I nodi irrisolti della via socialista alle presidenziali del 2012

Di Jean-Marie Colombani Lunedì 26 Settembre 2011 17:50 Stampa
I nodi irrisolti della via socialista alle presidenziali del 2012 Illustrazione: Marina Sagona

Con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali la sinistra francese, che sembra avere gioco facile grazie al diffuso antisarkozysmo e alla debolezza in cui versa la coalizione di destra, vede invece delinearsi con sempre maggior chiarezza le tante questioni ancora irrisolte. In particolare per quanto riguarda le difficili scelte da compiere in merito alle strategie di crescita economica e sviluppo del paese.

 

La tragedia di Oslo dello scorso luglio contribuisce a ricordarci di che cosa è anche fatta la politica, ovvero che se la democrazia, la vita pubblica democratica moderna, è fondamentalmente una macchina per canalizzare e contenere la violenza, questa è pur sempre in agguato. La sinistra lo sa per averlo vissuto a proprie spese in numerose occasioni nel corso della storia. Così il folle omicida norvegese aveva per obiettivo i giovani laburisti, e in particolare i valori che questi volevano difendere, quelli di una società aperta, basata sul rispetto della diversità (sociale o etnica) e che crede nei vantaggi dello Stato sociale.

Ironia della sorte, è proprio la città di Oslo che i socialdemocratici e i socialisti europei avevano scelto per riunirsi qualche settimana prima, sotto l’egida di Policy Network, un think tank internazionale presieduto dall’ex ministro britannico ed esperto della Terza via dei laburisti britannici, Peter Mandelson. La riflessione verteva sull’individuazione delle priorità della sinistra progressista in Europa. I dibattiti erano stati segnati soprattutto dall’intervento del primo ministro greco, George Papandreou, impegnato sul fronte più difficile, cioè quello dei conti devastati della Grecia, e nello scontro con l’incomprensione di una parte non trascurabile del suo elettorato. Anche la partecipazione del presidente della Serbia, Boris Tadic´, non è passata inosservata: la sua presenza, infatti, prefigurava un avvicinamento alla sinistra europea (nella prospettiva della domanda di adesione della Serbia all’Unione europea), sancendo così la fine della tragedia dei Balcani, iniziata con la disgregazione della Jugoslavia.

Tutto questo per mostrare il carattere internazionale delle questioni affrontate dai responsabili progressisti europei. In compenso, a quella riunione di Oslo non vi è stata alcuna traccia di un responsabile politico della sinistra francese; fatto salvo per Olivier Ferrand che guida Terra Nova, think tank francese vicino al Partito socialista e al movimento che ieri era detto strauss-kahniano, corrispettivo di Policy Network ma senza la dimensione internazionale di quest’ultimo. Nel corso degli anni, i partecipanti ai dibattiti di Policy Network, provenienti da tutto il pianeta, solo di rado hanno potuto ascoltare Laurent Fabius, un po’ più spesso Dominique Strauss-Kahn, che era di gran lunga il responsabile francese più noto e apprezzato. Ma di Martine Aubry o di François Hollande, vale a dire delle due personalità francesi suscettibili di portare i colori della sinistra nel 2012 in opposizione a Nicolas Sarkozy, neanche l’ombra! Nessuna curiosità da parte loro. La sinistra francese, quella che aspira legittimamente a governare, è senza dubbio europea. Si dichiara tale e non ha parole abbastanza dure per condannare lo “splendido isolamento” britannico e per opporsi alla Terza via del Labour, che giudica troppo di destra. Eppure pratica essa stessa quell’isolamento, trascurando il fatto che i problemi incontrati sono in gran parte comuni e lo sono soprattutto per quei paesi che condividono il proprio destino all’interno dell’Eurogruppo. La mondializzazione e l’individualismo sono le due facce di uno stesso mondo globalizzato che si scontra decisamente con le dottrine tradizionali della sinistra. I dibattiti di Oslo avevano dedicato ampio spazio al malessere che affligge le classi medie, determinato dalla paura del declassamento e dell’immigrazione, nonché dalla tentazione di chiudersi in se stessi e di attuare una politica protezionistica ispirata alle teorie della deglobalizzazione. Paradossalmente, le sinistre, ed è certamente vero per la sinistra francese, sono impregnate di un pessimismo diffuso che si ritrova un po’ dappertutto negli stessi termini. Nel momento in cui la crisi finanziaria, che ha avuto come epicentro Wall Street e la City di Londra, ha rischiato di travolgere i sistemi finanziari del pianeta e ha mostrato il fallimento di una certa forma di capitalismo, la questione centrale è capire perché le opinioni pubbliche non si siano orientate in massa verso i socialdemocratici. Forse perché questi ultimi hanno pensato che avrebbero beneficiato di una sorta di effetto di bilanciamento automatico e sono rimasti passivi e spesso a corto di idee.

