Smart city e nuova agenda urbana

Di Matteo Lepore Venerdì 02 Settembre 2016 15:21 Stampa

Per decenni abbiamo creduto che i livelli di governo locale non potessero rappresentare un ambito soddisfacente per rispondere alle problematiche del pianeta, cercando soluzioni strutturali attraverso i modelli sovranazionali, le interconnessioni digitali, la combinazione di formule finanziarie. Esiste invece un nesso tra la qualità della vita nelle comunità e le strategie di sviluppo di un sistema territoriale di più o meno vaste dimensioni. È arrivato il tempo di definire una nuova agenda urbana per sistematizzare l’allineamento tra città e paesi, ribaltando il paradigma e indicando in modo definitivo le aree urbane come fattore chiave nel futuro economico e sociale di Stati e continenti. Di questo va tenuto conto anche nel dibattito sulle smart city, dove al venir meno dell’attenzione delle istituzioni si contrappone l’attivismo dei grandi player tecnologici e delle grandi piattaforme digitali private. A quando una visione dove le reti e le tecnologie siano messe effettivamente a servizio esclusivo del bene comune e dei cittadini?

Nelle giornate immediatamente successive al voto della Brexit, i te­legiornali di tutto il mondo riportavano interviste ai sostenitori del “leave” a dir poco illuminanti. Una voce in particolare mi ha colpito. Una donna proveniente dal Nord dell’Inghilterra, a una domanda riguardante il crollo della sterlina rispondeva: «Non abbiamo soldi per comprare da mangiare, non farà differenza per noi se domani la sterlina varrà meno. Sarà un problema per i capi della finanza e per chi vive a Londra, per noi questo voto rappresenta un segnale chiaro: ci siamo stancati». Come si collega questo aneddoto con il grande tema delle smart city? Vorrei offrire una risposta a questa domanda e al contempo generare una serie di dubbi, aprire poi un fronte nuovo nel dibattito che attraversa la materia delle politiche urbane o alme­no favorire uno stimolo alla discussione. A mio parere, infatti, esiste un nesso tra la qualità della vita nelle comunità e le strategie di sviluppo di un sistema territoriale di più o meno vaste dimensioni. Per decenni, ci siamo lasciati trasportare dalla corrente, nella convinzione che i flussi globali fossero inaffer­rabili e che i livelli di governo locale non potessero rappresentare un campo soddisfacente per rispondere alle problematiche del pianeta. Abbiamo ricercato e continuiamo a ricercare soluzioni strutturali at­traverso i modelli sovranazionali, le interconnessioni digitali, la com­binazione di formule finanziarie, tassi, rigorismi di bilancio e libera­lizzazione dei mercati. Purtroppo, ancora poco si è fatto per applicare la centralità del rapporto tra sistemi di sviluppo e aree urbane. Un argomento che sarà al primo punto nell’ordine dei lavori di “Habitat III”, la conferenza promossa dalle Nazioni Unite che si svolgerà a Quito (Ecuador) dal 17 al 20 ottobre prossimi. “Is time to think ur­ban” ha affermato Joan Clos, attuale segretario generale incaricato di guidare la conferenza e indimenticato sindaco di Barcellona dal 1996 al 2006. Secondo Clos è arrivato il tempo di promuovere una visione in grado di indirizzare le dinamiche demografiche ed economiche trasversalmente a tutti i livelli di insediamento umano, le piccole comunità rurali, i villaggi, le città intermedie fino alle metropoli.

