La questione meridionale oggi e domani

Di Gianfranco Viesti Martedì 19 Luglio 2011 17:44 Stampa
La questione meridionale oggi e domani Illustrazione: Serena Viola

Il dibattito sugli squilibri tra Nord e Sud del paese si è tristemente ridotto alla riproposizione di un “teorema meridionale” in base al quale lo stanziamento di risorse per il Mezzogiorno sarebbe inutile, visto che in passato esse non si sono rivelate efficaci a causa degli sprechi e della struttura clientelare della società meridionale. L’unica via percorribile per rilanciare l’economia non solo del Sud, ma di tutto il paese, è invece quella di rendere prioritarie nell’agenda politica italiana l’elaborazione e l’attuazione di politiche di sviluppo, che puntino anche alla crescita delle imprese e dell’occupazione nel Sud Italia.

Da alcuni decenni, l’economia italiana si è stabilizzata su un modello biregionale. Il Sud ha potuto godere di un livello di reddito e consumi maggiore della sua capacità di produrre ricchezza. Questo eccesso di reddito si è tradotto in importazioni di prodotti dal Centro-Nord, che al Sud hanno trovato uno sbocco di mercato molto importante, soprattutto nelle fasi iniziali del suo sviluppo, ma significativamente ancora oggi.1 Tale modello ha goduto di vasto consenso sia nel Sud che nel Nord del paese. Il Sud è rimasto principalmente un’area di consumo e di parziale esportazione di capitale umano qualificato, caratterizzato da persistente e ampia disoccupazione giovanile e femminile. La questione meridionale è sempre più divenuta la questione del lavoro.2

Questo equilibrio ha iniziato a rompersi negli anni Novanta. La crisi dei conti pubblici ha provocato l’aumento della pressione fiscale e una crescente spinta per ridurre la spesa. L’intensificarsi dei processi di globalizzazione ha progressivamente ridotto l’importanza del mercato interno e ha azzerato le residue convenienze localizzative nel Mezzogiorno. La frantumazione del quadro politico ha fatto venir meno i grandi partiti nazionali e ha creato spazio per movimenti rivendicativi a base territoriale.

Dall’inizio del XXI secolo, l’esaurirsi della crescita dell’economia italiana in tutto il paese e le crescenti difficoltà del modello di capitalismo italiano nell’era dell’euro, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e della crescente concorrenza manifatturiera asiatica, hanno reso tutto più difficile. E infine sono arrivati la crisi internazionale, la recessione del 2008-10, e i vincoli sempre più stringenti del Patto di stabilità europeo che si vanno delineando.

La crisi dell’Italia contemporanea si è rivelata non solo economica ma anche etica e culturale. L’intero paese ha incontrato difficoltà sempre maggiori a elaborare visioni del proprio futuro; è cresciuta l’attitudine a considerare la soluzione per ogni problema esclusivamente su base individuale o territoriale. Grazie a Berlusconi e alla Lega sono dilagati l’insulto, la rozzezza, il razzismo, la paura, l’egoismo.

È in questa situazione che è venuto concretizzandosi un progetto politico di divisione, formale o sostanziale, del paese, il cui fine è quello di puntare a un risanamento della finanza pubblica e alla riduzione delle tasse contraendo quanto più possibile i flussi di spesa verso il Mezzogiorno. Architravi ne sono gli interventi di ridisegno dei grandi servizi pubblici nazionali, un’interpretazione delle regole del federalismo fiscale in chiave di redistribuzione fra territori, la cancellazione delle politiche di sviluppo regionale.

Sul primo fronte si agisce per contenere strutturalmente la dimensione del sistema nazionale della scuola e dell’università. Vengono limitate ulteriormente le già magre politiche sociali con una crescente sostituzione dell’operatore pubblico con l’attività di fondazioni e istituzioni intermedie, esistenti però solo in una parte del paese. Crolla, e si prevede in ulteriore riduzione, la spesa pubblica per le infrastrutture; i principali attori del sistema, come le ferrovie, sono totalmente svincolati da obiettivi pubblici e orientano tutte le proprie scelte esclusivamente secondo obiettivi aziendali di breve termine.

A ciò si affianca un’attuazione della riforma costituzionale del 2001 con finalità prevalentemente ridistributive fra territori. Ciò che viene forzatamente definito federalismo fiscale – e cioè una maggiore autonomia e responsabilità di spesa per Regioni ed enti locali, e nuovi criteri per l’allocazione territoriale delle risorse – può produrre con il tempo maggiore efficienza ed equità. Può, però, determinare anche una importante redistribuzione delle risorse disponibili per i servizi pubblici, a cominciare da sanità e scuola.3 Tramite i decreti delegati relativi alla legge 42/09, si sta privilegiando la redistribuzione come fine in sé e non come strumento per raggiungere efficienza ed equità. Lo scopo esplicito è quello di mantenere al Nord la maggior parte possibile del gettito fiscale dei suoi cittadini e delle sue imprese, inducendo un aumento della pressione fiscale e una riduzione dei servizi al Sud.

