trasformazione dei giovani di seconda generazione.

Cosa fa l’Italia per assecondare il processo d’integrazione – termine che in questa accezione ha esclusivamente significato sociologico ed è usato senza alcuna connotazione etnocentrica – di questi giovani? Poco. Anzi, solleticata da attivi imprenditori politici della xenofobia, parte della società italiana esclude persino che la diseguaglianza istituzionalizzata che caratterizza la biografia di questi giovani (titolari di diritti legati al soggiorno o al lavoro ma non cittadini a tutti gli effetti) costituisca un problema. Tali posizioni hanno come logico corollario il ricorrente discorso di taluni partiti sul dovere degli immigrati di integrarsi e di rispettare, genericamente, “i nostri valori e le nostre tradizioni”.

Dunque, il clima culturale che i giovani della G2 percepiscono è quello in cui si chiede loro di abbandonare identità, religiose o culturali, percepite come “estranee” in favore di una visione assimilazionista tradizionale, fondata su presupposti etnocentrici e normativi. Il giudizio sotteso è che i giovani della G2 soffrano di un deficit di socializzazione relativo a valori e tradizioni, che li induce a vivere nei ghetti etnici e culturali costruiti dai loro padri. Un discorso fallace, poiché molti di loro sono già assimilati culturalmente e, anzi, la domanda di inclusione che esprimono deriva proprio dall’aver assorbito “elementi di valore” della società in cui vivono, quale la funzione del consumo come meccanismo di integrazione sociale.

Un discorso che scarta a priori la possibilità che nella società italiana del XXI secolo, trasformata come le altre società occidentali dall’impatto globale di flussi e luoghi, possano esistere identità sociali ibride, fluide, persino sincretiche, tipiche delle società multiculturali: realtà in cui più culture condividono il medesimo spazio sociale e l’identità può essere declinata anche con il “trattino”, marocchino- italiano, ad esempio – e nella logica del “e” “e”, italiano e marocchino, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano culturale e religioso, non in quella del “o” “o” che costringe forzatamente a scegliere chi non può o non vuole farlo.


Assimilazionismo senza assimilazione

Dunque l’Italia fatica a capire che affrontare il tema dell’integrazione, o dell’interazione, culturale è decisivo per mantenere la coesione sociale. Tant’è vero che, contrariamente ad altri paesi europei, non ha nemmeno adottato uno specifico modello di integrazione culturale, un sistema di regolazione formalizzato che definisca ciò che è riconoscibile o meno delle culture non autoctone.

L’incapacità, o la scelta, di non elaborare un modello di integrazione culturale capace di rispondere ai problemi posti dalla trasformazione della società italiana in una società multiculturale deriva non solo dalla specifica storia del paese, ma anche dal conflitto tra forze politiche assai lontane dal convergere su temi che, per loro natura, dovrebbero essere largamente condivisi. Anche altrove le politiche sull’immigrazione sono oggetto di aspre polemiche, ma lo scontro avviene all’interno di un’arena in cui è chiaro il riferimento di fondo, determinato dalla dimensione simbolica e comunicativa dello stesso modello adottato e da una comune visione del patto fondativo alla base del vivere associato.

In verità, a guardar bene, nella realtà italiana un “modello” si è imposto. Almeno nel senso comune, per effetto dell’egemonia culturale, prima ancora che politica, delle forze apertamente xenofobe. Un “modello” il cui contenuto è decifrabile dall’insieme dei singoli provvedimenti riguardanti questo o quell’ambito della politica dell’immigrazione, anche se, perché sia davvero tale, un modello deve essere oggetto di discorso pubblico. Autoctoni e immigrati, cittadini e residenti devono, infatti, comprenderne esattamente il significato simbolico.