Habitat III ha pertanto il compito di definire una “nuova agenda urbana” per sistematizzare l’allineamento tra città e paesi, ribaltando il paradigma e indicando in modo definitivo le aree urbane come fattore chiave nel futuro economico e sociale di Stati e continenti. Nel dibattito istituzionale sulle cosiddette smart city, a mio avvi­so, la consapevolezza di questo quadro è ancora rara o volutamente evitata. Non a caso, la stagione dell’entusiasmo per il tema “smart” si sta esaurendo anche in Italia, mentre player tecnologici e grandi piattaforme digitali private rimangono fortemente interessati a mo­nopolizzare mercati, aggregare grandi quantitativi di dati, acquisire commesse pubbliche e, in alcuni casi, condizionare assetti geopoliti­ci. Da un lato, le istituzioni pubbliche hanno perso il contatto con la comunità, dall’altro i driver tecnologici dello sviluppo basano sulla conquista delle comunità il loro oligopolio. A quando una visione dove le reti e le tecnologie siano messe effettivamente a servizio esclu­sivo del bene comune e dei cittadini?

Dovendo dare una definizione di “intelligenza”, definirei tale l’im­maginazione di un futuro per le nostre comunità fondata sulla so­ stenibilità durevole, la resilienza, la creazione di valore aggiunto e la promozione dei diritti umani. Negli ultimi cinque anni in Italia, se vogliamo essere franchi, quando abbiamo trattato il tema smart city abbiamo girato attorno al problema. Seppure per la prima volta dopo anni si siano registrati prov­vedimenti dedicati all’innovazione sociale nelle città, bandi smart, riordino istituzionale delle provincie e delle città metropolitane, piani per la banda larga, una strategia politica complessi­va definibile come Agenda urbana nazionale è ancora mancante. Oltre la logica della redistribuzione delle risorse dall’alto verso il basso. Intendiamoci, la nascita dei programmi PON Metro e i conseguenti accordi tra sindaci metropolitani e governo, seppure in ritardo sulla tabella di marcia della programmazione euro­pea 2014-20, rappresenta un esempio concreto di dotazione di fondi diretti a tutte le principali comunità urbane italiane. Così come il re­cente bando da 500 milioni di euro messo in campo dalla presidenza del Consiglio indica una direzione di marcia. Non voglio qui colpe­volizzare gli ultimi arrivati, traggo però un mio personale bilancio – sono assessore comunale al secondo mandato – i governi che si sono susseguiti dal 2011 a oggi hanno prodotto vari provvedimenti che si sono infranti contro i seguenti scogli: a) gli italiani vivono all’80% in Comuni piccoli e medi, con una densità della popolazione tra le più alte d’Europa (201,32 abitanti per kmq) e una conformazione geo­grafica e socioeconomica composita e differenziata; b) Roma, Mila­no, Napoli, Bologna, Torino e le altre città metropolitane non hanno le stesse caratteristiche di Dubai, non sono pertanto città nuove né giovani, progettate né progettabili da zero attraverso le più recen­ti tecnologie e pratiche ingegneristiche; c) la struttura istituzionale del nostro paese soffre di schizofrenia e sovrapposizione dei luoghi decisionali, mentre è ritornata una evidente voglia di centralismo statale non accompagnata da una altrettanto forte e unitaria strategia di sviluppo urbano per il paese; d) secondo le stime più generose il peso dell’economia illegale o sommersa sul PIL dell’Italia è stimato tra il 17% e il 21% contro il 13% del dato tedesco, ma i rapporti di forza cambiano se si prendono in considerazione le Regioni del Mez­zogiorno, dove il sommerso incide per il 27% sul PIL e l’economia criminale/illegale per circa l’11%. Se ci riflettiamo, dunque, la dotazione tecnologica e le reti infrastrut­turali rappresentano un elemento necessario ma non sufficiente per definire “intelligente” un’idea di governo territoriale. Al contrario, una visione politica “intelligente” dovrebbe esse­re in grado di fermare o riconvertire, ad esempio, scelte infrastrutturali sbagliate o non più attua­li. Di proporre un nuovo metodo di gestione delle scelte, trasparente e realmente partecipato quando parliamo di opere indispensabili per le generazioni che verranno. Che si tratti di un passante autostradale o ferroviario, di un servi­zio ospedaliero o di un quartiere da riqualificare, nella nostra epoca, l’intelligenza civica non può più essere esclusa dai processi decisionali e gestionali. Per intelligenza civica intendo il combinato disposto di due elementi fondamentali nella mia esperienza di amministratore e osservatore. Penso al valore intrinseco rappresentato dalla comunità locale e dal valore trattenuto nei beni comuni attorno i quali essa vive e si alimenta. Alle istituzio­ni pubbliche spetta il compito di dare forza a questa prospettiva, di indirizzare le scelte di governo e rafforzare le aree proprio come piat­taforme abilitanti per gli individui e le comunità. Una smart grid, una rete dell’illuminazione pubblica intelligente, un piano di teleca­mere multitasking, un piano per il wi-fi gratuito nei parchi pubblici, un’agenda digitale o un’app per i parcheggi prese da sole rappresen­tano probabilmente buone pratiche da realizzare, utili a innalzare il livello di qualità della vita dei cittadini. Ma certe tecnologie, spesso già superate nel tempo che intercorre tra la programmazione e la rea­lizzazione, rischiano di rimanere “investimenti bandiera” o miraggio per le piccole comunità, generando sperequazioni e sprechi, rischia­no di allargare la forbice tra chi può e chi non può. Di più ancora, tali interventi rischiano di rispondere maggiormente a una strategia commerciale finanziata con risorse pubbliche, piuttosto che alle vere esigenze delle comunità. Una spinta alla standardizzazione a scapito dell’autenticità. Programmi di intervento potenzialmente straordi­nari che invece finiscono per attingere alla vita dei cittadini senza restituire loro a sufficienza. Ecco perché servono sindaci consapevoli, ma soprattutto servono istituzioni nazionali ed europee amiche delle città. Intenzionate a mettere la forza delle istituzioni al servizio della popolazione e non, al contrario, la popolazione al servizio di progetti speculativi. In questo passaggio, forse da alcuni ritenuto troppo filo­sofico, si racchiude la differenza attuale tra un’idea di futuro intelli­gente per le aree urbane e altro.

