I nove di Little Rock e la questione razziale negli Stati Uniti

Di Mario Del Pero Giovedì 07 Settembre 2017 11:53 Stampa

Volgendo lo sguardo indietro si può vedere quanto il percorso di integrazione razziale negli Stati Uniti sia stato lungo, contorto e faticoso. Di questo percorso – che a giudicare dalle reazioni all’elezione di Obama e da alcune delle spinte che hanno portato Trump alla presidenza è lontano dal compiersi – è una tappa importante l’episodio che nel 1957 ha riguardato la battaglia di nove studenti afroamericani di Little Rock per vedere riconosciuto il loro diritto all’istruzione su un piano di parità con i coetanei bianchi. Cosa ha rappresentato questa vicenda per la storia delle forze progressiste americane e non solo?

Il 4 settembre 1957 nove studenti afroamericani cercarono di entra­re alla Central High School di Little Rock, in Arkansas, per poter prendere parte al primo giorno di lezioni del nuovo anno scolastico. Regolarmente iscritti, si trovarono di fronte la guardia nazionale del­lo Stato che su ordine del governatore dell’Arkansas – il democrati­co Orval Faubus – impedì loro l’ingresso. L’iniziativa di Faubus fu condannata dal consiglio scolastico della città, che aveva definito un piano per una graduale desegregazione delle sue strutture scolastiche in accordo con la storica decisione presa nel maggio 1954 dalla Corte Suprema federale nel caso Brown vs. Board of Education, quando fu rigettata la logica del “separati, ma eguali” (separate but equal) che aveva per più di mezzo secolo giustificato il sistema vigente nel Sud del paese. «Strutture educative separate sono intrinsecamente inegua­li» proclamò allora la Corte in un verdetto unanime seguito, alcuni mesi più tardi, da un’altra decisione (la cosiddetta “Brown II”) che invitava gli Stati a procedere con la “massima velocità possibile” (with all deliberate speed) sulla strada della desegregazione delle loro scuole. Le rimostranze del consiglio scolastico s’intrecciarono con le pole­miche politiche, le pressioni del presidente Eisenhower e dello stesso sindaco di Little Rock su Faubus e l’azione delle corti, che ingiunsero al governatore di rispettare i dettami delle due Brown. Il 23 settem­bre, dopo che Faubus aveva finalmente rimosso la guardia federale, i Nove cercarono una seconda volta di entrare nella scuola, trovando però una folla di più di mille persone pronte a usare la forza per impedirglielo e contro le quali poco poté l’esigua polizia municipale. Fu allora che Eisenhower decise d’intervenire direttamente, ponendo sotto controllo federale la guardia nazionale dell’Arkansas e inviando l’esercito per garantire il diritto dei Nove di seguire le lezioni. Protet­ti dai soldati, il 25 settembre gli studenti entrarono finalmente alla Central High School. Alcune immagini di quella giornata fecero il giro del mondo. Su tutte, per la sua pregnanza e forza simbolica, la fotografia che immortala lo sguardo gelido e fiero di una dei Nove, la studentessa Elizabeth Eckford, che cammina verso la scuola tra le urla sguaiate e aggressive di numerosi studenti bianchi (incluse quelle della quindicenne Hazel Bryan, che in seguito si sarebbe distinta per il suo attivismo pacifista divenendo amica della stessa Eckford).

I Nove riuscirono tra mille fatiche, e frequenti incidenti con alcuni studenti segregazionisti, a completare l’anno scolastico. Nel maggio successivo uno di loro, Ernest Green, ottenne il diploma superiore: il primo nero nella storia della Central High School. Ma la vicen­da apriva un processo più che sigillarlo. L’autunno seguente tutte le scuole della città furono chiuse per evitare l’integrazione razziale imposta dalle sentenze della Corte Suprema. Una decisione, questa, voluta da Faubus, ormai impegnato in un rigido braccio di ferro col potere federale, e approvata a larga maggioranza in un referendum tra i cittadini di Little Rock. Le scuole riaprirono solo nel settembre 1959, nonostante le resistenze dell’ampio fronte segregazionista, e nel contesto di una mobilitazione per i diritti civili che aveva acqui­sito ormai una forza e una dimensione nazionali.

Come si spiegano gli eventi di Little Rock? Quale fu la loro im­portanza nella lunga campagna per porre termine alla segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti? Quale il loro retaggio nella storia statunitense?

Varie risposte possono essere offerte in una vicenda in cui il micro e il macro – la dimensione locale e quella nazionale se non globale – s’intrecciarono e sovrapposero spesso in modo inestricabile. Little Rock – con i suoi simboli, le sue immagini e le sue icone – fu una delle tante tappe di un percorso che tra violenze, resistenze, mobili­tazione collettiva e coraggiosi atti individuali avrebbe poi portato alle cruciali leggi del 1964-65 – il Civil Rights Act e il Voting Rights Act – che durante la presidenza di Lyndon Johnson posero termine, de iure, alla segregazione razziale negli Stati Uniti. Un per­corso, questo, cui contribuirono diversi attori e dinamiche.

