Le città del mondo: prove di futuro

Di Livio Sacchi Martedì 04 Settembre 2012 14:17 Stampa

Da Singapore a Stoccolma, da Istanbul a New York, dagli Emirati Arabi Uniti alla Scozia sono molti gli esempi di nuove soluzioni ecosostenibili al vivere urbano. L’irreversibile e veloce processo di inurbamento, infatti, presenta una sfida per le città che dovranno in futuro affrontare i problemi connessi alla crescita demografica nel pieno rispetto dell’ambiente.

Singapore ha ospitato di recente tre importanti appuntamenti internazionali dedicati al futuro delle città: la International Water Week, il World Cities Summit e il CleanEnviro Summit. Non a caso: da anni, la piccola città-Stato del Sud-Est asiatico è un attivissimo laboratorio sperimentale urbano, tenuto d’occhio con crescente interesse dagli esperti di settore di ogni parte del mondo.

Non più di cinquant’anni fa, al momento in cui ottenne l’indipendenza, Singapore aveva problemi di disoccupazione, sottodimensionamento delle infrastrutture, sovraffollamento, mancanza di alloggi e, nonostante le abbondanti piogge equatoriali, era afflitta da una permanente scarsità d’acqua che la costringeva a importarne dalla Malesia. Nonostante il forte aumento della popolazione residente sull’isola, passata dai circa 2 milioni degli anni Settanta ai 5,2 di oggi, gli sforzi sistematicamente compiuti negli ultimi decenni l’hanno rapidamente trasformata in una delle città più efficienti, ecologiche e sostenibili. I problemi urbani contemporanei sono strettamente interconnessi a quelli ambientali in generale e alle risorse idriche in particolare: non a caso, i tre appuntamenti internazionali sono stati gestiti in maniera coordinata, lasciando liberamente interagire la dimensione pubblica con quella privata, le industrie, le agenzie governative e i centri di ricerca, in una combinazione, pressoché unica, di interessi solitamente molto diversi, commerciali ed economici, scientifici e tecnologici, sociali e politici.

Il World Cities Summit è stato dedicato alle grandi aree metropolitane emergenti in Cina, Giappone, India e nel Sud-Est asiatico. Più in generale, alle città del mondo dove, senza dubbio, l’umanità si sta giocando il suo incerto futuro. La loro crescita, dal punto di vista geografico, demografico, economico, culturale ecc. appare inarrestabile: secondo le stime più recenti delle Nazioni Unite, gli abitanti delle città sono passati dal 40% della metà degli anni Ottanta a oltre il 50% di oggi; nelle parti del mondo in più rapida evoluzione, come l’Asia orientale, si è passati, nello stesso intervallo temporale, dal 29% al 50%. Un processo d’inurbamento forse irreversibile; ma anche, paradossalmente e nonostante i non pochi problemi che determina, un processo la cui eventuale reversibilità non appare affatto auspicabile.

La International Water Week, quest’anno dedicata al tema “Water Solutions for Liveable and Sustainable Cities”, ha avuto tra i suoi partner strategici la International Water Association, la International Desalination Association e la Singapore Water Association, oltre all’Institute of Water Policy, alla School of Public Policy, all’Asian Development Bank e alla World Bank. Da molte parti, soprattutto nei paesi sviluppati dell’emisfero settentrionale del pianeta, aprire un rubinetto e vederne sgorgare acqua potabile è dato per scontato, ma non sempre è così. Le politiche idriche sono cruciali per il futuro delle città: da una parte le riserve d’acqua sono limitate, dall’altra i fabbisogni delle grandi aree metropolitane – per bere e lavare, per l’agricoltura, l’industria e tutti gli scopi ricreativi – sono in costante aumento. Molti paesi estraggono dal sottosuolo più acqua di quanta se ne riformi: tali eccedenze sono stimate del 20% in Messico, 25% in Cina, 56% in India. In gran parte dell’Africa l’acqua è un bene così raro che per essa non si esita a scendere in guerra. Ma i nuovi processi e le nuove tecnologie di riciclaggio e desalinizzazione si stanno sviluppando a grande velocità e l’acqua, oltre a costituire un settore chiave per il futuro dell’umanità, è diventata anche uno straordinario business, vertiginosamente in via di sviluppo. Ancora una volta non a caso, Singapore è un importante, forse il più importante hidro-hub globale, un laboratorio all’interno di un eccezionale ecosistema idrico: con oltre cento compagnie operanti nel settore e 25 centri di ricerca specializzati, la città costituisce un punto di riferimento per tutti gli operatori internazionali che, a diverso titolo, stanno lavorando sulle risorse idriche. Un esempio, forse il più interessante di ciò che è stato fatto di recente a Singapore, è costituito da NEWater, un brand e, al tempo stesso, un progetto pilota in grado di trasformare l’acqua riciclata in acqua potabile, purissima e di altissima qualità. Ma Singapore ha anche spinto molto la ricerca nel settore del waste management, la gestione dei rifiuti solidi. La piccolezza del suo territorio insulare non consente di ricorrere a siti di stoccaggio e a discariche inquinanti: di qui la scelta di percorrere quella che costituisce l’unica strada intelligente praticabile, un approccio integrato che leghi l’acqua, i rifi uti e la produzione dell’energia all’interno di un ciclo virtuoso, la sola strategia in grado di garantire un’elevata qualità della vita al futuro dei suoi abitanti.

