Oltre la retorica dei corpi intermedi: i costi sociali dell'associazionismo forte

Di Paolo Feltrin Mercoledì 03 Settembre 2014 09:59 Stampa

La retorica tradizionale, sia di destra che di sinistra, ha sempre sottolineato il ruolo positivo svolto dai corpi intermedi, considerati fattori di stabilizzazione politica del paese e cinghia di trasmissione tra classi dirigenti e cittadini. E se invece la realtà delle cose fosse diversa? È possibile avanzare l’idea che alcuni dei grandi problemi del paese siano, almeno in parte, diretta conseguenza della cristallizzazione di una congerie di interessi organizzati in solide associazioni di rappresentanza, tutte protese a difendere il loro particolare, senza responsabilità reale verso le sorti del paese e senza verifica di qualsiasi tipo di compatibilità generale?

Le associazioni come causa del declino italiano?

Detta subito e senza mezzi termini, la domanda da porsi è se tra le cause del declino italiano ci siano anche le associazioni di rappresentanza degli interessi: quelle vere, grandi, radicate nel territorio, con decine di migliaia di funzionari e dipendenti, non le generiche lobbies e corporazioni di cui a volte si discute in termini sommari.

La trappola strutturale in cui è caduto il nostro paese è caratterizzata da tre grandi emergenze, tutte e tre giunte contemporaneamente tra capo e collo, in forme tanto estreme quanto drammatiche. La prima emergenza riguarda la gravissima crisi che, a partire dal 2008, si è riversata dal mondo della finanza sull’economia reale, innescando una profonda recessione dalla quale fatichiamo più di altri a uscire. Per le aziende questo significa, tra le altre cose, problemi di accesso al credito e maggiore competizione per intercettare un potere d’acquisto in contrazione. Tale contrazione non è probabilmente legata esclusivamente a un andamento ciclico di passaggio, ma anche a una strutturale saturazione dei mercati interni all’area OCSE per molti beni e servizi di tipo tradizionale. Di qui la necessità per tutti i paesi industriali avanzati – e un obbligo per noi – di aumentare il più rapidamente possibile la propria quota di esportazioni su base mondo.

La seconda emergenza è relativa alla mancata soluzione del problema del nostro debito pubblico, che ha ridotto al lumicino i gradi di libertà nella scelta delle strategie per fronteggiare la crisi economico-finanziaria degli ultimi cinque anni. Invece di sfruttare la congiuntura positiva della seconda metà degli anni Novanta e della prima metà degli anni Duemila per risanare le finanze pubbliche si è preferito rinviare le inevitabili riforme strutturali e sperare in una prosecuzione della congiuntura positiva sine die.

In terzo luogo, nonostante un dibattito politico e associativo durato oltre vent’anni, l’Italia ha rinviato qualsiasi decisione relativa ai suoi assetti istituzionali (governo e Parlamento, Regioni, Province, Comuni), innescando un ulteriore fattore di criticità derivato da un aumento di spese periferiche che oggi ci si accorge essere state del tutto non controllate, inefficienti e inefficaci. Di qui un aumento dei divari territoriali Nord-Sud e un più generale deterioramento dell’efficienza del paese.

La responsabilità di questi ventennali esiti negativi è esclusivamente da attribuire alla politica oppure c’entrano qualcosa anche i cosiddetti “corpi intermedi”, ovvero le associazioni di rappresentanza degli interessi, sindacati e organizzazioni datoriali in primo luogo? Sotto il profilo storico, la rappresentazione retorica tipica del “discorso nazionale”, sia di destra che di sinistra, ha sempre messo l’accento sul ruolo positivo dei corpi intermedi, considerati fattori di stabilizzazione politica del paese e cinghia di trasmissione tra classi dirigenti e cittadini. Ma siamo così sicuri che sia stato davvero così per il passato? E, soprattutto, che l’ipotetico giudizio positivo sui decenni trascorsi prolunghi anche oggi il suo alone sulla congiuntura odierna? Detta in altro modo, si potrebbe avanzare l’idea che le tre grandi emergenze prima indicate siano l’esito inevitabile di pesanti “rendite neocorporative”, ovvero della cristallizzazione di una congerie di interessi organizzati in solide associazioni di rappresentanza, tutte protese a difendere il loro particolare, senza responsabilità reale verso le sorti del paese e senza verifica di qualsiasi tipo di compatibilità generale. Non ci si faccia abbagliare dal richiamo costante di ognuna di queste associazioni all’“interesse generale”, perché fa parte del loro armamentario retorico – quasi un riflesso automatico – ammantare di roboanti buoni propositi (di tutela dell’interesse generale) gli obiettivi più indifendibili.

