Ripensare la sinistra per rispondere alla crisi

Di Alfredo Reichlin Lunedì 09 Luglio 2012 14:53 Stampa

Non è possibile ragionare di sinistra se si prescinde dal quadro storico, del tutto nuovo rispetto agli sviluppi del Novecento, in cui ci muoviamo, e che è caratterizzato dal fenomeno della mondializzazione e, al tempo stesso, dal fallimento del tentativo di governare per via fi nanziaria questa vicenda storica e la formazione di una nuova umanità plasmata su di essa.

 

Non è possibile ragionare di sinistra se si prescinde dal quadro storico, del tutto nuovo rispetto agli sviluppi del Novecento, in cui ci muoviamo, e che è caratterizzato dal fenomeno della mondializzazione e, al tempo stesso, dal fallimento del tentativo di governare per via finanziaria questa vicenda storica e la formazione di una nuova umanità plasmata su di essa.

La guerra delle monete, in corso in questi mesi, sta rimettendo in gioco non solo l’euro, ma tutti i grandi vecchi poteri: quello dell’Europa e, al suo interno, di paesi di antichissima civiltà come la Grecia, ma anche, su un piano diverso, il ruolo delle forze di sinistra e delle classi subalterne. È in questo quadro che si inserisce questa riflessione sul problema di come ricostruire in modo organico, cioè al di là delle contingenze politiche, il rapporto tra partito della sinistra e mondo del lavoro. Un rapporto che si fonda sull’essere percepiti dai lavoratori come “cosa propria”, come forza che, a prescindere dalla sua momentanea forza o debolezza o da alcune criticabili scelte fatte, venga considerata dal lavoratore come il proprio usbergo. Insomma, ciò che la sinistra è stata nel passato e che non è più.

Può un partito come il PD pensare di tornare a essere tutto questo? Oppure, addirittura, possiamo pensare che per noi non sia più necessario esserlo? Non è facile rispondere a questo cruciale interrogativo. Tralasciamo, nel farlo, molte analisi di taglio sociologico, che pur sarebbero necessarie, per partire, invece, da una riflessione sulle nuove forme della politica, cioè sull’attuale grande crisi della democrazia moderna intesa nel suo senso più profondo: crisi delle sovranità (chiediamoci: chi comanda davvero?) e, al tempo stesso, del legame sociale, per cui la nuova umanità sembra andare verso l’ignoto e la vita dell’individuo perde di senso. Alla luce di ciò, assume una nuova centralità il rapporto tra la questione sociale (che riesplode in maniera drammatica non solo nelle nuove, abissali ingiustizie materiali, ma anche in quelle antropologiche, di civiltà) e le manifestazioni del potere nell’epoca della finanza globale, e diviene possibile domandarsi, anche azzardando un po’, se a partire dalle forme nuove dell’attuale sviluppo storico e umano si possa cominciare a intravedere la sagoma di un antagonista, cioè di una forza capace di ridefinire i termini del conflitto, non solo italiano, e che su questa base trovi nuove armi e nuovi protagonisti.

A questo scopo, però, diventa pregiudiziale liberarsi da una lettura economicistica di questa trasformazione del mondo, per pervenire, finalmente, a una lettura della vicenda di questi anni con occhi diversi: gli occhi della grande cultura storica e politica. Potremmo così tornare a chiamare le cose con il loro nome. Solo per fare un esempio: vogliamo davvero comprendere le ragioni di questa feroce guerra intorno all’euro? Proviamo allora a pensare un po’ meno al peso dei debiti sovrani e un po’ più al colpo che, ove la moneta unica europea si consolidasse, subirebbero il dollaro in quanto moneta di riserva e il privilegio degli Stati Uniti di vivere al di sopra delle proprie capacità. Cambierebbero gli equilibri del mondo attuale e l’entrata in scena della zona più ricca e più colta del mondo con il ruolo di protagonista renderebbe finalmente pensabile un approccio completamente diverso alla questione sociale.

