Fenomenologie dello spazio pubblico. Genere e Islam

Di Anna Loretoni Venerdì 30 Dicembre 2016 17:07 Stampa

Il “popolo” è un’entità dinamica, frutto di una continua interazione di demos ed ethnoi. Innalzare un muro verso i nuovi ethnoi significa impedire agli individui di mettere in pratica un esercizio riflessivo capace di stabilire ponti tra la propria originaria appartenenza e i principi, i valori e le regole della nuova. La presenza dell’Islam in Europa, l’apparire sulla scena pubblica dei musulmani, l’emergere di pratiche e simboli religiosi nelle diverse sfere della vita sociale costringono la dimensione pubblica europea a rivedere il piano condiviso della secolarizzazione e a cercare un nuovo punto d’incontro con l’altro. Stigmatizzare i comportamenti delle giovani donne musulmane che rivendicano il diritto a mostrare i loro simboli di appartenenza religiosa mostra le aporie di una cultura occidentale che da una parte enfatizza la dimensione universale dei diritti e dei valori, e dall’altra erige muri per definire dall’interno la stessa comunità politica.

La pratica democratica non si limita ai processi formali della politi­ca, ma si riflette anche in atti di dissenso culturale, di trasformazio­ne e reinvenzione degli standard della comunità di appartenenza. Nell’ambito delle discussioni pubbliche, gli attori entrano in gioco con una certa percezione della propria identità e del proprio posi­zionamento, ma ne escono modificati attraverso lo stesso svilupparsi del dialogo. Seyla Benhabib ha rimarcato questa trasformazione nel ripercorrere la vicenda dell’affaire du foulard in Francia.1 In questo caso, giovani donne che lottavano per affermare un’identità tradi­zionale, da “soggetti docili”, si sono trasformate, anche grazie alle opportunità offerte loro dalla dimensione democratica, in “sé pub­blici”, capaci di rivendicare qualcosa rispetto allo Stato.

Non è possibile prevedere se ciò significherà rimettere in discussio­ne le stesse tradizioni islamiche a favore delle quali queste donne lottano, apportando modificazioni all’interno della loro cultura in termini di diritti di genere. Tuttavia, possiamo quantomeno impe­gnarci per evitare di contrapporre a queste forme di agency il muro di un’ingombrante concezione del demos, un universalismo di fatto escludente. Su questo versante, l’affaire du foulard ci conduce innan­zitutto a spostare la nostra attenzione dal conflitto tra i valori alla riflessione sulla natura fluida del concetto di popolo, a partire dalla quale ogni dualismo tra cittadini e migranti, tra nazionali e stranieri, appare inadeguato.

Mediante un processo giusgenerativo che trova nello spazio pubblico delle iterazioni democratiche il suo centro, il popolo democratico definisce originariamente se stesso e poi si ridefinisce espandendosi e includendo nuovi soggetti. Il fatto che gli stranieri divengano re­sidenti e poi cittadini mostra il carattere poroso di ogni determina­zione del “noi, il popolo” quale entità dinamica e non statica, contri­buendo così a rafforzare la configurazione del demos come insieme di cittadini e cittadine che interagiscono democraticamente pur appar­tenendo a diversi ethnoi. Sono queste due dimensioni, continuamen­te negoziate, a sancire il carattere aperto dell’appartenenza democra­tica, in base alla quale i popoli si sviluppano nel corso della storia e si modificano, anche in forma conflittuale, lungo divisioni interne che fanno riferimento al genere, alla classe, all’etnia, alla religione.

Innalzare un muro verso i nuovi ethnoi significa impedire agli indi­vidui di mettere in pratica un esercizio riflessivo capace di stabilire ponti tra la propria originaria appartenenza e i principi, i valori e le regole della nuova. I gruppi marginalizzati hanno sempre cercato nel corso della storia di ridisegnare i confini dell’inclusione tramite lotte che intendevano ridefinire il codice morale dell’appartenenza democratica. Ma se l’accesso alla sfera pubblica viene negato, la per­cezione del proprio sradicamento può portare questi gruppi a ritro­vare esclusivamente nell’appartenenza etnica un fondamento per la nostra identità.2

Intesa come determinazione dai confini controvertibili, la nozione di popolo contiene una dialettica interna alla narrazione dei suoi ele­menti che è alfine insopprimibile, composta da elementi dissonanti, basati su aspirazioni universalistiche, e da posizioni particolaristiche che producono esiti sempre rivedibili e mai conclusivi. Se l’ipote­si di uno spirito nazionale unitario inibisce ai gruppi subalterni la possibilità di interagire e modificare il contesto e il contenuto della definizione di popolo entro cui assume forma la loro stessa subordi­nazione, la definizione aperta e fluida di popolo è in grado quanto­meno di aprire un varco nel dualismo costitutivo dell’appartenenza. L’obiettivo di questa riflessione è mettere in luce il fatto che all’interno delle identità nazionali l’altro non è mai stato altrove, ma sempre accan­to a noi. Dal cilindro delle nostre democrazie, se capovolte, fuoriescono gruppi sociali e individui che condividono valori, principi e auto-rappre­sentazioni simboliche che non collimano con quelle delle democrazie liberali.