Del resto, va ricordato che il numero delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi nel nostro paese non ha eguali al mondo. In parte, perché di derivazione politica, quindi almeno moltiplicate per tre (ex PCI, ex DC, ex socialisti e laici), visto che l’esaurirsi della matrice originaria non ha avuto come conseguenza – Michels docet – le tanto auspicate fusioni (mergers) associative, esclusi i casi delle rappresentanze delle ex aziende pubbliche. In parte, perché sussidiate in mille modi dallo Stato e favorite da una legislazione di sostegno molto generosa: distacchi retribuiti, contributi figurativi, quote di servizio contrattuale, fondi obbligatori, diritti camerali ecc., una terminologia (volutamente) oscura con la quale si cerca di mimetizzare solide guarentigie associative. In parte, infine, perché l’associazionismo si è esteso a macchia d’olio ben oltre i confini degli interessi sindacali e datoriali strettamente intesi: basti pensare all’assurdità di un’associazione di tutela degli interessi dei Comuni (ANCI), ricalcata pari pari sul modello di un sindacato, in perenne conflitto con governo, Parlamento e Regioni. La cartina di tornasole è farsi su ogni argomento una domanda di questo genere: senza le associazioni si sarebbe fatto prima, meglio e in modo più rispettoso degli interessi davvero in gioco? Ad esempio, senza l’ANCI la riforma degli enti locali – fatto compiuto in tutta Europa – sarebbe già nell’ordinamento di questo paese o no?

 

Uno sguardo alle trasformazioni nei paesi europei

Ma guardiamo cosa sta accadendo nel resto del continente. I regimi di rappresentanza “neocorporativi” tipici dell’Europa del Centro-Nord – per quanto non scompaiano e mantengano le peculiarità legate alle tradizioni organizzative dei singoli paesi – hanno oggi funzioni e influenza ridotte. Questo ridimensionamento riguarda anche il ruolo tradizionale di rappresentanza politica svolto dalle associazioni datoriali. Alcune ricerche recenti1 riassumono così i meccanismi causali che conducono a un tale effetto: a) il continuo indebolimento dei sindacati, reso manifesto dal de clino degli iscritti e dei tassi di sindacalizzazione, tende a ridurre i benefici che le associazioni datoriali possono offrire ai propri membri in quanto titolari della contrattazione collettiva; b) un simile effetto proviene anche dalla tendenza a decentralizzare la contrattazione al livello della singola azienda o unità produttiva; c) l’intensificazione della competizione di mercato ha costretto le aziende a tagliare i costi e le aziende hanno trasmesso queste pressioni alle proprie associazioni imponendo loro riforme organizzative finalizzate a ridurre il personale e a tagliare i budget; d) il crescente numero di microaziende crea problemi di adesione associativa, perché organizzare queste aziende è particolarmente difficile per tutte le associazioni, specie per quelle dominate dalle grandi imprese.

Questi sviluppi rappresentano una sfida per le associazioni di rappresentanza. Innanzitutto, la situazione di crisi e l’inasprirsi della concorrenza fanno emergere per la prima volta un vincolo di budget legato a un tetto di tipo fiscale alle quote tessera, spingendo verso riforme tendenti alla “sobrietà organizzativa”, alla massima efficienza, all’eliminazione delle spese inutili (il “tempo perso” di cui parlava Manghi anni fa) e delle ridondanze organizzative. Tale rigore è anche funzionale a una difesa della legittimità delle associazioni, che devono evitare di apparire di fronte all’opinione pubblica come parte della “casta” politica e dei suoi sprechi. C’è poi la crisi della rappresentanza tradizionale, che spinge a muoversi in due direzioni. Da un lato assume rinnovata importanza la fornitura di servizi – vecchi e nuovi – agli associati. Questo è particolarmente vero per quel che riguarda la piccola e microimpresa, che difficilmente possono internalizzare le competenze manageriali, finanziarie e commerciali oggi più che mai necessarie per competere. Dall’altro lato viene avvertita l’esigenza di rinnovare le istituzioni della rappresentanza in modo da adattarle al mutato contesto. Una seconda ricerca comparata2 registra una tendenza di livello europeo alla costituzione di Reti organizzative coordinate (COWs, Coordinated Organizational Webs), ovvero reti di organizzazioni preesistenti in grado di svolgere nuovi compiti nella creazione di valore per le imprese e di conferire un ruolo attivo alle associazioni di rappresentanza nell’ambito delle riforme odierne. Rete imprese Italia costituisce appunto un esempio di questo fenomeno.

