Il “ritorno” dell’Iran, Riyad non si arrende

Di Annalisa Perteghella Mercoledì 16 Dicembre 2015 17:27 Stampa

Nel quadro di una competizione tra le potenze del Golfo Persico che è in primo luogo geopolitica, l’interesse strategico dell’Arabia Saudita è sempre stato quello di assicurare che all’ingombrante vicino iraniano non venisse lasciato un margine di azione troppo ampio. La percezione saudita della minaccia iraniana è drammaticamente aumentata in seguito all’intervento statunitense in Iraq del 2003, alle primavere arabe del 2011 e, infine, alla firma dell’accordo nucleare tra Iran e P5+1 nel luglio 2015, a cui Riyad ha reagito con una serie di azioni e interventi che testimoniano quanto la ricomposizione della “guerra fredda” tra i due paesi sia ancora lontana. Tutto ciò proprio nel momento in cui sarebbe invece auspicabile il raggiungimento di una sorta di modus vivendi tra le due potenze del Golfo Persico che contribuisca a placare le tensioni in un Medio Oriente ormai in fiamme.

“Schiacciate la testa del serpente”.1 Questa l’esortazione rivolta dall’ex re saudita Abdullah agli alleati americani a proposito del vicino iraniano.2 Non è mai stato un mistero che tra Riyad e Teheran non corra buon sangue, fin da quando nel 1979 in Iran un movimento popolare guidato dall’ayatollah Khomeini trasformò quella che era nata come una protesta contro la monarchia Pahlavi in una rivoluzione islamica. L’instaurazione di una Repubblica Islamica modellata in parte secondo principi costituzionali di derivazione occidentale e in parte secondo i sacri principi dell’autorità declinati dall’Islam sciita nella rilettura khomeinista non poteva che suscitare i sospetti e le antipatie di una monarchia dinastica assoluta, quella saudita, edificata su un’ideologia religiosa integralista, quella wahabita, che trae la sua legittimità dal proprio ruolo di custo de dei luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina.3 La questione, tuttavia, non si è mai declinata semplicemente nei termini conservazione vs. rivoluzione, monarchia vs. repubblica o Islam sunnita vs. Islam sciita. La competizione tra i due pesi massimi della regione del Golfo Persico è in primo luogo geopolitica.

L’interesse strategico di Riyad è sempre stato quello di assicurare che all’ingombrante vicino iraniano non venisse lasciato un margine di azione troppo ampio. Per garantire ciò, il regno degli al-Saud ha adottato di volta in volta atteggiamenti più discreti di conservazione dello status quo – nei momenti in cui la stella di Teheran sembrava più offuscata – oppure atteggiamenti più aggressivi – quando Teheran sembrava riemergere come possibile competitor nella regione.

Guardando alle vicende mediorientali del periodo post 11 settembre, è possibile individuare tre momenti topici nei quali, in conseguenza di eventi determinanti per la regione, la percezione saudita della minaccia rappresentata dalla vicina Repubblica Islamica d’Iran è drammaticamente aumentata, spingendo Riyad all’elaborazione di una risposta. Questi momenti sono rappresentati dall’intervento statunitense in Iraq nel 2003, dalle primavere arabe del 2011 e, infine, dalla firma dell’accordo nucleare tra Iran e P5+1 nel luglio 2015.

Al fine di comprendere la percezione saudita della Repubblica Islamica d’Iran vale dunque la pena ripartire dallo snodo fondamentale del 2003. Demolendo l’intero edificio istituzionale iracheno, vale a dire mettendo al bando il partito Baath, sciogliendo l’esercito e purgando l’apparato burocratico dei suoi quadri più esperti e capaci, nell’ingenuo tentativo di costruire da zero un “nuovo Iraq” definitivamente non più in grado di nuocere agli interessi occidentali, si è inevitabilmente aperto il sistema politico iracheno all’influenza di attori esterni, che hanno fatto il loro ingresso nel paese ponendo in chiave settaria le basi del conflitto che dall’Iraq si è esteso a tutta la regione. Ciò ha significato soprattutto lo scivolamento dell’Iraq nella sfera di influenza iraniana, e la “naturale” risposta saudita. Come reazione ai miliziani sciiti inviati da Teheran a sostegno del governo del primo ministro Nuri al-Maliki – primo governo espressione della maggioranza sciita irachena nella storia del paese – Riyad ha agevolato l’ingresso in Iraq di combattenti imbevuti dell’ideologia salafita e incitati all’odio settario dagli imam sauditi che, nei loro sermoni, esortavano al jihad contro gli sciiti iracheni. È nella radicalizzazione del conflitto iracheno che ha origine il gruppo terrorista che oggi cono sciamo con il nome di Stato Islamico (IS). È nella guerra per procura tra Teheran e Riyad, oltre che nel discutibile approccio occidentale alla regione, che è da ricercare la causa di molti mali.4