La presenza dell’Islam in Europa, l’apparire sul­la scena pubblica del musulmano/a, l’emergere di pratiche e simboli religiosi nelle diverse sfere della vita sociale rappresentano un momento cri­tico nella prospettiva di una visione sostanzialistica del demos. Questi nuovi attori sociali, dapprima invisibili e poi tangibili grazie all’in­gresso in siffatto scenario, entrano inevitabilmente in attrito con la dimensione pubblica europea e costringono a rivedere il piano con­diviso della secolarizzazione. È proprio l’Islam a mettere in discus­sione le fondamenta di una simile configurazione della sfera pub­blica, perché è l’agency religiosa che viene a rappresentare il punto critico di una legittimità politica fondata sulla privatizzazione di tale dimensione. Nilüfer Göle rileva come il racconto occidentale della modernità si fondi anche sull’ipotesi che l’attore religioso sparisca. Se anche la dialettica tra visibilità e invisibilità decreta il carattere mutevole della democrazia, l’Islam diviene un atto di sfida per lo spazio pubblico europeo, e in particolare per quello caratterizzato da repubblicanesimo e secolarismo.

Mettendo in mostra elementi visuali della loro diversità religiosa, gli attori islamici si distinguono, pregando pubblicamente nelle piazze o indossando un foulard, e rompono l’ordine secolare, producendo discussione e disaccordo. Da questo punto di vista, è la relazione con l’Islam ad avanzare la pretesa di rideterminare la sfera pubblica europea in senso pluralista, o forse, come sarebbe più giusto dire, iperpluralista.

Come è evidente, questa lettura dello spazio pubblico è debitrice ver­so quelle interpretazioni della democrazia come luogo del conflitto e del dissenso, piuttosto che come ambito delle virtù democratiche di un’interazione che mira alla conciliazione.3 Lo spazio pubblico viene così ad assumere un ruolo estremamente significativo: è attraverso esso che nuovi attori e nuovi temi pongono in questione l’orizzonte dato; mettendo in scena i simboli e le pratiche di questa differenza cultura­le, gli attori possono infrangere il consolidato or­dine secolare. In tal modo, quello pubblico non è più lo spazio comune che delimita un ambito consensuale, sul modello habermasiano di una sfera pubblica regolata dallo Stato, ma diviene campo di azione e sperimentazione, un processo dagli esiti non prevedibili. Ed è così che la sfida posta dalle religioni, e in particolare dall’Islam, rappresenta per l’Europa una relazione complessa, che la costringe a ridisegnare i propri confini, sia geografici che culturali. Ripensata in questi termini, la visibilità religiosa diventa infatti una forma di agency pubblica.

Secondo Göle, pratiche come indossare hijah nelle scuole, la pre­ghiera pubblica o il commercio di cibo halal non soltanto esprimono pubblicamente la presenza dei musulmani in Europa, ma partecipa­no anche alla (ri)produzione di un immaginario collettivo religioso in cui gli attori islamici possono riconoscersi. In questo scenario, l’agency pubblica, rilevandosi in modo sporadico e intermittente, è in grado di scardinare le cornici sociali e istituzionali dal basso, ha un ruolo attivo nell’emergere del conflitto e del dissenso, e abbando­nando la sfera privata per esporsi nello spazio pubblico, diventa una prova di cittadinanza. Come ci ricorda Hannah Arendt, nella relazio­ne tra apparire pubblico e azione politica, l’individuo non pre-esiste alla propria azione, ma si rivela attraverso il suo apparire nello spazio pubblico, quello in cui si diventa visibili.

In questi contesti la democrazia deliberativa, cercando di coniugare il piano della discussione pubblica delle istituzioni liberal-democra­tiche e quello dei canali non ufficiali della società civile, potrebbe offrire un vantaggio nella capacità di inclusione dei soggetti esclusi. In questi ambiti più informali, può risultare più agevole per gli indi­vidui più vulnerabili prendere la parola, sebbene sia spesso proprio la voce delle donne che appartengono alle minoranze che continua a essere assente.4 Ciononostante, il portato inclusivo offerto dalla deliberazione è stato sottolineato da non poche studiose di genere, che hanno sostenuto che un modello deliberativo di democrazia può offrire interessanti risposte proprio alle sfide poste dalle tematiche multiculturali. Se il carattere iperpluralista delle società contempora­nee non è più risolvibile all’interno dei tradizionali dispositivi libe­rali, la democrazia deliberativa può dare una risposta più soddisfa­cente, potendo essa mettere in atto una forma di partecipazione più “di contatto”, che non prescinde dal riconoscimento della reciproca dignità degli attori coinvolti.

