Un patto per la manifattura in Europa

Di Salvatore Tomaselli Martedì 02 Settembre 2014 16:03 Stampa

In Europa la ripresa economica, pur iniziata, è ancora debole. Ciò è vero soprattutto nel nostro paese, che ha subito negli ultimi anni una massiccia erosione della base produttiva, tanto da scendere nel 2013 all’ottavo posto nella classifica dei principali paesi manifatturieri, superato dal Brasile. Eppure la nostra industria manifesta una notevole capacità competitiva in settori altamente innovativi e tecnologici. Quello che però manca, in Italia come in Europa, è una moderna e organica politica industriale che si ponga degli obiettivi di medio-lungo periodo e che sappia rispondere alle sfide di una economia mondiale sempre più globalizzata. Da questo punto di vista l’Industrial Compact, promosso dalla Commissione europea nel gennaio scorso, sembra andare nel verso giusto. L’auspicio è che l’Italia, nel corso del semestre di presidenza dell’Unione, sappia favorirne al massimo l’attuazione.

Rischiamo di vivere nei prossimi mesi, in Europa come in Italia, un grande e insopportabile paradosso. La grande crisi, che è scoppiata come crisi dei mercati finanziari, per quegli stessi mercati è ormai superata: basti vedere l’andamento degli indici azionari degli ultimi mesi, le banche che hanno superato la loro crisi di sistema e di liquidità, il rinnovato e solido interesse di investitori globali verso il Vecchio continente, che negli ultimi mesi ha fatto rientrare nell’area euro, si calcola, un flusso di capitali pari a circa 150 miliardi di dollari.

Ma il paradosso di tutto ciò è che la crisi è finita per chi l’ha procurata, ovvero i mercati finanziari spregiudicati e spesso privi di regole adeguate ai nuovi tempi. In realtà, per chi più di altri l’ha subita sulla propria pelle (le famiglie, i lavoratori, i giovani, le imprese), in Italia come in gran parte d’Europa, la crisi è ancora tutta lì, a mostrare i segni di una vera e propria devastazione sociale. Da qui la sfida vera, da far tremare i polsi, è innanzitutto recuperare dal punto di vista occupazionale e produttivo tutto ciò che abbiamo perso negli ultimi anni.

La ripresa economica, che in Europa comincia a farsi strada, è ancora debole e contraddittoria. Nel primo trimestre dell’anno Eurostat ha registrato una crescita del PIL dell’area euro dello 0,2%. Ben al di sotto delle stime, attestate su un’espansione dello 0,4%: una flessione che rischia di compromettere la previsione della Commissione di una crescita del PIL per il 2014 pari all’1,4 % nell’UE a 28. In Italia tali segnali sono ancora più flebili, come confermano i dati più recenti in corso d’anno, anche se per comprendere davvero cosa sia accaduto vale la pena guardare soprattutto a dati consolidati. In un quadro fortemente contrastato, al netto delle rilevazioni contingenti e altalenanti dell’intero primo semestre del 2014, il PIL pro capite italiano nell’arco di tempo che va dal 2001 al 2013 è passato da 24.460 euro a 22.874, registrando dunque una contrazione del 6,5%. Il dato peggiore tra i ventotto paesi dell’Unione è un saldo negativo che ci vede in compagnia solo di Spagna (–0,6%), Portogallo (–2,5%), Grecia (–3,6%) e Cipro (–5,2%), a fronte di una media UE che registra, per il periodo in esame, un aumento medio del 10%. Situazione ben diversa per i “big” dell’UE: la Germania, che ha registrato un aumento del PIL pro capite nello stesso periodo del 15,7%, il Regno Unito del 9,6%, la Francia del 4,3%.