Un “modello”, quello italiano, sostanzialmente assimilazionista, privo però dei requisiti che solitamente caratterizzano analoghe costruzioni di interazione formalizzata tra culture. Un “modello” fondato su assimilazionismo forzoso, ispirato dal mantra “rispetto delle nostre leggi e tradizioni”, tanto apparentemente prescrittivo e “assorbente”, quanto di scarsa efficacia per assenza di definizione dei riferimenti valoriali e di strumenti che permettano (anche se lo volessero) ai membri della G2, alle prese con identità plurime, di diventare del tutto “simili” ai loro coetanei autoctoni. Un “modello” che i giovani di seconda generazione rifiutano sia per l’esigenza di coltivare la loro identità “sincretica”, sia perché l’assenza di cittadinizzazione lo rende comunque poco appetibile. Nella Francia assimilazionista la rinuncia ai particolarismi identitari ha come oggetto di scambio politico la cittadinanza; in Italia la richiesta è di rinunciare prescrittivamente ad essi senza alcuna contropartita attrattiva.

Un modello disciplinare, dunque, il “non modello” assimilazionista italiano che, fondato sul timore dell’ibridazione, accentua la distanza tra stranieri e autoctoni. Formalmente assimilazionista, si regge sullo ius sanguinis e così sbarra l’accesso alla cittadinanza agli stranieri che meglio potrebbero ottenerla se vigesse lo ius soli. Ideologicamente assimilazionista, quello disciplinare funziona, di fatto, come un modello multiculturalista: costringendo alla chiusura o alla reazione identitaria anche parte dei più giovani. Non è casuale che per reagire attivamente al processo di stigmatizzazione, divenuto senso comune in larga parte degli autoctoni dopo l’11 settembre, vi siano giovani musulmani che “riscoprono” le loro origini declinandole in chiave islamista.

Quello in voga in Italia è, dunque, un assimilazionismo senza assimilazione, di tipo downward, verso il basso, che consegna gli stessi giovani della G2 a una marginalità che si autoalimenta; che li stigmatizza come portatori di irriducibili differenze etniche e religiose; che rinuncia, volutamente, a stimolare qualsiasi interazione con gli immigrati che non sia meramente funzionale all’economia; che riproduce una separatezza che moltiplica ghetti identitari. Questo multiculturalismo senza interculturalità – osteggiato a parole e di fatto riprodotto nella sua versione, priva di vantaggi sistemici, dell’enclave identitaria rancorosa – è rafforzato da un discorso pubblico intriso di retorica xenofoba, che rischia di generare, in un futuro non troppo lontano, seri problemi. La negazione della doppia identità di questi giovani (identità caratterizzata dall’appartenenza secondo una logica plurima anziché esclusiva) induce a processi di “re-identizzazione” secondo logiche antagoniste che non facilitano certo la coesione sociale.

Esito che potrebbe essere attutito dal processo di cittadinizzazione, strumento imprescindibile per produrre anche lealtà politica. La partecipazione civica è, da sempre, un potente fattore di integrazione. Aumenta la disponibilità del capitale sociale, basato sulle relazioni di fiducia di una collettività. La disuguaglianza istituzionalizzata – che si riproduce, oltre che nella mancata concessione del diritto di voto o in altre forme di discriminazione istituzionale, come l’impossibilità di accedere alle prestazioni del welfare locale – crea invece problemi. La condizione di “straniero in patria” è particolarmente frustrante tra i giovani che, da sempre o da tempo, frequentano la scuola insieme ai coetanei autoctoni, e spesso condividono con loro il medesimo stile di vita. Il rifiuto può generare la ricerca di appartenenze identitarie sostitutive, anche radicalizzate. In particolare nel milieu islamico, nel quale sono pur sempre disponibili un’ideologia e un repertorio simbolico – quello islamista nelle sue diverse varianti radicali o neotradizionaliste – che possono indurre a reazioni antagoniste verso la cultura, gli stili di vita, i sistemi politici occidentali.

La cittadinizzazione e l’inclusione possono produrre antidoti a questa deriva. Individui consapevoli dei vantaggi derivanti dall’essere cittadini possono svolgere un ruolo dissuasivo nei confronti dei richiami ideologici che si manifestano all’interno dell’ambiente d’origine. Dentro al magma oscurato della segregazione sociale crescono, infatti, più che stranieri, estranei, e tra estranei non si sviluppa solidarietà ma conflitto. L’integrazione culturale offre, invece, anche un rilevante contributo alla produzione sociale di sicurezza. Non comprenderlo è davvero miope.

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