La Comunità atlantica alla ricerca di una nuova identità

Di Emiliano Alessandri Martedì 19 Luglio 2011 18:27 Stampa
La Comunità atlantica alla ricerca di una nuova identità Illustrazione: Serena Viola

Negli ultimi dieci anni, la posizione della Comunità atlantica e dell’Occidente sembra essersi indebolita. La crisi finanziaria e l’emergere di nuovi soggetti nel quadro internazionale, nonché il propagarsi di movimenti populistici e nazionalistici, costringono la democrazia america na e quelle europee a ripensare il proprio ruolo e ad abbandonare l’idea dell’unipolarità a favore del multilateralismo e di una nuova idea di leadership basata sul confronto.


La Comunità atlantica a dieci anni dall’11 settembre

Con l’avvicinarsi del decimo anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre, è tempo di bilanci. La sensazione è che ciò che chiamiamo Occidente esca indebolito da questo primo assaggio di XXI secolo. Ma il motivo non è tanto il deterioramento della sicurezza occidentale, come molti temettero dieci anni fa. Né il problema è meramente di coesione interna (anche se certe tendenze centrifughe manifestatesi dopo la guerra fredda si sono senza dubbio rafforzate). La ragione, piuttosto, è di natura strategica. La crisi economico-finanziaria ha messo a nudo una debolezza dell’Occidente che non era stata anticipata nei primi anni Duemila.

Al contempo, sulla scena internazionale sono emersi nuovi soggetti con ambizioni strategiche pari (e a volte superiori) al loro nuovo peso economico. Più ancora che la sicurezza e l’unità dell’Occidente, ciò che sembra meno garantita è la sua posizione internazionale e la “tenuta” del suo modello. Insieme a questa realizzazione, affiora il dubbio che il decennio alle nostre spalle – con Stati Uniti ed Europa concentrati sul Medio Oriente invece che sull’Asia, sulla minaccia asimmetrica del terrorismo invece che sull’ascesa di nuovi attori statuali – sia stato in parte una lost decade per l’Occidente, un decennio in cui gli alleati occidentali non hanno dedicato risorse e la dovuta attenzione alla sfida strategica del rilancio della Comunità atlantica in un sistema internazionale sempre più plurale.


Cambi di prospettiva

All’indomani degli attacchi alle torri gemelle parve ai più che le minacce principali alla sicurezza occidentale fossero il terrorismo internazionale, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e la possibile combinazione delle due. Si guardò a questi fenomeni come al prodotto di una globalizzazione che, nel potenziare una serie di nuovi attori non statali, rendeva possibile la privatizzazione della violenza su larga scala. Bush annunciò una “guerra globale al terrorismo”, che presto si allargò a operazioni militari contro regimi collusi con la global jihad, o in ogni caso considerati rivali degli Stati Uniti.

In particolare dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, parve che la sfida principale alla coesione interna della Comunità atlantica sarebbe scaturita proprio dalle derive neoimperialistiche della superpotenza americana, impegnata in quella che era presentata come una crociata contro i nuovi “nemici del mondo libero”. Alcuni sostennero che il “momento unipolare” celebrato da Washington dopo il crollo dell’Unione Sovietica si sarebbe trasformato in una “era unipolare”. All’Europa non restava che allinearsi: «O con noi o contro di noi». L’Amministrazione Bush difese l’uso unilaterale della forza, anche se in violazione del diritto internazionale e in presenza di una significativa opposizione europea. Si parlò di “crisi transatlantica” quando alcuni paesi europei si rifiutarono di inseguire l’America sulla strada ritenuta sbagliata e pericolosa della trasformazione del Medio Oriente con le armi.

