Realtà parallele

Di Remo Bodei Giovedì 13 Luglio 2017 14:37 Stampa

Contro la manipolazione o la falsificazione della realtà, che è esistita e continua a esistere, sono stati elaborati da tempo degli anticorpi, degli strumenti intellettuali – la filosofia, la filologia e la storiografia – in grado di affinare le capacità critiche degli individui e di affiancare l’esperienza e il senso comune. Essi restano, tuttavia, privi di efficacia sul medio periodo, se coinvolgono esclusivamente le élite culturali e non si estendono, attraverso l’educazione dei più, fino a promuovere lo spirito critico. Uno dei motivi per cui le fake news trovano terreno fertile in politica dipende, in quest’ottica, da una delle “promesse non mantenute” della democrazia, ossia dalla scarsa preparazione alla cittadinanza: una missione ardua e infinita, un processo educativo che conosce ricadute, come insegnano non solo la storia del Novecento, con la nascita dei totalitarismi, ma anche eventi contemporanei.

 

Soprattutto dopo l’avvento di Trump alla presidenza degli Stati Uni­ti, le espressioni “post-verità”, “fake news” e “alternative facts” sono diventate – come si usa dire – virali. La loro attualità rischia però di schiacciare l’analisi unicamente su vicende recenti e di far perdere la prospettiva entro cui situare fenomeni maggiormente ramificati e complessi.

Occorre pertanto esaminarli da una distanza maggiore e inserirli in una cornice più ampia, a partire da una serie di domande come queste: esiste ancora un’opinione pubblica, come sfera di dibattito basato su un serio confronto di idee o di posizioni, una opinione pubblica che funga da “cane da guardia” del potere? O non è an­ch’essa diventata una fictio, una costruzione, capillarmente e scien­tificamente organizzata, di una realtà parallela che la trasforma in “clima di opinione” metereologicamente mutevole? Grazie a una ac­corta manipolazione del consenso, i cittadini non sono, a loro volta, spesso orientati e rabboniti da una politica di annunci cui non segue alcuna effettiva attuazione, dato che la politica non è più in grado di

operare scelte rilevanti e deve continuamente ammansire gli elettori, gestirne le frustrazioni e lavorare più sul registro dell’immaginario (utilizzando le leve della paura e della speranza) che non su quello del principio di realtà, visto che i reali decisori sono élite finanziarie ed economiche transnazionali, anonime e prive di responsabilità nei confronti dei cittadini?

È, inoltre, necessario chiedersi se la democrazia come l’abbiamo concepita nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale esista ancora o non si viva già nell’età di un mutante che, di volta in volta, assume il volto del populismo (inteso sia in senso neutro come scollamento tra governanti e governati, sia come “malattia senile della democrazia”), della smobilitazione delle masse, dell’autocrazia elettiva, del conformismo, della degradazione della verità a semplice opinione e dell’inaridimento della facoltà di giudicare. In tale con­dizione, non c’è da meravigliarsi se gli individui diventino meno ra­zionali e vivano uno stato d’animo di scontento misto a rassegnazione. Nei meccanismi di prote­zione e garanzia dei cittadini qualcosa si è rotto: è come se una caduta delle difese immunitarie avesse lasciato maggior spazio di manovra alle potenze della seduzione e dell’inganno, per cui le analisi, i ragionamenti e i progetti si trasformano in storytelling, in “narrazioni” che si sovrappon­gono alla realtà, la mascherano o, addirittura, la sostituiscono. L’opposizione non è più quella tra verità e menzogna, ma tra verità (controllabile logicamente ed empiricamente) e simulacri, tra dati accertabili e affermazioni incontrollabili.

Malgrado alcuni tratti nuovi, la cosidetta “post-

verità” ha radici antiche, che risalgono alle modalità costitutive di ogni forma di potere, che non segue le stesse leggi del discorso lo­gico o etico. Cambiano solo i mezzi tecnici di fabbricazione e diffu­sione delle informazioni, la retorica politica e soprattutto – sulla base dei diversi tempi e regimi – i quozienti di “verità” tollerabili da chi comanda.