La National Environment Agency sta spingendo con determinazione sulla pratica delle tre “R”: riduci, riusa, ricicla. La zona di Marina Bay, ad esempio, sta sperimentando un innovativo sistema di raccolta pneumatica dei rifiuti che sarà operativo dal 2015. Gli alberghi con più di 200 camere e gli shopping mall con più di 4645 m2 di superfici commerciali affittabili devono fornire dati aggiornati sui propri rifiuti e, a partire dal 2014, dovranno dotarsi di piani che garantiscano la loro progressiva riduzione.

Nell’insieme, dall’evento di Singapore sono emerse ipotesi di lavoro e soluzioni innovative più o meno facilmente esportabili, anche se non va dimenticato che la progettualità alla scala metropolitana non è mai di breve periodo: per avere senso e produrre risultati concreti deve spaziare dai 20 ai 50 anni, ben al di là dei ristretti intervalli temporali di governi centrali e amministrazioni locali, spesso più preoccupati delle prossime elezioni che delle prossime generazioni. Pratiche virtuose sono oggi comunque registrabili in paesi e città molto diversi fra loro. Se le città tedesche e olandesi detengono da decenni, com’è noto, una consolidata leadership nel settore del trattamento dei rifiuti solidi, la Scozia, ad esempio, ha varato nel 2010 un rivoluzionario piano appropriatamente denominato “Zero Waste” che punta a raggiungere, nel 2020, un tasso di riciclaggio del 70% e il Parlamento scozzese, lo scorso maggio, ha promosso una nuova regolamentazione in base alla quale i rifiuti vengono considerati un’importante risorsa che, se ben gestita, contiene in sé elevate potenzialità di crescita economica. Sistemi centralizzati di raccolta pneumatica, simili a quelli di Marina Bay, si stanno sperimentando nel quartiere di Hammarby Sjöstad a Stoccolma e nella Tianjin Eco-city, a circa 40 km da Tianjin, in Cina: una nuova città ecologica al suo quarto anno di vita, destinata a ospitare 350.000 abitanti nel 2020, il cui progetto gestionale è frutto di una consulenza prestata dall’Housing Development Board (HDB) di Singapore. Ancora in Svezia, in particolare a Göteborg, si segnala il quartiere di Älvastaden, che grazie a case molto efficienti dal punto di vista energetico, a un efficace riciclaggio delle acque e a sistemi avanzati di gestione dei rifiuti, ha un impatto ambientale attualmente considerato fra i più bassi del mondo.

Un altro interessante esempio è costituito dal Domestic Solid Waste Management Center in Qatar, il primo in Medio Oriente e uno dei più grandi impianti al mondo di composting, cioè di trasformazione dei rifiuti con processi naturali, realizzato e gestito (per i prossimi vent’anni) da Keppel Seghers, una compagnia – non a caso di Singapore – specializzata nella cosiddetta impiantistica waste to energy. In grado di trattare ogni giorno 2300 tonnellate di rifiuti domestici solidi e 5000 tonnellate di materiali da costruzione provenienti dalle demolizioni, la struttura occupa un’area di 3 km2 non lontano da Mesaieed. Le materie organiche vengono convertite in biogas, la carta e la plastica incenerite e trasformate in energia elettrica, il metallo puntualmente riciclato. Per restare nella regione del Golfo, non possiamo non citare Masdar, la nuova città degli Emirati Arabi Uniti, a circa 17 km da Abu Dhabi, nei pressi dell’aeroporto internazionale. Commissionata dall’Abu Dhabi Future Energy Company allo studio inglese Foster & Partners, la progettazione è iniziata nel 2006; la realizzazione, portata avanti con capitali statali (una prima stima dei costi è pari a 22 miliardi di dollari), è cominciata nel 2008 e una prima, relativamente piccola parte è stata ultimata nel 2010. Il completamento della prima fase, rallentato dalla crisi economica mondiale, è previsto comunque nel 2015. Una volta finito – si parla del 2025 – il progetto sarà in grado di alloggiare circa 50.000 abitanti e 1500 imprese, soprattutto commerciali e manifatturiere e, più specificamente, nel settore dei prodotti e delle tecnologie ecosostenibili. Il nuovo insediamento è pressoché integralmente dipendente dall’energia solare (una centrale fotovoltaica che occupa 21 ettari è posta appena fuori dalla città) e da altre fonti rinnovabili, proponendosi come esempio eccellente di ambiente urbano sostenibile.