Nell’ultimo biennio l’azione caparbia e continua del ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha cancellato le politiche nazionali di sviluppo del Mezzogiorno.4 Circa trentacinque miliardi di euro già destinati a spesa in conto capitale per lo sviluppo del Sud sono stati spostati prevalentemente verso spesa corrente (per circa ventidue miliardi, per finanziare il deficit di bilancio) o utilizzati per far fronte a grandi emergenze nazionali come il terremoto d’Abruzzo o il finanziamento della Cassa integrazione straordinaria e in deroga (prevalentemente al Centro-Nord) o frammentate in piccoli interventi, a carattere discrezionale.

Tutto ciò può produrre un effetto “catastrofico” per il Mezzogiorno: una sequenza di eventi che vanno tutti nello stesso senso, che si rafforzano a vicenda, e che sono dunque assai difficili da mutare. Al Sud la forte caduta del reddito, dei consumi interni e dell’occupazione viene aggravata dall’ingente riduzione della spesa pubblica corrente e in conto capitale, e poi anche dall’aumento della pressione fiscale locale (la “fiscalità di vantaggio” al contrario). Ciò – in un evidente circuito recessivo – riduce occupazione, consumi, reddito, essendo anche la capacità di esportare del Sud relativamente contenuta e assai inferiore a quella del Centro-Nord a causa dei più limitati processi di sviluppo. La possibile riduzione in quantità e qualità dei servizi disponibili per cittadini e imprese peggiora la “qualità ambientale” e rende ancora più arduo lo sviluppo di nuove imprese orientate alla domanda extralocale. Tutto ciò determina una spinta sempre più forte per l’emigrazione; se essa trova sbocco priva le aree di origine di capitale umano. Il circuito recessivo determina la caduta del gettito fiscale locale; quest’ultima aggrava il circuito recessivo stesso.

Vi è dunque la possibilità concreta che l’equilibrio Nord-Sud degli ultimi decenni si rompa. Non però nel senso, a lungo da tutti auspicato, di riuscire a determinare nel Sud un aumento della produzione e del reddito autonomo tale da finanziarne consumi e spesa pubblica. Ma nel senso di ridurre la spesa pubblica e i consumi al livello dell’insufficiente reddito prodotto.

Vi è naturalmente una possibilità diversa, molto più virtuosa per l’Italia intera. Essa passa attraverso la crescita del reddito prodotto al Sud, e della conseguente occupazione in imprese private. L’effetto espansivo sull’intera economia nazionale è in questo caso del tutto evidente. Crescita della produzione e dell’occupazione determinano da un lato nuova domanda (e crescenti importazioni dal Nord), che in un classico circuito espansivo macroeconomico crea ancora occupazione e produzione; dall’altro, nuovo gettito fiscale, in grado sia di contribuire alla riduzione del debito, sia di determinare decrescenti trasferimenti dal Nord a parità almeno di servizi erogati al Sud. Determinando maggiore occupazione prevalentemente giovanile e femminile, questi fattori renderebbero l’Italia un paese più equo e civile.5

Si tratta di un obiettivo evidentemente molto difficile da raggiungere.6 La storia degli ultimi trentacinque anni, pure nient’affatto priva di periodi e di vicende di sviluppo, anche forte e sostenuto, nel Sud, lo dimostra. È difficile perché per far crescere imprese competitive nel Sud è necessario creare condizioni di contesto assai migliori rispetto a quelle attuali, in termini sia di dotazione di infrastrutture e di capitale pubblico, sia di funzionamento istituzionale, dei servizi pubblici, di tutela della legalità e di efficienza della giustizia. È difficile perché in un’economia con un dualismo così forte come quella italiana, le aree meno avanzate devono rimontare un rilevante deficit di condizioni localizzative e contrastare potenti fattori di agglomerazione, per cui le aree più avanzate continuano ad attrarre facilmente “risorse mobili”, dai giovani laureati ad alta qualifica ai risparmi delle famiglie. Ancor più oggi che in passato nuove imprese e nuove produzioni del Mezzogiorno devono trovare sbocchi al di fuori dei confini nazionali; cosa non facile, dovendo scontare costi e rigidità da paese avanzato.