Nel periodo 2001-13 nel nostro paese si è registrata una massiccia erosione della base produttiva: la flessione della produzione industriale, in media del –5% annuo tra il 2007 e il 2013 (contrazione che non ha riscontro in nessun altro grande paese industriale), è costata al comparto manifatturiero italiano la perdita di diverse posizioni nella graduatoria mondiale. L’Italia è scesa all’ottavo posto nella classifica dei principali paesi manifatturieri: l’ultimo aggiornamento del Centro studi di Confindustria conferma in cima Cina, Stati Uniti e Giappone, seguiti da Germania, Corea del Sud e India, con il Brasile che nel 2013 supera l’Italia conquistando il settimo posto. La nostra permanenza nel club dei principali paesi industrializzati, il G8, risulta sempre più a rischio, passati, come siamo, dal quinto all’ottavo posto negli ultimi cinque anni. Al di là della retorica con cui da anni si grida al “declino industriale” del paese, è fuor di dubbio che la lunga crisi ha indebolito fortemente la capacità manifatturiera italiana: mentre a livel lo globale, dal 2000 al 2013, la produzione industriale è cresciuta del 36,1%, per l’Italia c’è stato addirittura un tracollo del 25,5%.1

Il contesto europeo ha sicuramente influito, visto che l’Italia non è l’unico paese del Vecchio continente a trovarsi nel mezzo di una gravissima crisi industriale che ha risparmiato ben pochi paesi, tra i quali la Germania (nonostante anch’essa nel secondo trimestre di quest’anno cominci a manifestare segni di frenata della propria capacità produttiva). Insomma, mentre molte economie, a cominciare da quella statunitense, riprendono a crescere, l’Europa fa grande fatica, anche a causa di politiche di bilancio eccessivamente rigide e restrittive, del credit crunch che ha tolto ossigeno ai consumi delle famiglie e alla dinamicità delle imprese, di una valuta troppo forte che ha finito per rallentare le esportazioni. Una debolezza della domanda interna europea che ha contribuito a limitare gli scambi intracomunitari, mentre, d’altro canto, l’euro ancora forte, le svalutazioni delle monete di molti paesi emergenti e le crescenti turbolenze geopolitiche hanno frenato anche le stesse vendite extra-UE. In tale contesto di diffusa sofferenza è altrettanto indubbio, però, come abbiamo già visto, che l’Italia tra le grandi economie industriali è quella più in difficoltà a causa di patologie tutte interne, ormai croniche, che l’hanno profondamente indebolita e resa sempre meno competitiva: il crollo della domanda interna, l’alto costo del lavoro privo di legami con la produttività, la contrazione del credito, il calo dei redditi delle famiglie. Eppure, nel nostro tessuto industriale non mancano segmenti che manifestano una notevole capacità competitiva, grazie alle numerose imprese che sono riuscite ad adattarsi e a innovare. Un processo virtuoso che ha interessato in particolare le piccole e medie imprese manifatturiere italiane, consentendo loro di conquistare spazi di mercato in settori altamente innovativi e tecnologici quali l’aerospazio, la meccatronica, le biotecnologie, che si sono aggiunti ai settori tradizionali quali l’agroalimentare, la moda, la meccanica. Da tali settori, vocati fortemente all’export, viene la conferma che il successo di una rinnovata politica industriale, in Italia come in Europa, sta nella capacità che si avrà di integrare i tradizionali punti di forza con una robusta spinta all’innovazione tecnologica, oltre che nel produrre con sempre minore intensità energetica: fattori fondamentali per accrescere il valore aggiunto e consolidare una specializzazione produttiva sempre più market-oriented.

Le rilevazioni periodiche dell’ultimo anno del Centro studi di Confindustria e della stessa Banca d’Italia confermano la tendenza che vede crescere il numero di piccole e medie imprese italiane che si mostrano capaci di adattarsi a una fase di così grande trasformazione, specie quelle che più strutturalmente innovano ed esportano. Va considerato, tuttavia, che la crisi ha cambiato le strutture produttive e i modelli industriali in modo così profondo che qualsiasi politica di rilancio del manifatturiero italiano non può che partire dalla consapevolezza che la perdita di capacità produttiva non potrà mai essere compensata puntando su beni e servizi uguali a quelli che esistevano prima della crisi. In sostanza, nessuno spazio vi può essere per politiche industriali fondate unicamente sulla difesa o sul recupero di posizioni in settori in cui l’industria italiana ha perso ogni vantaggio competitivo. Anche per queste ragioni vi è sempre più necessità di una moderna politica industriale. Un tema su cui negli ultimi anni, in Italia, non è certo mancato il dibattito: una sorta di collettivo interrogarsi di volta in volta sul declino industriale del paese, sul piccolo che è bello e che resiste o sui limiti di un modello industriale ormai superato. Ciò che è mancato e tuttora manca è, invece, proprio una vera, solida, efficace, moderna politica industriale. Troppi aggettivi? Forse utili per differenziare ciò di cui l’Italia e il suo sistema industriale hanno effettivamente bisogno da ciò che finora è stato.