Mentre alcuni proclamavano niente meno che la fine della Comunità atlantica, il dibattito si intensificò anche sull’evoluzione politica interna delle società occidentali. Molti videro nel rafforzamento di movimenti e partiti di destra in vari paesi la chiusura di un ciclo politico che negli anni Novanta aveva visto combinarsi crescita economica, globalizzazione e il fiorire di un nuovo progressismo sia negli Stati Uniti che in Europa (nonostante il tramonto, con la caduta del Muro di Berlino, delle prospettive comunista e socialista novecentesche). Si parlò, non senza una certa preoccupazione, di una right nation nell’America dei neoconservatori e dell’ascesa della “destra religiosa”. In Europa, si assistette non solo all’avanzata delle forze conservatrici in paesi come la Francia e la Germania, ma anche a una certa evoluzione moderata della sinistra, che in alcuni contesti fu accusata di crescente subalternità culturale.

Dieci anni più tardi il quadro è cambiato sostanzialmente, e con esso le questioni sul tappeto. La crisi economica ha messo a nudo la realtà di un declino relativo dell’Occidente e la contemporanea affermazione di nuovi giganti, come la Cina e l’India, così come di una serie di attori regionali, dal Brasile all’Indonesia, che hanno superato la crisi senza passare per la recessione e ora avanzano rivendicazioni politico-strategiche pari, e a volte superiori, al loro nuovo ruolo economico. In questo contesto, il senso di insicurezza occidentale pare sempre meno collegato a una minaccia specifica, come fu per il terrorismo fondamentalista, ma sempre più a una percezione di fragilità e a una perdita di status. Se il terrorismo e altre forme di minaccia asimmetrica continuano a minare la stabilità di un sistema internazionale connotato da livelli sempre più alti di interdipendenza, diventa progressivamente più chiaro che la sfida che la globalizzazione pone ai paesi occidentali è in realtà quella tradizionale di una competizione per l’influenza con altri soggetti statuali, in Asia ma non solo, in un contesto in cui lo Statonazione perde colpi ma resta l’unità fondamentale delle relazioni internazionali.

Alla luce della nuova debolezza della superpotenza americana, le preoccupazioni europee per un’America “neoimperiale” sono state sostituite da quelle per un’America sempre più concentrata sulle priorità interne. Il timore di un unilateralismo degli Stati Uniti, inoltre, è stato sostituito dallo spettro di un bilateralismo Stati Uniti-Cina motivato da necessità economiche e strategiche. Il rischio non è tanto quello di un duopolio che esclude l’Europa (che gli Stati Uniti stessi dichiarano di non volere e che in ogni caso sarebbe difficile per le due potenze instaurare), quanto piuttosto quello di un’ascesa della Cina che evidenzia le asimmetrie della Comunità atlantica, e dunque crea divisioni invece che spingere americani ed europei a collaborare in modo più stretto in e con l’Asia. La questione, detto altrimenti, è sempre meno se l’America divida o meno l’Europa, e sempre più se la nuova “sfida asiatica” unisca o divida l’Occidente.

Su questo punto gli europei hanno da riflettere. Quando impugnarono il paradigma del multipolarismo negli anni di Bush, lo fecero più con l’obiettivo di bilanciare lo (stra)potere degli Stati Uniti che per una reale accettazione dei nuovi attori emergenti. Un certo orientamento ideologico, piuttosto che una disincantata presa di coscienza della realtà al di fuori dei confini dell’Occidente, fu anche alla base dell’ideale europeo del multilateralismo. L’ambivalenza europea è stata chiaramente dimostrata dalle esitazioni con cui, proprio mentre si parlava di un mondo multipolare, veniva affrontato il tema della rappresentanza dei nuovi attori nelle istituzioni internazionali.

C’è ora la necessità impellente di rilanciare il multilateralismo, ma con determinazione e realismo, vale a dire vedendo in esso uno strumento necessario anche se non sufficiente per gestire la nuova multipolarità politica ed economica. La transizione dal G8 al G20, per quanto non priva di problemi e incognite, va nella giusta direzione, ma non sarebbe stata possibile senza la spinta iniziale di Washington e prima o poi dovrà essere accompagnata da un dialogo simile a livello politico. Il multilateralismo aiuta anche a superare la metafora deformante, proposta soprattutto da destra dopo il 2001, di un Occidente “sotto scacco”, spostando il dibattito su quale possa essere il contributo dei paesi occidentali a una discussione allargata sul futuro di un ordine internazionale le cui norme verranno presto stabilite anche da altri.