Veniamo al secondo snodo. A partire dal 2011, gli inattesi sviluppi delle primavere arabe hanno contribuito a elevare ulteriormente il livello saudita di percezione della minaccia iraniana. La caduta di regimi decennali – in primis quello di Mubarak in Egitto – che Teheran ha astutamente provveduto a dipingere come “risveglio islamico” e come tentativo da parte dei popoli della regione di emulare il progetto rivoluzionario khomeinista è sembrata segnare un altro punto a favore per Teheran, facendo suonare a Riyad più di un campanello d’allarme.5

Nel caso delle proteste scoppiate nel Golfo, la risposta saudita è stata la loro connotazione in chiave settaria, in modo tale da poter rivolgere a Teheran l’accusa di soffiare sul fuoco dell’irredentismo delle comunità sciite del Golfo, da sempre escluse dalle stanze del potere. Esempio più lampante è quello delle proteste in Bahrein. La comunità sciita bahreinita, che rappresenta la maggioranza della popolazione, è scesa in piazza nel febbraio 2011 per domandare maggiore inclusività e libertà politiche e civili alla dinastia al-Khalifa, espressione della minoranza sunnita al potere dal lontano 1783. Il regno degli al-Saud, patrono degli al-Khalifa, è intervenuto in forze al fianco del sovrano bahreinita per reprimere le proteste, giustificando il proprio supporto come necessario al fine di impedire che l’Iran facesse del Bahrein la propria “quattordicesima provincia”. Se è vero che alcuni esponenti dell’ala più radicale iraniana hanno in passato rivendicato, più a mo’ di provocazione che come reale progetto politico, l’estensione della sovranità di Teheran sui circa 900.000 sciiti bahreiniti (circa il 70% della popolazione), è anche vero che esiste un rapporto delle Nazioni Unite che afferma, sulla base di un sondaggio, che l’obiettivo degli sciiti del Bahrein non è tanto l’annessione all’Iran quanto piuttosto l’indipendenza.

Ma è in Siria che il livello dello scontro si è alzato fino ad arrivare alla fossilizzazione del conflitto lungo linee settarie che ne rendono tuttora difficile la ricomposizione. La rivolta della popolazione siriana contro Bashar al-Assad ha rappresentato, agli occhi di Riyad, un’opportunità imperdibile per infliggere una grave ferita a Teheran, patrono di Assad. Sebbene inizialmente Riyad abbia adottato un atteggiamento cauto, mentre già Qatar e Turchia intervenivano a sostegno dell’opposizione islamista ad Assad, a partire dal 2012 l’intervento saudita ha iniziato a farsi sentire attraverso il sostegno a formazioni islamiste di ispirazione salafita. Dietro la formula rituale “Assad must go” si celava l’obiettivo di fare del male a Teheran, tagliando la rotta di collegamento all’Hezbollah libanese e spezzando in questo modo l’asse della resistenza Teheran-Damasco-Beirut. Ma così non è stato: la risposta iraniana (e russa) è stata ciò che ha mantenuto e mantiene tuttora in vita il regime di Bashar al-Assad, tanto da rendere chiaro all’Amministrazione statunitense che il raggiungimento di una soluzione politica al conflitto passa attraverso il coinvolgimento di Teheran e la sua elevazione al rango di interlocutore. L’apertura di uno spazio di collaborazione con Teheran – che inevitabilmente passava dal raggiungimento di una qualche soluzione negoziale alla crisi nucleare – è divenuta dunque la priorità dell’Amministrazione Obama, causando più di un mal di pancia per Riyad, che proprio sulla minaccia iraniana aveva contato nei decenni scorsi per ottenere da Washington – ma anche da alcuni paesi europei – armamenti e sostegno politico. Nei mesi precedenti la conclusione dell’accordo, quando appariva ormai chiaro che la volontà di Washington era quella di arrivare a un compromesso con Teheran, Riyad, pur senza esporsi apertamente, ha lasciato intendere tutto il proprio malcontento. La mancata partecipazione di re Salman al summit convocato da Obama a Camp David lo scorso maggio allo scopo, con ogni probabilità, di fornire ai paesi del GCC garanzie sull’imminente accordo con Teheran, è stata interpretata come la volontà di lanciare un segnale all’alleato.6 Quando l’accordo sul nucleare tra Iran e P5+1 è divenuto realtà, nel mese di luglio, la reazione saudita è stata ambigua. La dichiarazione ufficiale con la quale Riyad affermava di appoggiare l’accordo concluso a Vienna ha fatto pensare a un aggiustamento delle relazioni, probabilmente dovuto alla promessa statunitense di ricompensare la pazienza saudita con nuovi doni in termini di armamenti.

