L’Italia e i suoi giovani

Di Edoardo Nesi Lunedì 06 Dicembre 2010 12:27 Stampa

Edoardo Nesi, autore del romanzo “Storia della mia gente”, edito da Bompiani, ha vinto il Premio Strega 2011. In questa occasione pubblichiamo il suo racconto “L’Italia e i suoi giovani” apparso su Italianieuropei 5/2010.

A occhio, il rapido avvicinarsi dell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia avvierà ben presto a portare con sé, insieme alle celebrazioni, un carico assolutamente indesiderato e indesiderabile di polemica, pompa e retorica che arriverà a deviare l’attenzione e ad annoiare tutti molto prima che le italiane e gli italiani possano apprezzare l’importanza e il peso di questa straordinaria ricorrenza.

Sì, perché, molto spesso, agli attacchi volgari e insipienti che la Lega porta da anni all’idea stessa d’Unità d’Italia e che certo non mancherà di portare in questi prossimi mesi, alle irritanti proclamazioni di giganteschi Stati-fantasma, alle comiche ostensioni dell’acqua del Po vengono date risposte impettite e impermalite che sembrano scattare da una facile indignazione sulla quale si fa presto a innestare la semplice, acritica, indolore santificazione dell’idea stessa di Unità d’Italia, senza mai avere il coraggio di affrontare la questione fondamentale che riguarda l’interrogativo doloroso e necessario: davvero oggi si può dire che l’Italia è una, che l’Italia è unita?

Credo che il modo migliore per celebrare questo anniversario e tentare di dare una risposta a questa domanda sia porre al centro del dibattito uno dei problemi fondamentali d’Italia, e cioè lo stato in cui si trova oggi il nostro Sud.

Mentre si obietta all’idea che l’Italia, pur con la sua storia secolare di perenne divisione e frazionamento del territorio, di strenui campanilismi, di orgogli cittadini e persino infracittadini, possa mai avere davvero un vantaggio o un interesse a diventare oggi uno Stato federale allentando così i legami tra le Regioni, le città e i cittadini proprio nel momento in cui ogni confine nel mondo globalizzato sembra perdere importanza, diventa necessario anche affermare che non si può sostenere l’idea dell’Unità semplicemente invocando la Storia, attaccandosi alla sacralità della Costituzione e proclamando la nostra fede nel Risorgimento e nei suoi lontani, intrepidi eroi combattenti.

Credo si debba e si possa fare e dire di più.

Non si può dire che l’Italia è una e, al tempo stesso, mantenere il Sud nello stato d’abbandono in cui si trova. Significa commettere un errore terribile, significa non vedere – e dunque perpetuare – la crudele ingiustizia dell’infelice specificità del Sud e la sua conseguente, dolorosa diversità dal resto d’Italia; il suo essere completamente abbandonato nelle mani della criminalità organizzata, che spadroneggia apparentemente inarrestabile; il suo mostrare sempre e solo la faccia arida e cruda e vecchia dell’idea italiana di sviluppo economico nel Meridione, con le sue fabbriche spesso enormi erette in mezzo al nulla, inutili cattedrali che finiscono per produrre beni spesso già obsoleti, popolate di persone assunte a tempo determinato in seguito a scelte politiche spesso cieche, spesso interessate, sempre poco intelligenti.

Dunque, festeggiamo pure il nostro anniversario più caro, ma con la riserva scolpita a forza nelle nostre menti di dover metter mano a medicare la ferita aperta di questa disuguaglianza madornale e di creare davvero ogni possibile condizione per arrivare a una Unità d’Italia che esista anche nei fatti e non solo nelle dichiarazioni indignate in risposta alle rozze provocazioni della Lega. Sarà il modo migliore di disinnescare quella bomba di veleno che è la loro propaganda.

C’è però un’altra unità mancata, quella tra le generazioni di questo paese.

È ormai difficile non accorgersi dell’impossibilità di pensare a un’Italia unita senza comprendere il presente e, soprattutto, immaginare il futuro dei suoi giovani, oggi più che mai smarriti e inermi di fronte a un sistema economico incattivito, che sembra mutare di continuo e sempre verso il peggio; che promette loro solo impieghi a tempo determinato durante i quali non imparano mai davvero un mestiere; che non soddisfa – non può soddisfare, vista la legge – la loro necessità di formazione; che non si incrocia a dovere con l’università e anzi la sorpassa e la rende sempre meno rilevante; che continua a percorrere e suggerire modelli industriali in evidente difficoltà.