La sfida populista e nazionalista

All’interno di questa rivalutazione del ruolo dell’Occidente a partire da una posizione di minore centralità, bisogna che un’attenzione particolare sia prestata a sviluppi interni che per certi versi sono complementari all’avanzata delle destre nel decennio scorso: il ritorno del populismo e del nazionalismo.

Per una serie di fattori, tra cui probabilmente il progressivo indebolimento della classe media, sia in Europa che in Nord America si è assistito a una crescente polarizzazione, alla crisi del “centro” politico e all’emergere potente del populismo. La crisi economica ha certamente contribuito a esacerbare queste tendenze. Il propagarsi di movimenti populistici e nazionalistici è insidioso per le relazioni transatlantiche e per la cooperazione internazionale più in generale. Vittima del populismo è già ora l’Unione europea, sempre meno amata dalle opinioni pubbliche europee che la considerano come una casta di tecnocrati costosa e autoreferenziale. Nel contesto degli Stati Uniti, l’internazionalismo stesso può essere minacciato nel lungo periodo da movimenti che tradiscono pulsioni isolazioniste in politica estera. Nella misura in cui il populismo manifesta una difficoltà nell’espressione della rappresentanza politica e una debolezza delle istituzioni, esso è anche il sintomo di una più profonda “crisi democratica”, che se non arginata potrebbe minare l’equazione storica stessa tra Comunità atlantica e “mondo democratico”.

Il modello di democrazia capitalistica e liberale celebrato in modo trionfalistico e spesso superficiale all’indomani dell’‘89 esce indebolito dal primo decennio del XXI secolo, sia per le difficoltà interne che colpiscono i sistemi democratici e le economie di mercato d’Occidente, sia per la tenuta di Stati autoritari o comunque non democratici, in Asia ma anche in altre regioni del mondo. Non vi sono per ora i segni di una regressione autoritaria a livello mondiale. Al contrario, le recenti rivolte nel mondo arabo confermano che vi è una domanda di partecipazione e di democrazia insita in ogni esperienza di sviluppo economico che non si accompagna a progresso politico e sociale.

Tuttavia, il problema non è tanto la forza dell’autoritarismo, quanto la minore capacità propulsiva del mondo democratico. Mentre si assiste in molti paesi occidentali a un’involuzione politica interna, l’Occidente pare sempre meno capace o convinto della necessità di proiezione all’esterno. Mentre l’America di Bush annunciava la missione di “esportare” la democrazia in Medio Oriente, l’espansione della comunità democratica incontrava in realtà ostacoli sullo stesso continente europeo, come chiaramente dimostrato oggi dal sempre più incerto allargamento a est dell’Unione europea e della NATO. Questo sembra essere infatti un altro prodotto del decennio passato: il nuovo paradigma delle “potenze emergenti”, democratiche e non, ha surclassato quello dell’“allargamento” dell’Occidente democratico che aveva segnato la riflessione sul futuro della Comunità atlantica dopo la caduta del Muro di Berlino.

Il ritardo europeo

Tra le buone notizie, pur nel quadro di difficoltà sopra delineato, vi è che dal 2009 gli Stati Uniti sembrano avere cambiato corso. Proprio mentre la crisi finanziaria li spingeva verso la recessione più acuta dagli anni Venti, si insediava una nuova classe dirigente non solo “Democratica”, ma “democratica”, che ha dato da allora ampia prova di comprendere la complessità delle sfide che la globalizzazione pone non solo alla democrazia americana ma anche alle società del vecchio Occidente atlantico nel suo complesso. Un’Amministrazione, quella degli Stati Uniti, che tra svariati errori ha tuttavia perseguito l’obiettivo strategico giusto: quello del dialogo con i nuovi soggetti emergenti, che passa anche per un rifiuto dell’unipolarità e una nuova idea di leadership che si afferma nel confronto. La sfida rimane estremamente difficile sul fronte interno, dove non si è riuscita a costruire la base politica necessaria per realizzare riforme strutturali.