I dibattiti che si producono all’interno degli spazi informali presup­pongono, infatti, un riconoscimento reciproco delle parti in causa, che, egualmente implicate e coinvolte, possono rendere più facile reperire un accomodamento. Porre le comunità culturali al centro del dibattito implica un rispetto formale dei loro membri che vie­ne prima del rispetto dei valori condivisi. Ciò renderebbe possibile lo sviluppo di un comune senso di appartenenza, di tipo politico e non morale, fondato su una reciprocità a più livelli: tra individui, tra gruppi e tra la comunità politica e i primi.

Qui, infatti, non si tratta di riproporre un approdo alla cittadinanza come titolarità di un set di diritti acquisibili, certo non trascurabile, ma di sottolineare che al processo di inclusione deve accompagnarsi, da parte degli individui, un “feeling of belonging” che non li faccia sentire misconosciuti e che sviluppi in loro un “cultural self-esteem”.5

Senza dubbio i processi deliberativi non sono affatto scevri da ele­menti problematici; si pensi, solo per fare un esempio, alla questione relativa ai presupposti dialogici, alle regole e ai criteri alla base della discussione, che, non essendo neutrali, pongono i soggetti su un pia­no asimmetrico e non lineare.6 Ciononostante, risultano interessanti quelle forme di discussione pubblica che non mirano al consegui­mento di un accordo, bensì alla formulazione dei rispettivi punti di vista che, rivisitati riflessivamente, possono venire apprezzati anche se non condivisi. Si tratta di un primo livello di interazione, all’inter­no del quale non si verrebbe a determinare un accordo sui contenuti, ma in cui si verrebbero a riconoscere le credenze degli altri, senza sentirsi al tempo stesso vincolati a quelle credenze. Mirando non a un “moral consensus”, ma a un accordo ragionato di tipo politico, a un compromesso, è possibile rileggere i conflitti all’interno dei grup­pi come conflitti politici e non culturali. Non dobbiamo raggiungere un’intesa sulle norme morali, ma accordarci politicamente, secondo una visione della democrazia deliberativa più politica che morale. Tra i criteri che presiedono al processo deliberativo, oltre a quello della “non-domination” e della “political inclusion”, deve essere compreso quello relativo al principio di “rivedibilità”, che proprio perché fonda la possibilità di rinegoziare gli accordi, può facilitare il compromes­so. Si tratta in definitiva di pratiche di accomodamento, che pos­sono anche sfociare in forme di consultazione delle comunità, public hearings, i cui contenuti potranno successivamente diventare oggetto di norme procedurali o costituzionali.

L’assunto di base di questi ragionamenti è che l’adesione alla comunità di appartenenza varia da individuo a individuo e nel corso del tempo può mutare per lo stesso individuo, favorendo con ciò il terreno dell’incontro. L’identità cultu­rale, lungi dall’essere univoca e statica, consente agli individui di muoversi all’interno delle cultu­re secondo un approccio selettivo e nomadico, muovendosi da una cultura all’altra. La cultura, come processo attivo di creazione e ricreazione di significati, è al tempo stesso aperta e alterabile, una sorta di precondizione all’interno della quale esercitare la creatività. Se è in generale difficile assumere e praticare il versante aperto e creativo dell’appartenenza culturale, nel caso specifico delle donne lo è in modo particolare.

La riflessione di genere ha posto, sin da subito, all’interno del di­scorso sull’identità, il problema delle identità ascritte, di un versan­te eterodiretto e performativo in base al quale l’identità non è solo quello che io scelgo di essere, ma anche ciò che gli altri decidono che io sia, il significato che essi conferiscono agli elementi del mio essere culturalmente una donna. Si è però al tempo stesso rilevato che le donne possono negoziare le loro scelte anche entro contesti che limitano la loro autonomia in senso tradizionale. Sia il matrimonio combinato – da distinguersi da quello forzato – sia l’affaire du foulard rappresentano due buoni esempi per questa riflessione. Accettare una forma di assoggettamento in un determinato ambito di vita, può tal­volta significare una crescita di agency ed empowerment in un altro. La scelta del condizionamento da parte della tradizione che si manifesta in queste pratiche, ad esempio, può di fatto implicare la creazione di uno spazio all’interno del quale le donne possono guadagnare auto­nomia economica e forme di agency.

