Habemus Nanni?

Di Dario E. Viganò Martedì 19 Luglio 2011 10:59 Stampa
Habemus Nanni? Illustrazione: Serena Viola

L’ultimo lavoro di Nanni Moretti segna una svolta nella cinematografia del regista romano, che questa volta sembra farsi da parte per lasciare spazio a tematiche, codici, linguaggi meno personali, meno “morettiani”. Abile a non cadere nella facile trappola dell’anticlericalismo e dei più banali stereotipi sulla Chiesa, “Habemus Papam” si configura come un’opera matura, stratificata e aperta a una pluralità di letture e di temi; una riflessione sul potere, sulla religione, sulla responsabilità: sull’uomo.

Nella filmografia di Nanni Moretti “Habemus Papam” è un titolo che fatica a trovare posto; operazione spiazzante, forse ancor più de “Il caimano”. Inizia con le immagini di archivio della RAI. È il funerale di Giovanni Paolo II, una distesa rosso porpora di cardinali assiste impietrita alla cerimonia. Alle spalle, una folla composta di fedeli, allineata come un esercito in lutto, sosta in prossimità del colonnato. L’immagine è leggermente rigata, la grana impercettibilmente corrosa. Dura pochi minuti, ma sono sufficienti a segnalare uno scarto rispetto al sistema di attese di un pubblico abituato ai lavori del regista. Sorprende, infatti, l’irruzione della televisione nella struttura visiva del film. In apparenza funzionali al racconto, quelle immagini indicano, di fatto, un duplice tradimento: anzitutto di Moretti rispetto alla propria prassi autoriale – Nanni accetta di incamerare dentro il proprio universo autogeno un corpo estraneo (e che corpo estraneo! Bisogna considerare i significati di cui la TV è stata investita in Italia negli ultimi vent’anni, in termini di linguaggio estetico e politico) – e, in secondo luogo, del film nei confronti del pubblico, perché prima lo indirizza, tramite una chiara formula enunciativa e la natura stessa dell’enunciato (ovvero con la riconoscibilità della tipica ripresa “dal vero”, e con il fatto che l’evento ripreso fosse noto a tutti), verso una narrazione di tipo realistico/storico, poi lo catapulta in un presente fuori dal tempo, dentro un mondo di fantasia.

Perché quel riferimento forte, preciso, inequivocabile a Karol Wojtyla? È solo una delle tante questioni poste dal film, concepito essenzialmente come opera stratificata, un insieme architettonico di avventure ermeneutiche, disponibile a una ridda di interpretazioni. Certo è che quelle immagini televisive segnalano un atteggiamento diverso del cinema morettiano, disposto a dialogare in questa occasione con istanze enunciative, codici estetici e forme discorsive che non siano per una volta diretta emanazione del suo autore. Più che da un punto di vista strettamente narrativo, dunque, la scelta è importante sotto il profilo dell’atteggiamento, nel senso che l’autore – possiamo dire – non è più “autarchico”. Lo conferma del resto il ruolo che Moretti si ritaglierà all’interno della storia, defilato in termini di presenza, marginale dal punto di vista degli effetti. È un cambio di passo decisivo per cogliere la portata – simbolica, poetica e politica – dell’operazione, su cui rifletteremo dopo un’ulteriore sosta analitica sull’incipit del film, il quale esibisce uno scarto tra le immagini d’archivio che rimandano a un evento preciso, reale, e l’edificio narrativo costruito da Moretti, esplicitamente metaforico e metastorico.

Che rapporto c’è tra le due parti del film? Perché questo accenno implicito alla storia più recente, negato immediatamente dopo dal ricorso alla finzione, all’invenzione, alla deformazione simbolica? La scelta è drammaturgicamente pertinente. Infatti quelle immagini di costernazione e di sconforto da parte dei fedeli riuniti a San Pietro rimandano a quelle finali – “costruite” – che sempre a San Pietro mostrano di nuovo una folla di persone sconcertate dal rifiuto del neoeletto papa ad assolvere il compito che gli è stato assegnato. Da una parte – che potremmo chiamare “vera” – un papa che non c’è più; dall’altra – quella “inventata” – un papa che non vuole esserci. Come un cerchio che si chiude, “Habemus Papam” – beffardamente – si dà come compiuta negazione del discorso che, da titolo, annuncia. La storia di una successione impossibile, di un vuoto di potere che perdura a dispetto di una formula (l’habemus papam appunto) che lo vorrebbe negare. L’atto formale non ratifica una realtà di fatto, ma da questa viene anzi smentito, costretto a mordersi la lingua, come evidenzia la bocca paralizzata del protodiacono mentre sta per annunciare l’elezione.