In ogni caso, non si fa altro che cercare di convincere tutti che la globalizzazione (primo fattore ad alimentare la paura nelle nostre società) vada vista in prospettiva e debba essere vissuta di più come una speranza; paradossalmente, la globalizzazione è vista in modo più dinamico proprio nei paesi del Nord Europa, come la Norvegia o la Svezia, mentre in Francia e in Italia si è consolidata l’idea di una globalizzazione sinonimo di declino. Mentre, al contrario, siamo entrati in un mondo in cui, se l’Europa saprà unire le sue forze, le opportunità si moltiplicheranno.

Da questo punto di vista le sinistre europee, se vogliono tornare a essere il simbolo di una speranza, devono insistere sulla strada di una maggior integrazione dei paesi della zona euro. È evidente, infatti, che il XXI secolo può essere strutturato, economicamente e finanziariamente, in tre grandi aree monetarie: l’area del dollaro, quella dell’euro e quella dell’Asia- Pacifico, che gravita intorno allo yuan cinese.

Se si cerca un punto di accordo tra socialisti e socialdemocratici, questo è indubbiamente da ricercare in una argomentata critica del capitalismo, dal momento che la destra non ha altro da offrire se non la perpetuazione di ciò che esiste.

È responsabilità della sinistra riuscire a discernere il cattivo capitalismo dal buon capitalismo; il primo è quello che si è sviluppato nel primo decennio degli anni 2000, quello della cupidigia e della corsa al rendimento a due cifre, la quale, per motivi di speculazione e di accelerazione dei plusvalori finanziari, ha portato molte imprese allo smantellamento o alla scomparsa; il secondo, invece, è quello che poggia sull’innovazione, che è anche una costruzione sociale e politica. A questo capitalismo, dunque, i progressisti devono aggiungere equità e giustizia.

L’equità vorrebbe che si insistesse sul merito più che sull’assistenza; il che rappresenta una difficoltà precipua in Francia, dove ci si trincera dietro un obiettivo di eguaglianza sempre più svuotato di senso e di realtà. In ogni caso, tutti dovrebbero concordare riguardo la necessità di riabilitare l’investimento sociale e l’urgenza di combattere l’idea che la spesa sociale sia per sua natura improduttiva, quando invece rimane un elemento indispensabile della crescita e del capitalismo dal volto sociale, che si deve contrapporre con urgenza ai diversi programmi delle destre europee.

Rispetto a queste diverse poste in gioco, come si presenta la sinistra francese? Apparentemente essa si trova in una situazione comoda, per lo meno in termini di consenso dell’opinione pubblica; e questo perché la Francia, alla metà del 2011, e a meno di un anno dalla scadenza decisiva delle elezioni presidenziali del 2012, è segnata dal rifiuto del sarkozysmo. Due francesi su tre non hanno più fiducia nel presidente e il 56% di loro auspica la vittoria della sinistra. Nelle proiezioni sulle intenzioni di voto, al momento il candidato socialista (che si tratti di François Hollande o di Martine Aubry) è in testa alla corsa, nonostante il ritiro brutale di Dominique Strauss-Kahn. Si aggiunga che ovunque i governi, sotto l’effetto della crisi, sono impopolari: la destra conservatrice di Angela Merkel perde le elezioni regionali una dopo l’altra; il popolo italiano, attraverso un referendum spettacolare, ha manifestato la sua volontà di mandare in pensione Silvio Berlusconi; il socialista Zapatero è messo alla gogna in Spagna; il britannico Cameron, appena un anno dopo essere stato eletto, non potrebbe trovarsi in una posizione più delicata e così via. Per la sinistra francese, dunque, è grande la tentazione di puntare in maniera pura e semplice su questo rifiuto, aspettando che il frutto maturo cada dall’albero. E forse le cose andranno davvero così, sebbene questo atteggiamento non sia esente da pericoli per una ragione principale: per il momento, Nicolas Sarkozy era il solo a cristallizzare contro di sé le opposizioni, le insofferenze, i nervosismi della società francese. Nel momento in cui avrà di fronte a sé uno sfidante di sinistra, la tensione che si trova nell’atmosfera si distribuirà in maniera più equilibrata; si passerà dunque da una critica assoluta del potere, che monopolizzava il linguaggio e la comunicazione, a un atteggiamento più circospetto da parte dei francesi che metteranno a confronto i due candidati. Sarà allora che la sinistra dovrà essere in grado di convincere e di suscitare un minimo di adesione e che l’antisarkozysmo rischierà di diventare controproducente perché potrebbe passare, agli occhi dei francesi, come un alibi destinato a mascherare un’assenza di proposte e di alternative credibili. Di conseguenza, ai primi del mese di dicembre, sapendo che di solito l’opinione pubblica francese compie la sua scelta tra metà gennaio e metà marzo (il primo turno si terrà il 22 aprile), il paesaggio politico dovrebbe essere più equilibrato e la competizione più aperta di quanto non appaia nel momento in cui vengono scritte queste righe.