Dal 2010 la città ospita, fra l’altro, la sede del Masdar Institute of Science and Technology e qui avrà sede anche la International Renewable Energy Agency. L’impianto urbano, pur caratterizzato da un’immagine gradevolmente contemporanea, è saldamente radicato nella storia della città araba: quadrato; murato, per impedire l’accesso alle tempeste di sabbia e ai venti del deserto; servito da percorsi pedonali stretti, in ombra e naturalmente ventilati; munito di una conica e iconica torre dei venti al centro della piazza principale, in grado di sfruttare le correnti d’aria e raffreddare l’edificato circostante. Le auto sono bandite dall’intero perimetro urbano, tranne che nei percorsi sotterranei; i trasporti sono affi dati a sistemi pubblici su rotaia e ai Personal Rapid Transit (PRT), piccoli veicoli automatici o podcar, che fanno parte della classe chiamata Automated Guideway Transit (AGT), paragonabili ad ascensori orizzontali in grado di ospitare piccoli gruppi di persone, già operativi – in maniera completamente gratuita – dal novembre 2010.

Su tutt’altra scala, anche New York sta portando avanti con grande determinazione quella che si può definire una vera e propria nuova visione del futuro. Si tratta del celebre PlaNYC 2030, ambizioso piano lanciato dal sindaco Bloomberg nel 2007 e aggiornato nel 2011: uno sforzo senza precedenti per preparare la città a una nuova stagione urbana, rafforzare l’economia, contrastare i cambiamenti climatici e migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti. Dieci i principali obiettivi in agenda: housing, parchi e spazi pubblici, brownfi elds, corsi d’acqua, riserve idriche, trasporti, energia, qualità dell’aria, rifiuti solidi e cambiamenti climatici. Il tutto suddiviso in tre grandi parti: OpeNYC, per “aprire” e preparare la città ad accogliere il milione di nuovi residenti attesi nei prossimi vent’anni; MaintaiNYC, per garantire la manutenzione delle gigantesche, spesso obsolete infrastrutture, dai ponti ai tunnel, dalle reti di trasporto pubblico ai grandi impianti energetici; GreeNYC, per ridurre del 30% le emissioni nocive. In quattro anni sono stati realizzati un gran numero di nuovi parchi ed è partito un impegnativo piano di recupero di quelli esistenti; sono stati ristrutturati e realizzati ex novo oltre 64.000 alloggi; sono stati migliorati i trasporti pubblici; le emissioni nocive sono state ridotte del 13% rispetto ai livelli del 2005.

In tutt’altra parte del mondo, Istanbul, la città più popolosa d’Europa, ha in progetto il terzo ponte sul Bosforo ed è in corso di realizzazione il sistema ferroviario metropolitano Marmaray (da Marmara, il mare a sudovest del Bosforo, e ray che in turco significa ferrovia) che comprende un tunnel lungo 13,6 km – la cui parte centrale è costituita da un tubo a prova di terremoti lungo circa 1,4 km, poggiato sul fondo del Bosforo e in grado di ospitare un doppio binario – accessibile da Kazlıçeşme sul lato europeo e da Ayrılıkçeşme sul versante asiatico. Una volta completato (i lavori sono in corso da tempo, non senza difficoltà di ogni tipo) il tunnel farà parte del corridoio paneuropeo in grado di collegare l’Europa all’Asia (e Istanbul ad Ankara) con una linea ad alta velocità.

Ancora in Europa, in particolare a Madrid, è stato realizzato il Parque Madrid Rio, un sistema ecologico fluviale lungo quasi 10 km che ospita aree verdi (oltre 25.000 i nuovi alberi), impianti sportivi, piste ciclabili ecc. Qualcosa di simile, ma esteso per 35 km, è in corso di realizzazione nella metropoli statunitense di Atlanta, in Georgia, con la Atlanta Beltline, eccellente esempio di recupero di un corridoio industriale abbandonato: un progetto partito dalla tesi di Ryan Gravel, uno studente del Georgia Tech, il cui sviluppo è previsto nel corso dei prossimi venti anni.

Potremmo continuare a lungo – ben al di là dei limiti imposti a questo contributo – con i tanti esempi di soluzioni sostenibili per le città del XXI secolo che si stanno moltiplicando da una parte all’altra del mondo. Ma preferiamo concludere con un interrogativo (cui provare a dare una possibile risposta) che, da architetti, ci sta maggiormente a cuore: qual è il ruolo giocato dall’architettura su di uno scacchiere così complesso? Marginale, temiamo, se la progettualità viene ridotta a semplice gioco formale: senza negare l’importanza di alcuni spettacolari edifici recenti nelle complesse dinamiche evolutive delle maggiori città contemporanee, è facile assistere alla loro degenerazione al rango di cliché abusati e sempre meno interessanti. Centrale, ci auguriamo, se la progettualità è invece in grado di raccogliere e rispondere, con competenza e creatività, alle grandi sfide professionali poste dall’era urbana. È ciò che – forse – intende dire Peter Eisenman, fra gli architetti e gli intellettuali più attenti e sensibili della scena contemporanea, quando scrive: «A mio giudizio, con il progetto l’architetto definisce il mondo (…) Con la professione, il mondo definisce l’architetto».1

 


[1] Citato in T. Gannon, March Madness, in “SCI ARC”, n. 4, p. 7.
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