Una definizione utile, prima ancora che ambiziosa, di politica industriale dovrebbe riuscire a fare a meno dei continui, per quanto socialmente indispensabili, tavoli di crisi, costruendo un quadro di riferimento di medio periodo verso cui orientare gli sforzi del paese e delle sue articolazioni istituzionali e sociali: una visione strategica finalizzata al raggiungimento di specifici obiettivi di medio-lungo termine definiti ex ante (e, quindi, soggetti a valutazioni successive).

In Italia, bisogna riconoscerlo con onestà, negli ultimi anni ci sono stati tanti singoli pezzi, ma non c’è stato il quadro d’insieme di una organica e moderna politica industriale. Fa specie ricordarlo, sono trascorsi infatti quasi dieci anni (era il 2006), ma l’ultimo tentativo di definire una politica industriale nazionale è stato il programma “Industria 2015”, in cui le strategie per lo sviluppo e la competitività del sistema produttivo italiano del futuro venivano fondate su un concetto di industria esteso alle nuove filiere produttive che potessero integrare manifattura, servizi avanzati e nuove tecnologie e su un’analisi degli scenari economico-pro duttivi futuri che attendevano il nostro paese in una prospettiva di medio- lungo periodo, appunto il 2015.

Di quella intuizione, troppo presto accantonata, sono del tutto attuali gli assi fondamentali, che possono rappresentare ancora oggi l’ispirazione di una moderna politica industriale, a cominciare dall’individuare nelle reti di impresa, nella finanza innovativa e nei progetti di innovazione industriale gli strumenti per promuovere una rafforzata competitività del sistema industriale italiano nell’ambito di una economia mondiale sempre più globalizzata. Una strategia fortemente basata sul cambiamento e sull’innovazione, sulla capacità di leggere l’evoluzione degli scenari competitivi e di orientarne conseguentemente le scelte di politica economica. Altrettanto fondamentale risulta, in tale impostazione, la capacità di mobilitazione unitaria e integrata intorno a tali obiettivi delle amministrazioni centrali e locali, del mondo imprenditoriale, delle università, degli enti di ricerca e del sistema finanziario.

Su tali direttrici di una rinnovata politica industriale si dovrà innestare un altro obiettivo da condividere anche in Europa: la necessità di ancorare lo sviluppo manifatturiero a specifici ambiti territoriali all’interno dei singoli paesi, in un’ottica di forte specializzazione produttiva. Una esperienza positiva che è già sfociata nella costituzione di numerosi distretti e cluster produttivi e tecnologici in molti paesi europei e che ha cominciato a fare i primi passi, negli ultimi due-tre anni, anche nel nostro paese. Bene ha fatto la Commissione europea lo scorso 22 gennaio, per quanto probabilmente in ritardo rispetto a ciò che di profondo è avvenuto negli ultimi cinque anni, nel dare prova di attenzione all’economia reale con la Comunicazione al Parlamento europeo “Per una rinascita industriale europea”, diffusa con l’espressione sintetica di “Industrial Compact”. Un documento importante nel quale risalta l’obiettivo di rivitalizzare l’economia dell’UE puntando a innalzare il contributo dell’industria al PIL comunitario portandolo al 20% entro il 2020. Questo documento, con la consapevolezza sempre più diffusa che il rilancio dell’economia reale è un problema per l’Europa intera e non solo per alcuni paesi, ha dato avvio a un confronto sempre più ampio sulla necessità di un nuovo Rinascimento industriale.

Una prospettiva importante e ambiziosa tanto negli obiettivi quanto nel significato: rimettere al centro delle politiche comunitarie l’economia reale. Una prospettiva che dovrà essere perseguita in un quadro di risorse di finanza pubblica scarse (molto scarse nel caso di un paese come l’Italia), con la consapevolezza, quindi, che una nuova politica industriale europea dovrà essere fortemente realistica, con interventi programmati che dovranno tener conto di tali vincoli stringenti e non prevedere spese impossibili da sostenere.