Volendo andare indietro nel tempo, grazie a un rapido esercizio di rammemorazione che fa meglio comprendere il presente, si potrebbe risalire alla fase storica in cui la politica passa ufficialmente da classica

“arte di governare gli Stati secondo giustizia e ragione”, alle conce­zioni di Guicciardini e degli esponenti cinquecenteschi e seicenteschi della Ragion di Stato, secondo cui la politica è l’arte di conservare o espandere il potere, indipendentemente dai mezzi utilizzati e dalle decisioni prese in segreto dal sovrano. Si comincia allora ad ammet­tere, teoricamente e pubblicamente, il comportamento sempre prati­cato e ipocritamente nascosto: la ineludibile necessità, accanto al dire il vero, di mentire, fingere, simulare e dissimulare. Tale prerogativa, peraltro, viene concessa non solo a chi comanda, ma anche a chi è costretto a difendersi da leggi o ordini ingiusti, ai quali deve, almeno esteriormente, obbedire per paura di mali maggiori mediante una “simulazione onesta”.

Le machiavelliane “golpi”, grandi e piccole, si moltiplicano nell’età barocca. Al cardinale Richelieu veniva, ad esempio, attribuita la som­ma abilità nel rendere impenetrabile il proprio volto, ma di saper invece leggere in quello degli altri le loro più nascoste intenzioni. Come ebbe a scrivere Baltasar Gracián nell’“Oracolo manuale e arte della prudenza”, «la saggezza pratica consiste nel saper dissimulare; corre rischio di perder tutto chi gioca a carte scoperte. L’indugio del prudente gareggi con l’acume del perspicace: con chi ha occhi di lin­ce per scrutare il pensiero, si usi l’inchiostro di seppia per nascondere il proprio intimo». La lince assurge ora ad allegoria dell’acume e del discernimento, ossia di una conoscenza che penetra le apparenze, riduce le distorsioni e i turbamenti del pensiero provocati dalle pas­sioni, tende a eliminare le ambiguità. La seppia è invece l’emblema degli stratagemmi di camuffamento, di cifratura, di occultamento e di manipolazione delle informazioni che mirano tutti a rendere indistinguibili verità e menzogna, realtà e apparenza.

Dire coraggiosamente la verità al potere, secondo il modello della parrhesia greca, è un rischio, perché il principe machiavelliano vuole che gli uomini credano a quello che lui vuol far credere. E, siccome essi «iudicano più agli occhi che alle mani», «ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti, che abbino la maestà dello Stato che gli difenda». Le menzogne di Stato diventano un tabù e sono puniti quanti ardiscono “toccarle con mano”, controllarle. Che non debba­no indagare i misteri del Sovrano (come pure quelli di Dio) lo sostiene con un’immagine efficace, tratta dall’esperienza quotidiana, il

poeta seicentesco Georg Philipp Harsdörfer: «Proprio come vediamo la lancetta dell’orologio e leggiamo le ore senza avere idea dell’inge­gnoso funzionamento dei suoi complicati ingranaggi, così possiamo osservare le benedizioni e le punizioni di Dio senza conoscere le loro segrete cause. Similmente le azioni dei prìncipi e dei signori stanno di fronte ai nostri occhi, ma i loro intenti e le loro motivazioni ci sono celati».

Dalla politica come arte segreta che ha il suo centro nel gabinetto del principe si passa gradualmente – attraverso il primo liberalismo in­glese, che pone il Parlamento al centro della politica, e l’Illuminismo francese, che dichiara la ragione facoltà capace di rischiarare le menti e di aiutare gli uomini a uscire dallo stato di minorità – alla democrazia come ideale “casa di vetro”, esposta agli sguardi, al controllo e alla critica dell’opinione pubbli­ca, un regime moderno in grado di accettare e sostenere una verità che non viene turbata dalla paura della pena. D’altra parte, anche la crescita della cultura e lo sviluppo della stampa radicano l’abitudine a discutere in pubblico le più impor­tanti questioni dello Stato. È tuttavia ovvio che né il Parlamento proto-liberale, né le successive democrazie parlamentari diventeranno mai quella “casa di vetro” di cui si vanta l’ideologia. Zone di opacità e di segretezza, poteri occulti pubblici e privati, rimangono necessariamente. Si può, tuttavia, so­stenere che ora la menzogna ha cambiato veste, è diventata di massa e si è appunto “democratizzata”, diventando certo meno micidiale, ma senz’altro più insidiosa.