L’ambiguità della reazione saudita è probabilmente dovuta a una mancanza di chiarezza all’interno dello stesso regime circa i costi e i benefici dell’accordo iraniano, anche se indicativamente per gli al-Saud l’ago della bilancia sembra pendere più verso i costi. Da una parte, l’accordo concluso a Vienna allontana la possibilità che Teheran sviluppi un’arma nucleare; ciò rappresenta innegabilmente una buona notizia per i paesi della regione. Dall’altra parte, però, l’accordo ha spalancato le porte a un ritorno dell’Iran in grande stile. È questo ciò che più infastidisce gli al-Saud, che premevano per l’isolamento diplomatico ed economico di Teheran. Se l’isolamento diplomatico relegava l’Iran al ruolo di paria della comunità internazionale, lasciando a Riyad il ruolo di arbitro ed egemone della regione, l’isolamento economico doveva in teoria servire ad assicurare che Teheran non avesse grandi disponibilità di risorse da convogliare verso i movimenti che sponsorizza e che agiscono in nome di obiettivi contrari a quelli degli al-Saud.

Poco importa se così non è stato, e se anni di politica occidentale volta a strangolare l’Iran con sanzioni e isolamento diplomatico non siano di fatto serviti né a far crollare il regime né a far cessare le sue attività di sostegno ai propri alleati nella regione, in primis Assad. La presa di coscienza dell’inutilità di questa politica ha portato l’Amministrazione Obama a optare per la via del pragmatismo e della Realpolitik, accettando di venire a patti con Teheran nel tentativo di avviare una qualche formula di cooperazione sugli interessi comuni, quali la ricomposizione della crisi siriana e l’arresto dell’avanzata dello Stato Islamico.

Una consapevolezza, questa, che Riyad pare non avere ancora maturato. Il regno degli al-Saud rimane infatti intrappolato nella visione hobbesiana mors tua vita mea che esclude di fatto la possibilità dell’instaurazione di una relazione di collaborazione con il proprio avversario.

Prova di questa reticenza e della persistenza della tendenza saudita a vedere l’Iran attraverso le lenti della politica di sicurezza è l’avventata impresa saudita in Yemen. Dal marzo scorso, infatti, Riyad bombarda gli avamposti Houthi – formazione sciita zaydita i cui legami con Teheran, malgrado le accuse saudite, sono molto labili – allo scopo ufficiale di permettere il reinsediamento al potere del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, spodestato dagli Houthi alleati con l’ex presidente Ali Abdullah Saleh. La ripetuta accusa formulata da Riyad a Teheran di essere la longa manus dietro l’avanzata degli Houthi rappresenta solo l’ultimo tentativo di dipingere con toni settari e leggere in chiave della rivalità con Teheran un conflitto che si configura nella realtà come un conflitto tutto yemenita, che affonda le proprie radici nella dissennata politica di Saleh prima e di Hadi poi. Poco importa a Riyad se nel caos yemenita si sta facendo strada in maniera sempre più potente la formazione terroristica al Qaeda nella penisola arabica (AQAP), o se si registrano infiltrazioni dello Stato Islamico.7

Altrettanto indicativo della volontà di Riyad di non arrendersi al “ritorno” dell’Iran è il tentativo degli ultimi mesi di creare un fronte sunnita di contenimento della percepita minaccia iraniana.8 Va in questa direzione il rafforzamento della partnership di ferro con l’Egitto di al-Sisi, esplicitatasi nella cosiddetta “Dichiarazione del Cairo” firmata dai due paesi il 30 luglio scorso, quindici giorni dopo l’annuncio del raggiungimento dell’accordo sul nucleare iraniano. L’intesa introduce una cooperazione su più livelli, da quello militare a quello energetico, ma soprattutto lega a doppio filo il generale egiziano alle decisioni di politica estera di Riyad, non importa quanto incoerenti con i tradizionali interessi egiziani.9 Va in questa direzione anche la ricerca di un modus vivendi con i movimenti appartenenti alla galassia della Fratellanza Musulmana, che solo fino a pochi mesi fa erano ferocemente osteggiati da Riyad, in una guerra tutta interna al fronte sunnita. In un vero capolavoro di contorsionismo diplomatico, ora che la parola d’ordine è contenere il nemico sciita, Riyad cerca il dialogo con Hamas, la cui tradizionale alleanza con Teheran è entrata in crisi in seguito alla crisi siriana, ma anche con paesi vicini ai Fratelli Musulmani, quali Turchia e Qatar.10

Ma la strana alleanza oltrepassa i confini del mondo sunnita per raggiungere Israele, in un gioco di corsi e ricorsi storici che finisce per farsi beffe degli schemi di lettura tradizionali delle alleanze mediorientali. Tel Aviv e Riyad, unite dalla comune opposizione alla Repubblica Islamica iraniana, non hanno fatto mistero nei mesi scorsi di aver tenuto almeno cinque colloqui – presso la sede a Washington del Council on Foreign Relations – per discutere del comune nemico.11