Ma sul piano internazionale l’eredità di Obama sembra in parte già scritta: quella di aver preparato l’America a un mondo “post americano”, per usare un’espressione sempre più comune nel dibattito di Washington, ponendo al contempo le condizioni per cui l’ordine internazionale di domani sia ancora profondamente segnato dall’influenza politica e culturale dell’Occidente.

Dall’altra parte dell’Atlantico, tuttavia, il governo degli Stati Uniti ha come interlocutore un’Europa debole e divisa, senza una chiara leadership e senza un progetto condiviso. Se nei primi anni Duemila furono principalmente le politiche americane a evidenziare le divisioni europee, ora sono le difficoltà interne a dividere l’Unione. Non vi sono un’Europa “vecchia” e una “nuova”, come avevano rozzamente descritto certi conservatori americani, ma una sola che pare perennemente fuori tempo, formata ancora dalla somma dei suoi governi e delle sue economie nazionali. La debole leadership tedesca è in questi mesi il problema più eclatante, ma la questione è purtroppo più ampia. Anche con i nuovi strumenti messi a disposizione dal Trattato di Lisbona, non pare esservi la volontà politica necessaria tra i ventisette paesi dell’Unione europea per dare coerenza e slancio all’azione unitaria dell’Unione. Anche quando l’Europa si muove, come nel recente caso dell’intervento in Libia, lo fa in ordine sparso, creando tensioni interne e proiettando nel comples so un’immagine di incoerenza all’esterno. Questa è un’ulteriore constatazione amara degli ultimi dieci anni: anche in presenza di un’America che ora chiede “più Europa”, dal sostegno alle transizioni in Nord Africa e Medio Oriente al dialogo strategico con l’Asia, l’Unione europea rimane un nano politico.

In questo contesto, l’Italia pare incamminata su di un percorso assai incerto, vittima com’è di mali in varia misura comuni ad altri paesi occidentali, dalla polarizzazione interna all’incapacità di produrre in politica estera una visione strategica che vada oltre quelli che sono i confini tradizionali della sua (limitata) proiezione. Un’Italia appena più in grado rispetto a dieci anni fa di approfittare dei nuovi mercati emergenti. Un’Italia assorbita da se stessa, che pare meno interessata di un tempo a scommettere sull’integrazione europea. Un’Italia a dire il vero sempre pronta a stare a fianco degli Stati Uniti, ma troppo spesso per riflesso incondizionato invece che in modo critico.

Se una riflessione sulla democrazia è viva in Italia per via se non altro delle vicende politiche interne, una discussione ampia sul significato di Occidente nel nuovo mondo multipolare tende a non decollare. Prevalgono ancora certi schematismi del passato. Nonostante il lavoro importante di certe fondazioni, di studiosi e di un giornalismo democratico che si è a dire il vero sempre posto la questione di cosa significa essere occidentali, la definizione di Occidente (per non parlare di quella di Comunità atlantica) è troppo spesso lasciata a chi, da destra o da sinistra, rischia di banalizzarla o ridurla a ideologia.

È questa un’Italia, tuttavia, che nell’anno in cui si celebrano i suoi centocinquant’anni come Stato unitario dovrebbe essere in grado di riaffermare non solo la sua unità e la sua vocazione democratica ma anche la sua profonda identità occidentale, comprendendola e discutendola nel contesto radicalmente trasformato del XXI secolo. Per un paese che guarda ancora così insistentemente a ciò che accade al di là dell’Atlantico, ed è ancora così strettamente dipendente dalle economie occidentali per la sua crescita interna, quest’opportunità offerta dalle celebrazioni dovrebbe risultare in realtà una necessità.

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