Un sistema economico che sembra fatto apposta, insomma, per cercare di garantire all’infinito chi il lavoro ce l’ha già – e molto spesso appartiene alla generazione dei padri e delle madri dei nostri giovani – invece d’essere capace di rivolgersi a loro, e di riuscire a ricrearsi e rigenerarsi con nuovi, sacrosanti, necessari posti di lavoro creati da nuove, sacrosante, necessarie imprese nate – come sempre accade e deve accadere in un sistema economico sano – dalle idee di chi esce dall’università o dalle scuole tecniche.

Oggi più che mai la buona politica deve occuparsi soprattutto d’economia, e cercare di comprenderla osservandola di nuovo, con gli occhi freschi e la mente sgombra dall’eco delle entusiastiche, bambinesche teorie con cui il liberismo economico ci aveva presentato l’apertura mondiale degli scambi commerciali; quelle stesse teorie che hanno finito per innervare ogni decisione dell’Europa e scaricarsi poi distruttive come temporali sulla nostra economia dinamica ma fragile, in gran parte manifatturiera, in gran parte fatta da piccole imprese.

Più invecchio e più diffido della sacralità delle idee e dell’unanimità che spesso accompagna i giudizi a loro sostegno forniti dai cosiddetti esperti; della risibile storiella che il mondo abbia a essere interpretato, compreso, aiutato, migliorato con la messa in opera d’un concetto economico solo, senza tenere in nessun conto le modalità con cui questo concetto si trasforma in leggi e regolamenti uguali per tutti e sprezzanti delle differenze che centinaia di anni di storie e culture e religioni e tradizioni diverse hanno tracciato nei popoli e tra i popoli.

Sì, perché con l’invasione dei mercati europei da parte dei prodotti cinesi e indiani si sono spietatamente rivelate le grandissime differenze esistenti tra le economie dei singoli Stati e persino all’interno dei sistemi industriali di ogni singola nazione europea. Quella tanto favoleggiata unione di diversi che doveva essere motivo di ricchezza è diventata invece motivo di diatribe infinite e inconcludenti su quale sia la corretta posizione che l’Europa deve assumere quando due o più dei suoi Stati hanno interessi opposti su un tema economico fondamentale. Questo problema preesistente, questo automatico stato di crisi continuo in cui si è ritrovata l’industria manifatturiera nel nostro paese dal 2001 è poi stato ingigantito dalla potenza e dalla durata della crisi finanziaria che ha squassato le economie mondiali fino a poco tempo fa.

Tra tutti i paesi investiti dalla globalizzazione mi pare di poter dire che il nostro sia certamente uno dei più svantaggiati, e abbia iniziato da almeno dieci anni una vertiginosa corsa verso il basso che avvia a ricordare quella degli slittini delle competizioni olimpiche, con tutti noi italiani nella parte del pilota terrorizzato, che non ha gli strumenti per guidare efficacemente la corsa, e che non può nemmeno frenare finché scende giù a folle velocità crescente per i canyon di ghiaccio della pista.

Mi pare che, però, a differenza dei piloti di slittino, veri e propri eroi odierni che vivono in quel modo la sfida eterna dell’uomo alla paura, il popolo italiano non abbia mai chiesto né scelto d’essere lanciato in questa folle corsa a velocità sconsiderata lungo una discesa che pare infinita. Mi pare di non essere mai stato consultato, ad esempio, sull’adesione incondizionata a quelle idee di scuola liberista che per anni sono state indiscusse dominatrici del dibattito politico ed economico della fine del millennio, che sono diventate politica europea, e che all’Italia e al suo sistema economico non hanno portato che sconquassi. Mi pare che nessuno abbia mai spiegato alle decine di migliaia di lavoratori che negli ultimi anni sono stati messi in mobilità e in Cassa integrazione e licenziati perché le aziende per le quali lavoravano non sono riuscite a reggere – com’era facilmente prevedibile – l’urto della globalizzazione, che per loro sarebbe andata a finire così.

Sembrava, a sentir gli economisti liberisti anglosassoni, subito adottati a divinità dalla gran parte dei nostri economisti, che con la globalizzazione il paese dell’ambrosia stesse per realizzarsi sulla terra da un momento all’altro. Avremmo vissuto in un mondo perfetto in cui i cinesi e gli indiani producevano ciò che noi non volevamo più produrre e ce lo offrivano a prezzi bassissimi, mentre noi vendevamo a loro il lusso del made in Italy, e così tutti ci avremmo guadagnato e avremmo vissuto felici e contenti.

Io vengo da una famiglia di piccoli imprenditori tessili, da una città in cui quarant’anni di crescita tumultuosa avevano portato un benessere diffuso capillarmente e quasi tutto garantito dal tessile, che da noi a Prato si articolava in migliaia di microaziende che finivano per lavorare sia per i cappottai tedeschi sia per i più famosi stilisti di tutto il mondo, nelle quali lavoravano fianco a fianco piccoli e piccolissimi imprenditori e i loro dipendenti, a formare un gruppo molto più saldo e compatto di quanto sia mai stato raccontato dai nostri scrittori e giornalisti: era tutta gente accomunata da una capacità specifica di lavoro che sconfinava nella sapienza rinascimentale delle botteghe fiorentine, e si aggiornava continuamente perché obbligata a cambiare quasi ogni giorno, a rigenerarsi ogni stagione per via della perpetua, sublime mutevolezza della moda.