Tutti questi segnali sembrano indicare che la ricomposizione della “guerra fredda” tra Teheran e Riyad è ancora lontana. Poco importa se la monarchia saudita è in questo momento sottoposta a una forte pressione interna, derivante in primis dall’aggravarsi della crisi economica innescata dall’abbassamento del prezzo del petrolio, e che renderebbe auspicabile un alleggerimento della postura aggressiva verso l’esterno. Al contrario, Riyad affronta il momento di difficoltà interna soffiando forte sul fuoco della rivalità con Teheran. In questo contesto, le proposte avanzate di creare delle forme di dialogo istituzionalizzate in forum regionali, in una sorta di riedizione del processo di Helsinki che portò alla ricomposizione delle controversie in Europa, sembrano destinate a rimanere lettera morta.12 Al contrario, Riyad sembra non volersi arrendere all’evidenza del “ritorno” iraniano, o quantomeno sembra decisa a combatterlo fino in fondo, mentre Siria e Iraq bruciano, mentre lo Yemen va alla deriva, e mentre gli effetti della grande crisi mediorientale irrompono anche nelle strade tranquille d’Europa. È auspicabile, in questo contesto, che Riyad negozi con Teheran una strategia condivisa che possa portare all’instaurazione di un dialogo franco e alla ricerca di una soluzione politica che getti acqua sul fuoco di un’ostilità che da anni infiamma la regione. Dopotutto, come ricorda il proverbio, quando la casa del tuo vicino va a fuoco, anche la tua abitazione è in pericolo.


[1] Espressione idiomatica utilizzata in gergo militare per esprimere la necessità di decapitare la leadership della formazione nemica.

[2] R. Colvin, “Cut off head of snake” Saudis told US on Iran, Reuters, 29 novembre 2010, disponibile su www.reuters.com/article/2010/11/29/us-wikileaks-iran-saudis-idUSTRE6AS02B20101129# quZWcipSFmvM7MBw.97

[3] Per un’esposizione dettagliata del legame tra costruzione dello Stato e ideologia religiosa wahabita si veda M. Ayhoob, H. Kosebalaban (a cura di), Religion and Politics in Saudi Arabia: Wahhabism and the State, Lynne Rienner Publishers, Boulder 2009.

[4] F. G. Gause III, Beyond Sectarianism: The New Middle East Cold War, The Brookings Institution Press, Washington 2014, disponibile su www.brookings.edu/research/ papers/2014/07/22-beyond-sectarianism-cold-war-gause

[5] P. Mohseni, The Islamic Awakening: Iran’s Grand Narrative of Arab Uprisings, Brandeis University, Crown Center for Middle East Studies, Middle East Brief, n. 71, aprile 2013, disponibile su www.brandeis.edu/crown/publications/meb/MEB71.pdf

[6] Rulers Snub Arab Summit, Clouding U.S. Bid for Iran Deal, in “The Wall Street Journal”, 11 maggio 2015.

[7] Al-Qaeda Franchise in Yemen Exploits Chaos to Rebuild, Officials Say, in “The Washington Post”, 5 aprile 2015, disponibile su www.washingtonpost.com/world/ national-security/al-qaeda-franchise-in-yemen-exploits-chaos-to-rebuild-officialssay/ 2015/04/04/207208da-d88f-11e4-ba28-f2a685dc7f89_story.html

[8] Saudi Arabia’s New Sunni Alliance, in “The New York Times”, 31 luglio 2015, disponibile su www.nytimes.com/2015/08/01/opinion/hussein-ibish-saudi-arabias-new-sunni-alliance. html?_r=0

[9] Saudi Arabia and Egypt sign “Cairo Declaration”, in “Al Jazeera”, 31 luglio 2015, disponibile su www.aljazeera.com/news/2015/07/saudi-arabia-egypt-sign-cairo-declaration- 150731005229377.html

[10] Saudi Arabia Extends Hand to Muslim Brotherhood, in “Middle East Monitor”, 29 marzo 2015, disponibile su www.middleeastmonitor.com/blogs/politics/17773-saudiarabia- extends-hand-to-muslim-brotherhood.

[11] Israelis and Saudis Reveal Secret Talks to Thwart Iran, in “Bloomberg View”, 4 giugno 2015, disponibile su www.bloombergview.com/articles/2015-06-04/israelis-and-saudis- reveal-secret-talks-to-thwart-iran

[12] Per un approfondimento sulla proposta di forum per la sicurezza regionale si veda F. Wehrey, R. Sokolsky, Imagining a New Security Order in the Gulf, Carnegie Endowment for International Peace, Washington, ottobre 2015, disponibile su carnegieendowment. org/files/CP256_Wehrey-Sokolsky_final.pdf