Una delle contrapposizioni più insistite nel film è in effetti quella tra una parola che dice – ma non fa – e un silenzio che agisce. La figura dello psicanalista interpretato da Moretti versa ad esempio nella prima situazione: egli consiglia, ammonisce, sentenzia, ma tutti i suoi sforzi sono votati all’inefficacia. Dall’altra parte sta invece il recalcitrante papa, il quale il più delle volte non riesce a esprimere il suo disagio, balbetta persino, ma alla fine agisce in maniera efficace. Ovvero con coerenza. È nell’accordo/disaccordo tra intenzioni, azioni e discorsi che Moretti costruisce la doppia strategia retorica del film, assegnando evidentemente solo al primo un’autentica valenza positiva. Il merito del regista è quello di non aver permesso a questa contrapposizione di fondo di scivolare verso un’esplicita strut - tura polemica. Anzi, “Habemus Papam” è un’opera che tratta con rispetto ciascuno dei suoi protagonisti. Non a caso è tutto il Vaticano a uscire umanizzato dall’operazione. Moretti, con buona pace del suo pubblico più anticlericale, si è voluto svincolare da un’iconografia trita e ritrita, incentrata su figure di cardinali machiavellici, adusi ai com - plotti, doppiogiochisti. La scena del conclave è magistrale: i porporati lì riuniti per l’elezione del nuovo papa tutto sono meno che uomini assetati di potere. Ognuno di loro fa piuttosto gli scongiuri per non essere il prescelto. Anche il cast, con attori caratterizzati fisiognomicamente da una vecchiezza bonaria, gioca a favore della simpatia, di un’immagine più familiare della Santa Sede. E se Moretti “inquadra” la scandalosa rinuncia del papa a fare il papa, non c’è condanna, semmai partecipazione ai rovelli di un uomo che non si sente adeguato. In fondo, più che un’irresponsabile fuga dalla responsabilità, quella di Melville è una franca accettazione dei propri limiti. Coscienziosa, perciò effettivamente responsabile.

Inoltre quest’ultimo lavoro del cineasta romano evidenzia una maturazione registica. Dal punto di vista tecnico è il suo film più ambizioso: movimenti di macchina, senso del primo piano, contrappunto visivo/sonoro, direzione degli attori e una retorica di messa in scena quasi felliniana fanno di “Habemus Papam” l’opera meno personale ma più cinematografica della carriera di Moretti. Il quale, prima che regista, è stato soprattutto un metteur en scène di se stesso, un fabbricante di immagini egoiche. Costruite a partire da lui, intorno a lui. Indimenticata la pungente boutade di Dino Risi quando di Moretti diceva: «Spostati, che devo vedere il film». Chissà cosa direbbe oggi il maestro. Se anche lui, come noi, saprebbe cogliere la verginità di un cineasta che pare voler rifondare su nuove basi, con altri intenti e attraverso mezzi inediti il suo cinema. «Habemus Nanni», ha scritto qualcuno. Condividiamo, a patto che si parli del Nanni che non abbiamo mai conosciuto.


Todo cambia

Qual è il tema portante di “Habemus Papam”? La domanda, che ha tenuto occupati critici di cinema, intellettuali e vaticanisti, è già di per sé un tema. Opera stratificata, abbiamo detto. Densa, ricca di sottotesti, fondamentalmente non chiusa: anche avendo a disposizione tutte le tessere del puzzle qualcosa non torna. Volendoci ricollegare a una delle ossessioni tematiche di Nanni Moretti, anche questo “Habemus Papam” in fondo parla di paternità (ricordate quando Moretti in “Bianca” affermava sconsolato: «È triste morire senza figli»; e quanto fosse ancora più triste per il padre de “La stanza del figlio” veder morire l’amato secondogenito?). Anzi, della massima paternità (simbolica) possibile: il Santo Padre. Un padre che rifiuta di fare il padre perché si percepisce soggettivamente non all’altezza.