Quante storie non raccontate! Quanti tessuti che hanno decretato la genialità degli stilisti di tutto il mondo sono nati dall’intuizione d’un operaio pratese o del suo titolare!
In teoria, con la globalizzazione avremmo dovuto fare faville.
Invece no, oggi il made in Italy lo producono i cinesi che stanno in Cina, mentre i cinesi che stanno a Prato producono illegalmente cenci che poi vendono nei mercati usando tessuti importati dalla Cina che però possono marchiare made in Italy.

A Prato, dal 2001, abbiamo perso il 50% del fatturato del sistema e, soprattutto, il 50% degli addetti. Nei capannoni lasciati sfitti dalle microaziende pratesi chiuse o fallite s’è insediata una comunità cinese del tutto sproporzionata rispetto alle dimensioni della città. La Lega Nord è sbarcata nella nostra città raccontando e raccogliendo i disagi della popolazione e, alle ultime elezioni amministrative, il centrodestra ha vinto il Comune.

Cito queste informazioni, probabilmente già note visto il grande rilievo che la stampa ha dato alla mia città in quest’ultimo anno, perché ritengo necessaria una presa di coscienza forte dell’errore fatto dal centrosinistra nell’abbraccio acritico alla globalizzazione, e la necessità che si attui, però, e subito, una forte svolta concettuale nell’interesse delle migliaia di lavoratori della piccola e media industria italiana che hanno perso il lavoro o stanno per perderlo, e che se prima votavano per il centrosinistra, ora sono passati a votare per la Lega, dalla quale si sentono, incredibilmente ma forse comprensibilmente, più rappresentati.

Mi pare che mentre l’Italia si trova davanti a uno snodo fondamentale del suo futuro e non viene governata se non a forza di slogan sui quali discutere all’infinito in televisione; mentre diventa un’opzione economicamente molto vantaggiosa delocalizzare la Fiat dall’altra parte dell’Adriatico e non certo in Bangladesh; mentre tra i nostri giovani si è diffusa una sfiducia strisciante e contagiosa verso la possibilità di trovare un lavoro serio e sano in un’azienda che abbia possibilità di crescere e prosperare, diventi necessario avviare a dire che, molto semplicemente, noi non siamo d’accordo.

In un’Italia che teme diffusamente di dover perdere altro fatturato e altri posti di lavoro, che deve continuamente ascoltare quell’orrenda statistica che conta a più del 30% la disoccupazione giovanile d’Italia, con punte del 40% al Sud, che nega la crisi e ogni politica di sviluppo per chiudersi in un’ottica meramente ragionieristica che esclude lo sviluppo, diventa necessario per il centrosinistra sciogliersi da quell’abbraccio pernicioso e ormai indifendibile e acritico ed entusiasta della globalizzazione che fu fatto negli anni Novanta. Bisogna dimenticarsi tutte quelle facezie dette sui bamboccioni e sul fatto che le tasse siano bellissime, e prendere atto che il nostro sistema industriale è in grande maggioranza guidato da volenterosi imprenditori che spesso si trovano a occupare i posti di comando delle loro aziende solo per discendenza diretta dai fondatori. Bisogna dire, mentre si difendono i posti di lavoro delle grandi aziende in bilico, che è obsoleto e ormai pericoloso continuare a insistere su quel modello industriale antico che prevede la produzione in Italia di manufatti che possono essere prodotti uguali a costo molto minore nei paesi in via di sviluppo, e rivolgersi invece alla creazione di nuove aziende che nascano dal basso, dai nostri ragazzi tralasciati e lasciati in balia d’un mercato cieco e disinteressato, da quella generazione che oggi si rischia di smarrire tra contratti a tempo e impossibilità d’ottenere credito e che invece potrebbe spingersi avanti a produrre prodotti nuovi frutto dell’invenzione e dell’ingegno, irreplicabili a costo più basso altrove, sposando le infinite aperture che pure la globalizzazione pone a chi ne sa capire le regole e le opportunità, e cioè innervando di internet – e dunque di totale accettazione di un mondo improvvisamente ingigantitosi – qualsiasi attività economica, persino e anzi soprattutto l’artigianato, oggi e sempre colonna portante dell’economia italiana.
Vanno uniti i futuri delle italiane e degli italiani più giovani con i futuri delle loro madri e dei loro padri.
È questa l’Unità più importante di tutte.