Di cosa parliamo quando discutiamo di mercati e di finanza? Una cosa è la finanza in quanto strumento necessario, regolato dalla legge, che raccoglie il risparmio e lo trasforma in investimenti produttivi, consentendo così al lavoro e all’ingegno umano di scommettere sul futuro e investire in progetti che accrescano la ricchezza sociale. Tutt’altra cosa è la decisione fatale, tutta politica, presa negli anni Settanta dall’oligarchia allora dominante, quella angloamericana, che consegnò ai conglomerati finanziari il potere di far circolare senza alcun controllo i capitali mondiali. E, al tempo stesso, di creare mega macchine capaci di moltiplicare una ricchezza in buona parte virtuale (titoli, scommesse, carte di credito, derivati) senza contropartita nella produzione reale: nasceva il denaro fatto con il denaro; si creavano i presupposti per un mondo inondato di debiti.

Si è così impresso un cambiamento enorme alla storia moderna. Forse non si può chiamare capitalismo il sistema che abbiamo visto all’opera in questi anni e che ha distrutto la civiltà del lavoro e con essa una condizione importante del progresso umano. È, però, certo che non abbiamo assistito solo a una classica controffensiva padronale, e quindi a una sconfitta del lavoro, cosa che in sé non sarebbe affatto nuova. È avvenuto ben altro: si è rotto un ordine, quell’ordine del capitalismo industriale che segnò un grande balzo in avanti del mondo moderno, di cui si sono indagati in profondità tutti gli aspetti ma di cui, forse, non si sono sottolineate abbastanza le condizioni non economiche che ne erano alla base. Esse consistevano in un compromesso, su cui tutto si reggeva, per cui allo sfruttamento del lavoro e alla sua trasformazione in merce corrispondeva l’uscita della plebe dai tuguri e la sua trasformazione in un insieme di cittadini tutti con uguali diritti.

Nasceva anche la civiltà del lavoro, in cui Ford sfruttava i suoi operai ma pagava salari sufficientemente alti da permettere a questi ultimi di comprare le automobili che producevano; in cui Agnelli, pur essendo estremamente potente, doveva trattare da pari a pari con Lama, che aveva alle sue spalle un esercito: il sindacato. Certo la storia è molto più complicata, ma è semplicemente ridicolo pensare che questa evoluzione abbia proceduto secondo le logiche razionali dei mercati che si autoregolano. Si è trattato, in realtà, di una storia di grandi compromessi tra politica ed economia, avvenuta non in maniera pacifica e lineare, ma attraverso il dispiegarsi di vicende alterne, di grandi rivoluzioni e di due guerre mondiali: mentre gli Stati Uniti inventavano il New Deal, il movimento operaio italiano, ad esempio, veniva schiacciato dal fascismo.

Allo stesso modo, oggi siamo immersi in una rivoluzione digitale che apre nuovi orizzonti per tutti, ma che per il momento ha l’effetto nefasto di consentire all’oligarchia dominante di spostare con un clic enormi somme di denaro, tali da gettare sul lastrico un paese dalla storia millenaria come la Grecia.

In questo sta la “rottura di un ordine” che prima richiamavamo: in un fenomeno che non è paragonabile alle tante forme di capitalismo che si sono succedute nel tempo; nelle conseguenze della rottura del rapporto tra il capitalismo e la democrazia e che rendono, oggi più che mai, un tutt’uno la questione sociale e la questione democratica.

È questo un punto cruciale: come far leva sulle nuove grandi contraddizioni che si sono venute a creare, in modo da poter fare della sinistra moderna un profeta armato? Il movimento socialista dominò il secolo scorso non solo perché difese gli ultimi, ma anche perché inventò strumenti di lotta straordinari, dal sindacato al suffragio universale, dal partito politico di massa allo Stato sociale, costringendo così il capitalismo industriale a un compromesso democratico.