Centrale fu ovviamente il ruolo del potere giudi­ziario e della Corte Suprema in particolare. Che surrogò l’inazione del mondo politico e, con la sentenza Brown vs. Board of Education, provocò una forte accelerazione di una svolta che ancora tardava a venire. E che negli anni successivi – tra mille ostacoli e opposizioni – irrobustì la Brown con altre decisioni che confermavano l’irrever­sibilità del processo in corso (nel settembre del 1958, ad esempio, la Corte ribadì che Little Rock dovesse continuare nei tempi previsti il programma originario di desegregazione, dopo che una sentenza di una corte distrettuale dell’Arkansas aveva previ­sto che esso fosse posposto e ritardato).

Così come centrale fu la reazione del mondo politico e dell’Ammi­nistrazione Eisenhower. Gli storici rimangono divisi, se non addi­rittura polarizzati, nel valutare l’operato del presidente. Chi ne de­nuncia la passività e l’eccessiva timidezza, sottolinea le critiche di Eisenhower alle due sentenze Brown, i suoi tentennamenti nella fase iniziale della crisi e, più in generale, la sua scarsa sensibilità sul tema. Chi, al contrario, enfatizza il ruolo cruciale di Eisenhower, pone l’ac­cento sulla sua ferma reazione alla sfida di Faubus – esemplificata dalla decisione di inviare l’esercito a Little Rock –, contrappone ciò all’inazione in materia di diritti civili del suo successore, John Ken­nedy, e rileva come il presidente agisse in un clima politico difficile, con ampia parte del Sud schierato a difesa della segregazione e un’o­pinione pubblica ancora divisa, come evidenziato da molti sondaggi dell’epoca: secondo Gallup, nel 1957 più dell’80% degli abitanti del Sud giudicava negativamente la Brown vs. Board of Education (una percentuale che scendeva a un non irrilevante 40% su scala nazio­nale); l’anno successivo appena il 4% degli intervistati dichiarava di “approvare” i matrimoni interraziali.

Eisenhower agì peraltro in un contesto dove non fare nulla era sem­pre meno praticabile. Quello del governatore dell’Arkansas costitu­iva un attacco diretto al primato del potere federale su quello stata­le, in una fase storica in cui il primo era grandemente accresciuto. Nessun presidente lo avrebbe potuto tollerare. A maggior ragione con una guerra fredda che si stava estendendo al prossimo teatro postcoloniale africano (l’indipendenza del Ghana nello stesso anno aprì la strada alla successiva ondata che nel solo 1960 – l’“anno dell’Africa” – vide sorgere 17 nuovi Stati africani). È questo – il collegamento tra contesto internazionale e diritti civili – un tema che è stato al centro della riflessione sto­riografica dell’ultimo ventennio. Numerosi studi hanno infatti rilevato l’importanza che la guerra fredda e la competizione ideologica con l’URSS ebbero nello spingere l’Amministrazione e lo stesso Congresso ad agire. Per il paese che, nella retorica dell’epoca, si presentava come leader del “mondo libero”, la persistenza di segregazione e monumentali diseguaglianze razziali era fonte d’imbarazzo cui la propaganda sovietica poteva attingere con grande efficacia. Coltivare le élite postcoloniali africa­ne diveniva compito quasi impossibile, a maggior ragione se queste, recandosi negli Stati Uniti, si trovavano di fronte una realtà come quella dell’America di fine anni Cinquanta (numerosi, ad esempio, furono i casi di diplomatici africani che subirono discriminazioni nella capitale statunitense o nei sobborghi washingtoniani in Virgi­nia, non venendo serviti ai tavoli dei ristoranti o vedendosi rifiutata una camera negli alberghi). Agire sul tema dei diritti civili diven­ne pertanto una questione, finanche una priorità, di politica estera, come evidenziato dalle costanti pressioni esercitate dal Dipartimento di Stato e dal suo ufficio per gli affari africani sia su Eisenhower sia su Kennedy.