Tocca all’Italia fare dell’Industrial Compact europeo il tema centrale della propria agenda di guida dell’Unione in questo semestre, favorendone una rapida e concreta attuazione. Partendo, innanzitutto, dalla piena comprensione e identificazione di alcuni fattori critici che hanno attraversato gran parte dell’economia europea: la debolezza della domanda interna (frutto anche delle politiche restrittive di bilancio); la presenza di un business environment sfavorevole; livelli di investimenti e di innovazione inferiori rispetto a quanto si realizza in altri continenti. Per passare, poi, alla piena condivisione degli obiettivi e delle azioni definiti come essenziali: la riduzione dei costi dell’energia e delle materie prime; le potenzialità di un’amministrazione “amichevole”; ulteriori progressi nel processo di unificazione del mercato europeo; la liberalizzazione dei mercati; l’internazionalizzazione delle imprese; l’impegno nella formazione e nell’arricchimento del capitale umano; l’accesso al credito; la corretta utilizzazione dei fondi europei. Obiettivi e azioni ancora più urgenti per il nostro paese alle prese con il processo di indebolimento della propria struttura produttiva che sopra abbiamo richiamato. E, infine, declinare la sfida dell’innovazione e del rilancio degli investimenti, individuando aree di intervento prioritarie, da sviluppare sia su scala nazionale che europea e su cui far convergere circa 180 miliardi di euro disponibili fino al 2020, provenienti dal programma Horizon 2020 e dai fondi strutturali. Dalla stessa Commissione sono venute indicazioni nette sulle priorità da individuare:2 processi avanzati di fabbricazione (advanced manufacturing), con particolare riguardo all’integrazione della tecnologia digitale nel processo manifatturiero; tecnologie abilitanti fondamentali (KETs), nei campi ad esempio delle batterie, dei materiali intelligenti e dei bioprocessi industriali; bioprodotti, per garantire l’accesso a materie prime ecosostenibili e a prezzi di mercato; mezzi di trasporto su gomma e via mare ecologici, promuovendo così una mobilità sostenibile; edilizia sostenibile, anche in relazione al riciclaggio e alla gestione dei residui delle costruzioni; reti intelligenti e infrastrutture digitali. Ambiti industriali ad altissima densità di domanda di innovazione e di ricerca, nonché di mobilitazione di capitale umano qualificato, e con una rilevante interconnessione con la necessità di costruire modelli non solo industriali ma di infrastrutturazione sociale moderni e sempre più avanzati: settori su cui l’Italia può svolgere una funzione di leadership anche nell’ambito europeo.

Appaiono incoraggianti le prime dichiarazioni del nuovo presidente della Commissione europea, il lussemburghese Jean-Claude Juncker: «Serve la crescita, non finanziata da debiti che sono solo un fuoco di paglia. Abbiamo bisogno di investimenti, di un pacchetto di investimenti e un programma con un obiettivo: mettere le persone al centro della società. (…) Entro il febbraio 2015 vorrei che fosse pronto questo programma. E che nei prossimi tre anni siano dedicati 300 miliardi di euro per questo programma. Da finanziare con i fondi strutturali a disposizione e misure mirate. Investimenti coordinati nella banda larga, reti energetiche, infrastrutture e trasporti. Investimenti nel settore industriale, ricerca e sviluppo. Ed energie rinnovabili, che sono la premessa per l’Europa del domani, un luogo che sappia svilupparsi in modo sostenibile anche in riferimento agli altri attori globali».

Negli ultimi anni l’Unione europea e gran parte dei paesi membri, compreso il nostro, hanno affrontato i mercati in subbuglio concentrati soprattutto sulla stabilità finanziaria e sulla riduzione dei deficit e del debito. Tali pur decisivi obiettivi, in parte raggiunti o in via di raggiungimento, non hanno contemplato la necessità di gettare le basi di una solida ripresa economica e di un rilancio industriale duraturo. Anzi, abbiamo conosciuto le conseguenze sociali gravissime della recessione. Con la riduzione delle tensioni finanziarie e il ritorno della fiducia, è l’ora non più rinviabile che l’Europa, specie in questo semestre di guida italiana, torni a prestare totale attenzione all’economia reale e alla sua base industriale, da modernizzare e da proiettare nel futuro.

 


 

[1] Centro studi di Confindustria, In Italia la manifattura si restringe. Nei paesi avanzati le politiche industriali puntano sul territorio, Scenari industriali n. 5, giugno 2014.

[2] Centro studi di Confindustria, op. cit.

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