Sotto questo profilo, la riflessione sulla vicenda e sulle specificità italiane deve essere condotta avendo ben chiare le tendenze di fondo osservabili negli altri paesi industriali avanzati, non perché vi sia una chiara indicazione verso l’omogeneità e la convergenza, ma perché le differenze e le specificità nazionali devono trovare posto, non contrastandolo ma adattandosi al mainstream odierno.

Le principali tendenze comuni alla rappresentanza degli interessi imprenditoriali sarebbero le seguenti:3 a) le forme forti di concertazione tra governo e parti sociali hanno perso molta della loro precedente importanza in tutto l’Occidente, ma non sono scomparse, e l’ipotesi di una nuova possibile futura ascesa non può essere esclusa del tutto (concertazione come modalità regolativa di tipo ciclico); b) l’europeizzazione e l’integrazione europea hanno un ruolo molto limitato nella spiegazione del declino della concertazione. Nella misura in cui i cambiamenti nei sistemi regolativi hanno influenzato i sistemi associativi e le singole associazioni, le scelte interne ai singoli Stati hanno avuto un’importanza di gran lunga maggiore (tendenziale permanenza di un ruolo forte degli Stati nazionali); c) anche se non tutte le “varietà di capitalismo” sembrano essere ugualmente protette da influenze esogene, le specificità nazionali possono giocare ancora un ruolo importante anche in un mondo globalizzato (peso delle specificità nazionali nella regolazione dell’economia); d) paesi con eguale successo economico sono caratterizzati da sviluppi differenti dei sistemi associativi (permanenza delle storie e delle tradizioni associative nazionali se riescono ad adattarsi ai grandi cambiamenti sopranazionali dell’economia e della tecnologia); e) per quanto basato su differenti percorsi di sviluppo, il modello delle Reti organizzative coordinate (COWs), ovvero grandi confederazioni onnicomprensive, sta avendo maggiore capacità di successo rispetto agli altri modelli categoriali o localistici; f) al livello di singole associazioni di categoria, si possono osservare trend convergenti nel mutamento delle caratteristiche organizzative, in particolare ampliamento dei temi di interesse oltre il recinto sindacale, abolizione della iscrizione obbligatoria, strutture leggere, management snello, più forti collegamenti tra le organizzazioni e una maggiore enfasi sull’offerta di servizi e consulenza (specialmente marketing, pubbliche relazioni e formazione avanzata); g) la logica della creazione di valore per i soci diventa sempre più la missione prima delle associazioni; h) a causa del confronto/competizione con il mercato, le associazioni tendono a diventare sempre più simili (“iso morfiche”) ad altri tipi di organizzazione economiche, soprattutto alle aziende (l’orizzonte della globalizzazione funge da catalizzatore); i) sia al livello confederale che a quello delle singole associazioni, l’importanza del livello territoriale si va ulteriormente rafforzando, nonostante i processi di globalizzazione, a causa dell’importanza dei percorsi di sviluppo economico a base locale (glocalization).