Prima di allora, però, i socialisti affronteranno le elezioni primarie, alle quali concorrono sei candidati: Martine Aubry, Ségolène Royal, François Hollande, Arnaud Montebourg, Manuel Valls e Jean- Michel Baylet. I socialisti si trovano dunque con le spalle al muro; quello che essi stessi hanno eretto: le primarie. Processo inedito, perché le precedenti (organizzate nel 2007 e che avevano portato alla designazione di Ségolène Royal) erano state riservate ai soli militanti del PS. Questa volta, invece, le primarie sono aperte: chiunque figuri nelle liste elettorali e si richiami ai valori della sinistra, può partecipare versando un euro. Processo contraddittorio, pericoloso ma audace.

Forte è la contraddizione tra la natura del PS, formazione essenzialmente parlamentarista, con la sua rete di eletti, e l’iper-presidenzializzazione della vita pubblica. La prima vorrebbe che, a conclusione di un congresso che elegge una direzione e sceglie una linea politica, questa portasse i colori del PS all’elezione presidenziale. Ma i socialisti si piegano alla seconda, dunque all’idea per cui si può esistere soltanto se si è “presidenziabili”. Di qui l’inflazione delle candidature e la guerra permanente degli “ego”. Le primarie sono dunque il processo con cui il PS affida ai suoi simpatizzanti il compito di decidere la questione, rimasta irrisolta fin dal ritiro di Lionel Jospin, della sua leadership. Processo ad alto rischio se venisse mal gestito e si trasformasse in una competizione selvaggia senza un vero confronto di idee. A questo proposito un esempio è rappresentato dalle primarie ecologiste. Spetta dunque ai leader socialisti, e in primo luogo alle due personalità meglio piazzate, François Hollande e Martine Aubry, fare il possibile per contenere la loro reciproca ostilità.

Hollande pare sempre guidato dagli orientamenti dell’opinione pubblica. Parla della Francia e costruisce il suo discorso intorno alla frattura generazionale che intende combattere. Ma (come è nella natura delle primarie), la sua persona tende a fondersi nello stampo del programma del PS. La Aubry naturalmente è sostenuta da una legittimazione a lei favorevole e si fa forte del programma del partito di cui è l’iniziatrice e di cui vuol essere la beneficiaria. Una volta designata, per ampliare il suo consenso, può contare sull’immagine e sull’impegno di Jacques Delors; e soprattutto, in caso di secondo turno alle primarie, sul sostegno di tutti gli altri, tanto che i preparativi iniziano ad assomigliare a un “tutto tranne Hollande”.

Il loro faccia a faccia sarà disturbato da due outsider, Ségolène Royal, l’indistruttibile, la cui presenza ricorda al futuro vincitore che dovrà fare i conti con lei; e Arnaud Montebourg, che ha scelto un’identificazione facile e demagogica – la deglobalizzazione –, che mette in evidenza come la posizione di una parte della sinistra sia ormai apertamente protezionista.

A proposito delle primarie si possono formulare due ipotesi: o le primarie seducono soltanto un pubblico militante, e il vantaggio dovrebbe andare in tal caso a Martine Aubry; o il corpo elettorale, grande incognita di questo scrutinio, sorprenderà per la sua diversificazione e la sua ampiezza: la partita, allora, sarebbe tutta da giocare. Nel primo caso, sarà premiato il miglior radicamento a sinistra; nel secondo caso, colui o colei che parlerà meglio della Francia.

Ma i socialisti devono essere consapevoli di una cosa: Nicolas Sarkozy non lascerà loro alcuna tregua, lui che eccelle nell’arte della schivata e del contrattacco. Ma il processo cela anche la sua parte di audacia. Così, dal duello con Hillary Clinton, Barack Obama è uscito con un’immagine e un credito inalterabili che nessuna critica da parte dei repubblicani è riuscita a intaccare. È il meglio che Martine Aubry e/o François Hollande possono aspettarsi dalle primarie.