Contro chi combattiamo noi oggi? E con quali armi? Dietro alla potenza dei mercati finanziari non ci sono i misteri di chissà quale scienza. C’è la formazione di una plutocrazia mondiale dalla potenza inedita, impressionante. Per certi versi siamo tornati alla fase precedente alla Rivoluzione francese, di cui l’aumento delle diseguaglianze sociali è l’aspetto più clamoroso. I dati descrivono livelli di concentrazione delle risorse paragonabili solo a situazioni storiche precapitalistiche, a regimi imperiali o feudali. Negli Stati Uniti, ad esempio, la famiglia Walton, proprietaria della catena di ipermercati Walmart, possiede un patrimonio superiore a quello di alcuni milioni di cittadini americani messi insieme.

Ciò che più colpisce, però, è che ormai i ricchi definiscono le leggi, impongono i governi, comprano i partiti, dettano l’agenda politica. E per di più lo fanno difesi da un sistema dell’informazione che è loro complice e che martella ogni giorno le menti con la menzogna che la fonte di tutti i guai è data da un ceto politico, certamente miserabile, ma che, in realtà, non conta più nulla. Pesano, invece, fenomeni di dimensioni globali, come lo spostamento del centro del potere decisionale dalle istituzioni rappresentative ai grandi conglomerati finanziari, fenomeno che è poi, in ultima istanza, all’origine di quest’onda, anche torbida, di protesta che attraversa la società.

I ceti popolari non si sentono più rappresentati, avvertono la vacuità della vecchia politica e finiscono con il confondere la sinistra con l’establishment. Possiamo disprezzare i demagoghi che ne approfittano, ma se la sinistra riformista non vuole essere confusa con “chi comanda” deve convincersi che è tempo di ridefinire le ragioni del riformismo in rapporto a una analisi nuova e più seria della “questione sociale”.

La questione sociale, questa questione di cui da anni la sinistra si occupa poco, è giunta davvero a una svolta, ed è importante che larga parte delle leve più giovani del Partito Democratico si stia liberando da una condizione di subalternità rispetto alle idee dominanti tipiche di un certo riformismo liberista, che aveva molto attecchito nel partito. Ma il problema non è solo sapere meglio “contro chi” la sinistra deve combattere, cioè contro le vecchie idee liberiste. Bisogna anche sapere che i rischi sono talmente gravi e le forze conservatrici sono di tale potenza che il tema ineludibile, e che legittima l’avvento di una nuova classe dirigente, è quello relativo al “con chi” combattere, cioè alla capacità di ridefinire le alleanze possibili. Al cuore del conflitto, infatti, non vi è più solo l’antagonismo tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo della produzione, cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa, che sta subendo una forma nuova di sfruttamento. Se è così, ci sono le condizioni per alleanze più larghe. Pesa sui produttori di merci e di beni pubblici l’onere di stringere la cinta per garantire i guadagni e i lussi della rendita finanziaria, per di più esentata dal pagamento delle tasse. La miseria pubblica alimenta la ricchezza privata. Avviene, con questo processo, qualcosa che colpisce le ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile. Stiamo assistendo non solo ai fallimenti dell’economia finanziaria ma al definirsi di un problema inedito di “legittimità”.

Dove va il mondo se l’individuo, lasciato solo, non può fare appello a quelle straordinarie capacità creative che non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall’intelligenza accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umana?

Il “mondo del lavoro” è tutto questo. E sta qui la ragione di fondo della scelta di tornare a porre alla base della sinistra la rappresentanza del mondo del lavoro. A condizione, però, di uscire da una vecchia visione del rapporto tra il partito e la società, per guardare alle nuove forme in cui si può ricostruire il legame sociale, restituendo alla democrazia il suo ruolo, che è quello di dare voce e potere alle classi subalterne. Fermare il predominio globale del capitale finanziario è possibile? Sì, ma solo se l’individuo saprà rompere il suo isolamento e comincerà a muoversi in modo creativo insieme agli altri individui. Questa è l’arma. L’enorme potenzialità che c’è nell’umanità che si sta formando.

«Che cos’è la ricchezza – sosteneva un vecchio intellettuale europeo dell’Ottocento, tedesco ed ebreo, Karl Marx – se non il pieno sviluppo del dominio dell’uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta “natura”, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fi ne a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane, come tali, non misurate su di un metro già dato?».

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