Questa iniziativa dall’alto e queste pressioni quasi strutturali non sa­rebbero però bastate – o comunque avrebbero imposto tempi assai più lunghi e dilatati – laddove non fossero state integrate da dinami­che che invece operavano dal basso. Centrale fu, ovviamente, il ruolo di un movimento per i diritti civili variegato e capace di maturare, col tempo, un carattere vieppiù nazionale e interrazziale. I Nove di Little Rock furono selezionati dalla sezione dell’Arkansas della più importante organizzazione afroamericana, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP). Studenti model­lo, dovevano essere l’esempio e l’avanguardia di un processo la cui rapidità e successo dipendevano anche dagli esiti di questo primo passaggio. All’azione della NAACP, spesso criticata per la sua eccessi­va moderazione, si aggiunsero quelle di altre cruciali organizzazioni, a partire dalla Southern Christian Leadership Conference di Martin Luther King, fondata anch’essa nel 1957, e dalla Student Nonviolent Coordinating Committee, sorta nel 1960. Studenti e leader religiosi – scuole e chiese – furono al centro di questa grande stagione di atti­vismo politico. Che accanto a una dimensione istituzionale ne ebbe spesso una personale, fatta di gesti individuali coraggiosi e dal forte valore simbolico. I Nove di Little Rock stanno quindi dentro un Pantheon che include altre figure emblematiche, da Rosa Parks agli universitari dei sit-in nei ristoranti di Greensboro in North Caroli­na nel 1959, dai coraggiosi Freedom Riders del 1961 agli uomini e alle donne maltrattati dalla polizia di Birmingham in Alabama nella primavera del 1963. La vicenda di Little Rock ci ricorda, insomma, quanto fondamentale sia stata un’azione nella quale sono confluite scelte individuali non scontate, pagate in alcuni casi con la stessa vita; come l’azione collettiva si sia nutrita di esse, contribuendo a sua volta a stimolarle e promuoverle.

Resta, infine, il mondo bianco. Più articolato e complesso di come sia spesso rappresentato, come proprio il caso di Little Rock ben eviden­zia. Dal consiglio scolastico alle principali organizzazioni imprendi­toriali della città, forte fu il sostegno a una desegregazione graduale e disciplinata. Agiva la consapevolezza che con le decisioni della Corte Suprema il processo non fosse più reversibile; pesava il timore di pos­sibili conseguenze economiche in un’area, e una cittadina, che cer­cavano disperatamente di attrarre nuovi, vitali investimenti; incideva il timore di una radicalizzazione che avrebbe accelerato il processo in corso, sottraendolo al controllo delle élite bianche. Il contesto era quello di una spaccatura razziale che s’intrecciava con quella di clas­ se, con un mondo bianco impoverito spesso pronto a schierarsi dalla parte di Faubus, che di suo cavalcava strumentalmente la protesta per l’ovvio ritorno elettorale che questa sembrava garantire.

Questi attori, queste dinamiche e, anche, queste costrizioni avrebbe­ro informato, condizionato e in una certa misura costretto il processo che seguì. Un processo fatto d’importanti conquiste, come mille dati ed esempi sono lì a ricordarci, a partire da quel sondaggio sui matri­moni interrazziali ricordato prima e oggi approvati da circa il 90% degli americani. La “linea del colore” – la frattura razziale – che ha segnato e scandito la storia statunitense continua però a costituire una delle faglie che dividono gli Stati Uniti e che contribuiscono ad alimentare l’attuale, intensa polarizzazione politica. Una faglia i cui effetti sono stati paradossalmente acuiti dall’elezione del primo presidente nero, Barack Obama, nel 2008. Un pezzo d’America bianca, minoritario ma non marginale, reagì con veemenza allora, come molti dati elettorali da subito evidenzia­rono. Obama ottenne appena il 10% del voto bianco in Alabama, l’11% in Mississippi e il 14% in Louisiana. Nello stesso, più composito Arkansas, solo il 30% degli elettori bianchi pre­ferì il candidato democratico (con una perdita di sei punti percen­tuali rispetto al risultato di Kerry nel 2004). Una tendenza, questa, consolidatasi negli anni successivi, come evidenziato dal risultato del 2016, quando Trump vinse di ben ventuno punti il voto bianco (58 a 37) e addirittura di quasi quaranta (66 a 29) quello dei bianchi privi di un titolo di studio universitario (che costituiscono più di un terzo dell’elettorato complessivo). Mille altri esempi potrebbero essere utilizzati, dal numero di membri neri dell’attuale Senato (due, Cory Booker del New Jersey e la neoeletta Kamala Harris della Cali­fornia, su cento) a quello dei governatori neri (zero).

Ma forse è più utile tornare a Little Rock per capire cosa sia avve­nuto in questi sessant’anni: quali risultati siano stati ottenuti, che strategie abbia adottato chi si opponeva alle due “Brown” (o voleva quantomeno attutirne gli effetti) e cosa sia conseguito. Questa citta­dina di 200.000 abitanti, la più grande dell’Arkansas, è stata soggetta a trasformazioni urbanistiche – su tutte la crescita, almeno fino a inizio secolo, dell’area suburbana – che non solo ne hanno trasfigura­to il volto, ma hanno riprodotto forme di segregazione residenziale, e quindi, scolastica, accentuate a loro volta dalla proliferazione di scuole private e, soprattutto negli ultimi anni, di Charter schools no profit convenzionate con il pubblico. I dati sugli studenti delle scuole pubbliche del distretto scolastico della municipalità parlano da sé: più del 70% sono neri a fronte di una popolazione afroamericana di poco superiore al 40%. Central High School forse rimane un’ecce­zione: gli ultimi dati parlano, per la scuola, di un 54% di studenti neri e un 34% bianchi. Ma di certo i Nove di Little Rock avrebbero immaginato un altro esito della storia iniziata il 4 settembre 1957.