L’una e l’altro, tuttavia, dovranno gestire la delicata questione del programma del PS. Testo programmatico che ha permesso a Martine Aubry di consolidare la sua autorità e le sue alleanze all’interno del PS, che descrive come «seriamente di sinistra e di una sinistra seria». Testo rispetto al quale una buona parte dell’opinione pubblica si aspetta che François Hollande prenda le distanze, e che allo stesso tempo per lui costituisce un vincolo rispetto a un buon numero di militanti, se desidera superare lo scoglio delle primarie. Il vantaggio tattico, quest’estate, è stato piuttosto a favore di François Hollande. Costui ha colto al balzo la promessa fatta da Martine Aubry di moltiplicare il budget per la cultura e vi ha opposto l’idea che, se la sinistra vuol essere seria e convincente, deve evitare di promettere quel che non potrà mantenere. In realtà, anche Martine Aubry ha dovuto ammettere che la Francia dovrà ridurre il deficit delle finanze pubbliche al 3% del PIL nel 2013. Scadenza che François Hollande e Manuel Valls le hanno ricordato. C’è stata la crisi greca. Ma al di là di questo, è tutto il programma del PS che verrà passato al vaglio, una volta designato il candidato (o la candidata). Con una difficoltà: tutto il testo si basa sul ritorno dello Stato, dunque in parte su nuove spese, tra cui una banca pubblica di investimento, investimenti per cambiare l’equilibrio della politica energetica o per rivalorizzare l’agricoltura, la creazione di 300.000 posti di lavoro riservati ai giovani, l’aumento del salario minimo e così via. È già noto il tema che vi opporrà Nicolas Sarkozy: la crisi fa sì che i socialisti siano al di sopra dei nostri mezzi; non abbiamo più le risorse per permetterci (non fosse che per qualche anno) la sinistra al potere – spiegherà ai francesi, agitando lo spettro della Grecia. Il PS dovrà dunque trovare risposte rapide a questa critica, a rischio di far preoccupare in anticipo una parte del suo elettorato. Oltre al suo problema di deficit, però, la debolezza attuale della Francia si legge in una sola cifra, quella del deficit estero: cinquanta miliardi di euro. È il problema più grave del paese. Quello che indica una perdita di competitività. E nonostante la Francia sia forte dei suoi campioni mondiali – Saint-Gobain, Areva, EDF Suez, Veolia, l’industria aeronautica, ma anche le banche – manca di piccole e medie imprese esportatrici. I campioni fanno sempre maggiori profitti, ma investono, e soprattutto assumono personale, fuori dalla Francia. Le piccole e medie imprese, dal canto loro, sono sempre meno numerose, il che spiega il livello della disoccupazione. La disoccupazione: autentico cancro delle nostre società. Battaglia persa per Nicolas Sarkozy (solo il governo di Lionel Jospin era riuscito a diminuire in maniera significativa il tasso di disoccupazione), ma che in caso di vittoria della sinistra segnerà il grado del suo successo o del suo fallimento.

Al di là di tutti questi problemi di fondo, dobbiamo ricordarci di François Mitterrand. Egli sosteneva che in Francia la sinistra è strutturalmente minoritaria: intorno al 40% o meno al punto più basso, ma mai più del 47 o 48% al punto più alto. Poiché la maggioranza strutturale in Francia va alla destra, accresciuta dal centrodestra e dall’estrema destra. Per François Mitterrand dunque, la sinistra può vincere un’elezione presidenziale solo se la destra è divisa. Oggi la destra lo è, come attesta il tentativo di candidatura al centrodestra di un Jean-Louis Borloo, uno degli elementi del dispositivo di Nicolas Sarkozy. Lo è anche perché una parte della destra ha rimproverato al presidente il suo stile, il suo modo di esercitare la funzione presidenziale: questa parte della destra non accetta che Nicolas Sarkozy infranga i codici della funzione presidenziale. Cosa che quest’ultimo tenta ora di correggere. Una buona parte della prospettiva di successo o di insuccesso della sinistra dipende dunque da quale sarà lo stato della destra all’inizio del 2012. E poiché stiamo evocando François Mitterrand, non dimentichiamo un aspetto essenziale; poco prima di lasciare la presidenza, in qualche modo quest’ultimo aveva affidato due comandamenti testamentari, che ai miei occhi sono sempre attuali: la Francia non deve mai separare il proprio destino da quello della costruzione europea; la sinistra non deve mai separare la lotta per l’eguaglianza da quella per la libertà.

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