Cosa vuole dirci Moretti: che la Chiesa di oggi è incapace di proporre nuove guide spirituali per il suo magistero nel mondo? Che sconta un deficit di autorità? Interpretazione legittima se non cozzasse con l’atteggiamento del regista romano davanti alle vicissitudini del successore di Pietro. Atteggiamento, come abbiamo detto, improntato esplicitamente alla comprensione, alla tenerezza, alla solidarietà. Melville è un uomo prigioniero delle proprie paure, delle proprie ansie, del proprio senso d’inadeguatezza. Come tutti. Perciò umano, molto umano. È nella tradizione dell’umanesimo che s’inserisce questa commedia, non in quella della politica. O meglio, il politico subentra solo in seconda battuta. In fondo “Habemus Papam” oscilla tra due sentimenti: la tristezza e la gioia. E due spazi, anche interiori: la prigione e la libertà. La prima prigione è la prassi. L’abitudine. La norma. Morto un papa se ne fa un altro, no? No, è possibile una seconda opzione, vuol dirci Moretti. Ovvero un mondo senza papi, il che vuol dire – allargando il discorso – un mondo in cui il potere – la responsabilità – non sia solo l’effetto di un meccanismo consuetudinario, ma una scelta di buon senso, dettata dalla consapevolezza, che chiama in causa tutti. Magari proprio quella piazza sconcertata dal rifiuto del vicario di Cristo. Il potere non può essere una condanna, ma una libera scelta di chi è stato investito del compito di detenerlo. Anche se l’investitura è divina. Quale Dio del resto darebbe a un uomo un compito così gravoso senza concedergli anche la forza di portarlo avanti? Non un Dio misericordioso. Non un Dio cristiano. E del resto il film evita d’infilarsi in un pericoloso imbuto teologico. Racconta la Chiesa come istituzione. Ovvero la riporta sulla terra e nello stesso tempo la eleva a luogo metonimico di ogni possibile struttura di potere.

La trasgressione del papa rispetto alla norma, d’altra parte, non è l’unica agìta nel film. È tutta l’istituzione Chiesa a essere scossa da un’ondata di vitale, libertaria anarchia. Cardinali che giocano a carte, che s’intrattengono in partite di pallavolo, che scherzano l’uno con l’altro come vecchi amiconi. Per non dire dello psicanalista che abdica al suo ruolo di razionale, rigido scrutatore dell’inconscio per organizzare egli stesso tornei di pallavolo, prendere in giro in modo fraterno i porporati, discettare in tono semiserio – mai conflittuale: in “Habemus Papam” nessuno litiga con nessuno, il tempo della macerazione è finito – di Antico Testamento e di darwinismo.

L’elogio dell’imprevisto, hanno scritto. Direi l’elogio alla trasgressione che sa essere fedele all’uomo. Non è detto che virtù e armonia siano il frutto di un’obbedienza, il rispetto di un copione già scritto. Moretti stesso sembra rinunciare a seguirne uno nel film: va a zonzo come il suo papa, si perde, si ritrova, si perde di nuovo, elimina la scaletta drammaturgica (una scelta che ha fatto storcere il naso ad alcuni, che l’hanno scambiata per debolezza del discorso). Come l’attore squinternato che non segue più alla lettera la pièce tratta da Cechov (“Il gabbiano”), ma la travolge con la sua dirompente follia.

Dall’arte alla vita – sembra suggerire Moretti – c’è una continuità scritta nel segno della libertà. Libertà di scelta, ovvero di occupare la scena non nei modi prestabiliti ma secondo una ritrovata coerenza con se stessi. Saper stare al proprio posto acquista qui un senso affatto diverso. Non è un caso che Moretti si defili. “Habemus Papam” sembra voler abbattere anche l’ultima prigione dei ruoli: quella del regista/ attore che per trent’anni ha messo in scena se stesso e le proprie idiosincrasie di borghese progressista mai conciliato. Qui invece non solo si mette al servizio del racconto, non solo mostra una pietas che non gli riconoscevamo, ma si apre persino all’utopia. Immaginando un mondo affrancato dalle sue forme cristallizzate; nonché un potere sciolto dalla mistica del personalismo, responsabile perché capace di rinunciare a se stesso, rimesso alla piazza, alla civitas degli uomini di buona volontà.

C’è un ralenti, verso la fine del film, che spiega meglio di ogni parola il discorso politico di “Habemus Papam”. Primo piano su Moretti, arbitro e testimone dell’inaudito che si sta compiendo davanti ai suoi occhi: una dozzina di cardinali già incanutiti che si sfidano in un torneo di pallavolo. Il volto severo del regista, forse per la prima volta dopo tanti anni, si scioglie, sorride con genuino trasporto. Todo cambia. Come canta la canzone che contrappunta il film. Una ballata sospesa tra il sogno e il sentimento del tempo. Una sineddoche del Moretti- pensiero, che toglie il busto alla realtà per restituircela fluida, viva, in cammino pur avendo perso – o forse proprio per questo – la bussola.

«La meta è partire»: così aveva scritto un poeta italiano. Ungaretti. Uno che aveva deposto le armi per armarsi di sogni. Nell’alba desiderante di una rivoluzione innocente.

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