Il terreno è senza dubbio molto scivoloso, e il rischio di una giu­stificazione di stampo relativistico consistente, ma questo approccio offre anche indubbi vantaggi. Esso permette di catturare forme di agency là dove sembra di poter rintracciare, a un primo sguardo, solo oppressione e carenza di autonomia. In proposito, Marilyn Friedman suggerisce un’enunciazione del concetto di autonomia mol­to più ampia rispetto al suo significato tradizionale, distinguendo un concetto minimo di autonomia come “minimal degree of self reflexivity”, alla luce del quale le donne possono praticare scelte che si allontanino dal significato canonico di auto­nomia, spingendosi verso modelli di femminilità più vicini a quelle culture minoritarie in cui que­ste donne sono state socializzate.

Si parla quindi di un’autonomia di tipo proce­durale, “content-neutral”, che connette la scel­ta a un livello di consapevolezza interiore e che pertanto si rivela compatibile con l’esperienza di donne appartenenti a culture tradizionali. Sce­gliere di rimanere in una condizione subordinata all’interno della famiglia o di un’organizzazione sociale non è, secondo questa prospettiva, ne­cessariamente incoerente con l’autonomia, fintanto che la scelta si accorda con una dimensione riflessiva delle pratiche adottate e pro­mosse dalle donne.7 A essere decisivo è però non solo il processo di auto-valutazione riflessiva, ma il fatto che le donne siano in grado, anche in contesti culturali non liberali, di compiere scelte in condi­zioni di non coercizione e di non manipolazione.

Simili riflessioni denotano che le donne possono esercitare la libertà anche in contesti di oppressione, praticando quel “bargaining with patriarchy” che, sebbene in misura diversa, sembra caratterizzare ogni scenario culturale, nessuno escluso. L’assenza di un range di alternative possibili non è un indicatore assoluto per stabilire l’au­tonomia delle donne, perché occorre prendere in considerazione i molti e diversi modi con cui le donne negoziano le loro scelte anche entro contesti di limitazione significativa della loro libertà.8 Se noi assumiamo che il significato di queste pratiche sia solo una sfida reli­giosa allo Stato secolare occidentale, o che rappresenti un chiaro atto di sottomissione, stiamo mortificando la capacità di queste donne di decidere il significato delle loro azioni. Rischiamo di confinarle di nuovo all’interno di quel mondo patriarcale da cui stanno cercando di fuggire, mettendo in pratica una agency capace di mediare con la loro tradizione. Stigmatizzare i comportamenti di queste giovani donne mostra le aporie di una cultura occidentale che da una parte enfatizza la dimensione universale dei diritti e dei valori, e dall’altra erige muri per definire dall’interno la stessa comunità politica. In questo senso, lo stesso femminismo occidentale deve compiere una riflessione autocritica su attitudini che talvolta hanno mostrato una certa propensione all’orientalismo, riconoscendo che tutte le culture sono in movimento lungo differenti percorsi di modernizzazione.

 


 

[1] S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Uguaglianza e diversità nell’era globale, il Mulino, Bologna 2002.

[2] Sul nesso tra sradicamento e appartenenza etnica si veda G. Baumann, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, il Mulino, Bologna 2007.

[3] N. Göle, Islam Resetting the European Agenda?, in “Public Culture”, 1/2006, pp. 11-14; N. Göle, La dirompente visibilità dell’Islam nello spazio pubblico europeo. Problemi politici, questioni teoriche, in “Politica & Società”, 1/2012, pp. 65-88.

[4] Questa esclusione si rivela particolarmente grave quando le pratiche in discussione coinvolgono i corpi delle donne o le riguardano direttamente: i governi non dovrebbero ignorare il loro punto di vista, proprio per evitare ciò che è avvenuto nel caso francese. Rimando qui al mio Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, Donzelli, Roma 2014.

[5] B. Parekh, Rethinking Multiculturalism, Cultural Diversity and Political Theory, Harvard University Press, Cambridge 2000.

[6] Per una presentazione critica dell’ampia letteratura sui diversi modelli di democrazia deliberativa si veda A. Floridia, La democrazia deliberativa. Teorie, processi e sistemi, Carocci, Roma 2013. Si veda inoltre L. Marchettoni, I diritti umani tra universalismo e particolarismo, Giappichelli, Torino 2012.

[7] M. Friedman, Autonomy, Gender, and Politics, Oxford University Press, Oxford 2003.

[8] Su questo tema interviene anche U. Narayan, Mind of Their Own. Choices, Autonomy, Cultural Practices and Other Women, in L. M. Antony, C. Witt (a cura di), A Mind of One’s Own, Feminist Essays on Reason and Objectivity, Westview Press, Boulder 2002, pp. 418-32.