 

Una prospettiva per il futuro

Se proviamo a proiettare queste indicazioni internazionali sullo scenario futuro italiano, assumendo come orizzonte di comodo il 2020 e immaginando – con ottimismo – che l’Italia riesca a superare le tre emergenze citate all’inizio, appare abbastanza plausibile immaginare uno scenario dell’associazionismo economico che possiamo delineare a grandi tratti in questo modo: a) un numero più ridotto rispetto a oggi di grandi centrali confederali, capaci di offrire in modo efficiente una grande quantità di servizi e prodotti alle imprese associate; b) le poche grandi centrali confederali saranno dotate di elevata trasparenza e accountability e saranno capaci di farsi carico responsabilmente di una parte significativa di politiche pubbliche in campo economico su delega dello Stato; c) l’attività di rappresentanza sarà sempre più filtrata dalla capacità di interpretare l’interesse nazionale in campo economico, inteso come la massimizzazione della crescita del PIL e delle esportazioni sotto il vincolo di un debito pubblico contenuto; d) il baricentro organizzativo andrà strutturandosi sui livelli nazionali, regionali e zonali, mentre le attività di produzione di servizi e prodotti confederali saranno finalizzate a dare valore a imprese, reti e filiere, incrociando le attività e i ruoli delle strutture categoriali e territoriali.

Non dobbiamo nasconderci quanto improbabile sia lo scenario appena prospettato, vuoi per la frammentazione del panorama associativo vuoi per le difficoltà dei processi aggregativi sperimentati anche di recente (vedi Rete imprese Italia e le altre aggregazioni di confederazioni datoriali). Si osservi la resistenza delle Camere di commercio verso una loro semplificazione, auspicata a parole da tutti, visto il paradosso – solo italiano – di duplicazione perfetta, Provincia per Provincia, dalla Lombardia alla Sicilia, di un coacervo di associazioni di rappresentanza datoriali e delle Camere di commercio a base provinciale. Perché? Questo è il problema da mettere a fuoco. A mio avviso la risposta sta nella sottovaluta zione delle trappole associative sollevate a suo tempo da Mancur Olson, sulla scia (inconsapevole) di Roberto Michels, e nella sopravalutazione del giudizio ottimistico sulla capacità delle associazioni di contribuire al bene comune che accomuna Tocqueville a Toniolo, Putnam a De Rita. Olson – e come lui Jack Walker – ha chiarito che senza efficaci contromisure le associazioni tenderanno per loro intrinseca natura ad accumulare rendite su rendite, all’interno di coalizioni distributive, a danno costante dell’erario pubblico. Solo in particolarissime circostanze questo esito viene evitato: in paesi di piccolissime dimensioni (secondo la lezione di Katzenstein), dove sono tendenzialmente coincidenti interessi generali e interessi sezionali (encompassing interests). Fuori da questo caso estremo, solo una politica forte e severi controlli istituzionali possono impedire agli interessi associati di strozzare il bilancio statale. La furbizia tipicamente nostrana è stata quella di ammantare della retorica dell’interesse nazionale il perseguimento degli interessi particolari senza mai pagare dazio, ovvero senza che nessuno alzasse il dito e facesse vedere quanto fuorviante (e costosa) fosse questa retorica. Ma prima o poi i nodi arrivano al pettine per tutti: i sindacati; la Confindustria; le associazioni della piccola impresa, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura; gli ordini professionali e le loro casse previdenziali; le Camere di commercio e così via. E la parola torna in primo luogo alla politica.

A prima vista sembra impossibile che la risposta alle rendite associative stia nella politica. Tuttavia andrebbero tenute a mente due leve su cui la politica e le istituzioni possono contare in questa fase storica: in primo luogo l’internazionalizzazione, che mina una parte del potere di interdizione in mano alle organizzazioni di interesse economico; in secondo luogo la “disintermediazione” via canali informatici (web), che consente per la prima volta una concorrenza con agenzie private in grado di offrire gli stessi servizi a costi minori ed efficienza maggiore. Se si tiene conto di questi due cambiamenti strutturali, le organizzazioni di rappresentanza di interesse sono in questo momento dei “giganti dai piedi di argilla”, per cui anche una politica indebolita, qual è quella nostrana, potrebbe avere buon gioco per andare a verificare l’effettiva solidità di questo mondo, sfidandolo sul terreno della riforma/autoriforma.

 


 

[1] F. Traxler, G. Huemer, Handbook of Business Interest Associations, Firm Size and Governance. A Comparative Analytical Approach, Routledge, Londra 2007.

[2] C. Wagemann, Breakdown and Change of Private Interest Governments, Routledge, Londra 2011.

[3] C. Wagemann, op. cit.

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