Quando le tecnologie e la finanza fanno volare la politica, essa ri­schia vorticosamente di allontanarsi dai bisogni delle gente comune più di quanto già non sia. Qualcosa ci è sfuggito se la multietnica, ipertecnolgica e globalizzata città di Londra ha votato al 60% per rimanere in Europa, mentre all’esatto opposto si è collocato il re­sto d’Inghilterra, a partire dalle grigie e operose città del Nord, i villaggi e i quartieri più popolari. Nell’epoca recente, nessuna città europea o occidentale, più di Londra, aveva saputo essere decisiva nella struttura politica ed economia del proprio paese. Quella che, fino a ieri, era la capitale finanziaria europea, ha saputo mettere in atto poderose operazioni di rigenerazione urbana, alimentando un mercato immobiliare tra i più speculativi del pianeta. Durante i due mandati di Boris Johnson, il PIL di Londra è arrivato a contare il 25% di tutto il Regno Unito, ma la povertà è cresciuta arrivando a toccare il 27% della popolazione. Un ecosistema urbano attrattivo e ad alta complessità ha nascosto un’immane sperequazione sociale e reddituale all’interno della propria grande comunità locale, tanto quanto verso la comunità nazionale. In questi giorni mi è capitato di riprendere in mano un libro di Jeremy Rifkin intitolato “Il sogno eu­ropeo”, pubblicato in Italia nel 2004. Scriveva l’economista: «mentre lo spirito americano guarda stancamente al passato, nasce un sogno europeo più adatto ad accompagnare l’umanità nella prossima tap­pa del suo percorso (...). Il sogno europeo pone l’accento più sulle relazioni comunitarie che sull’autonomia individuale, sulle diversità culturali più che sull’assimilazione, sulla qualità della vita più che sull’accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale – e ancora –, sui diritti umani uni­versali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulle corporazioni globali più che sull’esercizio unilaterale del potere». Il sogno europeo si è già troppe volte trasformato in un incubo. Anche nel caso delle smart city, fermiamoci e cambiamo direzione prima che sia troppo tardi.