La Nota aggiuntiva predisposta da Ugo La Malfa nel 1962 metteva in luce come, nella politica economica italiana, rispondendo «le decisioni economiche soltanto agli impulsi forniti dal mercato, rimaneva procrastinata e spesso elusa la soluzione dei problemi di quelle zone, di quei settori e di quei gruppi sociali che risultavano ai margini». Negli ultimi cinquant’anni questo nodo non è mutato. E dunque il pieno sviluppo del Sud non può essere raggiunto senza che l’obiettivo del riequilibrio territoriale influenzi le grandi politiche pubbliche nazionali, sia fatto proprio dall’intero paese; dia vita, come nel tentativo lanciato a fine anni Novanta da Carlo Azeglio Ciampi, a una «nuova programmazione».7 E senza che ciò sia accompagnato da azioni dirette di sviluppo regionale. L’Italia ne ha una grande tradizione, assai più ricca e interessante di quanto normalmente si pensi. Scopo delle politiche regionali è quello di integrare, differenziare e rafforzare vicendevolmente su base territoriale gli interventi settoriali: politiche “basate sui luoghi”, che progressivamente portino a creare economie di localizzazione e a favorire le competitività delle imprese; a rafforzare l’inclusione dei cittadini e la loro partecipazione ai percorsi di cambiamento; a consegnare alle classi dirigenti locali nuove responsabilità, ma in un sistema più ampio di monitoraggio e valutazione.

Questa seconda strada per lo sviluppo economico italiano è difficile ma possibile; è l’unica che possa preservarne la sostanziale unità in un nuovo equilibrio dinamico, a somma positiva, fra i territori del paese. Ma sembra non interessare a nessuno. È venuta al contrario diffondendosi e consolidandosi, anche per l’azione dei grandi mezzi di comunicazione, un’interpretazione delle relazioni fra Nord e Sud basata su un assunto che può essere definito il “teorema meridionale”:8 al Mezzogiorno sono state destinate nel tempo ingentissime risorse; tali risorse non hanno mai prodotto effetti positivi perché sono state sempre sistematicamente sprecate a causa dell’azione clientelare di classi dirigenti corrotte e incapaci, anche perché espressione di un territorio senza capitale sociale. Dunque le politiche al Sud sono il problema e non la soluzione; e dunque meno se ne attuano, meno risorse si destinano a investimenti e servizi, meglio è. Per l’Italia, per i contribuenti del Nord, per lo stesso Sud.

Nonostante la sua straordinaria rozzezza, questo teorema si è imposto nella discussione collettiva. Prova ne siano l’assenza di opposizione, delle forze politiche e culturali e delle rappresentanze degli interessi imprenditoriali, sia alla politica dell’insulto nei confronti del Sud, sia alle concrete azioni di smantellamento delle politiche di sviluppo regionale del ministro Tremonti; la straordinaria debolezza della discussione e delle valutazioni intorno agli effetti redistributivi del “federalismo fiscale”; la totale assenza di proposta politica sullo sviluppo regionale in Italia.

Il tema non è in agenda. Ma che cosa c’è nell’agenda dello sviluppo economico italiano, che sia così forte da assorbire i pesantissimi tagli alla spesa che potrebbero essere alle porte con il nuovo Patto di stabilità europeo e da far aumentare produttività, occupazione e reddito dopo un lungo periodo di forte stagnazione, che non comprenda lo sfruttamento del potenziale di crescita del Sud? Cosa c’è nell’agenda di un paese che si dà come obiettivo quello di essere l’ultimo in Europa sui parametri di “Europa 2020”?9 L’impressione è che la passiva accettazione di un possibile scenario “catastrofico” per il Sud segnali l’aggravarsi non tanto e non solo della questione meridionale, ma della “questione italiana”. Di un’Italia del “si salvi chi può”, incapace di pensare se stessa collettivamente nel futuro, di disegnare e costruire il proprio sviluppo, di mettere a valore le grandi risorse di cui comunque dispone, tanto al Nord, quanto al Sud.

 

 


 

[1] R. De Bonis, Z. Rotondi, P. Savona (a cura di), Sviluppo, rischio e conti con l’esterno delle regioni italiane, Laterza, Roma-Bari 2010.

[2] G. Viesti, Più lavoro, più talenti. Giovani, donne, Sud. Le risposte alla crisi, Donzelli Editore, Roma 2010.

[3] Viesti, Il federalismo difficile, in “il Mulino”, 5/2010.

[4] Si vedano F. Prota, G. Viesti, Piano nazionale per il Sud: solo un’operazione pubblicitaria?, in “nelMerito. com”, 29 dicembre 2010, disponibile su www.nelmerito.com; Prota, Viesti, Ecco dove sono finiti i fondi FAS, in “nelMerito.com”, 27 gennaio 2011, disponibile su www.nelmerito.com; Viesti, Più lavoro, più talenti cit.

[5] Viesti, Più lavoro, più talenti cit.

[6] F. Barca, Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli Editore, Roma 2006.

[7] Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano: dal dopoguerra ad oggi, CDE, Milano 1998.

[8] Viesti, Più lavoro, più talenti cit.

[9] Viesti, Piano nazionale di riforma: come collocarsi agli ultimi posti in Europa, in “nelMerito. com”, 22 aprile 2011, disponibile su www.nelmerito.com.

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