I totalitarismi del Novecento hanno posto l’accento soprattutto sul “credere”, mentre solo dopo viene l’obbligo di “obbedire” e “combat­tere” (in una intervista a Emil Ludwig del 1931 Mussolini dice che “gli italiani credono all’incredibile”).

Rispetto ai totalitarismi la macchina democratica del consenso ha rinunciato alla violenza aperta, al “lione”, ma ha rafforzato sia la volontà di far credere attraverso una manipolazione dell’opinione pubblica, sia attraverso la segretezza nel coprire interessi e atti incon­fessabili. Del resto, i segreti maggiori sono quelli che non appaiono e che non hanno quindi bisogno di essere contestati. Lo prova un

significativo esempio degli anni Settanta: quello dell’inquinamento originato dalle acciaierie di Gary e di East Chicago. Centinaia di persone si erano ammalate di cancro nei dintorni delle fabbriche, ma la U.S. Steel Corporation aveva per decenni comprato il silenzio di medici, amministratori locali e giornalisti, finché l’evidenza non venne a galla.

La menzogna odierna non è più artigianale, come nel passato, ma prodotta industrialmente, in una sorta di catena di montaggio delle opinioni, o, addirittura, post-industriale, in cui la potenza dei me­dia di vecchia e nuova generazione rende reale solo ciò che viene segnalato nell’universo dei media. La colonizzazione dell’intelligen­za, dell’immaginario, della prassi e dell’emotività avviene, inoltre, in larga misura apparentemente all’esterno della sfera politica e non tocca più il tempo del lavoro, bensì quello del tempo libero ed è lar­gamente governata dalla logica del marketing. Si innesca qui una sorta di circolo vizioso: quanti si sono formati attraverso idee, desideri, progetti plasmati da questo genere di cultura governata dal mercato sono più propensi ad avere con la politica un rapporto a distanza, governato da forme di consenso passivo.

Milioni di cittadini sono catturati dalla politica “addomesticata”, nel duplice senso di una poli­tica introdotta nella casa attraverso la televisione o i social media e di una politica spesso adattata allo stile e alle modalità dei comportamenti, del­le aspettative, delle paure e dei litigi domestici e di condominio. Per questo, i protagonisti della lotta politica si cari­cano delle valenze (di simpatia o di antipatia, di “tifo” pro e contro) che circondano gli altri eroi dello schermo, dai conduttori di talk show e di quiz agli attori del cinema e ai personaggi delle telenovelas.

È, per inciso, sbagliato sostenere che la televisione non incida sul formarsi delle idee e delle attitudini politiche dei cittadini. Essa produce, infatti, un consenso “forzato”, non con la violenza, ma con una crescita artificiale e accelerata, come quella con cui i giardinieri e i contadini forzano lo sviluppo di piante e ortaggi in serra. Ora, la serra del consenso attuale è la casa e la televisione (e i social network) la sua energia irradiante, che nell’homo videns immunizza dai concetti

astratti e taglia i ragionamenti più complessi abituando la mente a slogan o a forme di seduzione.

Contro la manipolazione o la falsificazione della realtà sono stati elaborati da tempo degli anticorpi, degli strumenti intellettuali che hanno implicazioni etiche (la filosofia, la filologia e la storiografia, in grado di affinare le capacità critiche degli individui e di affian­care l’esperienza e il senso comune). Essi restano, tuttavia, privi di efficacia sul medio periodo, se coinvolgono esclusivamente le élite culturali e non si estendono, attraverso l’educazione dei più, fino a promuovere lo spirito critico. Uno dei motivi per cui le fake news trovano terreno fertile in politica dipende, in quest’ottica, da una delle “promesse non mantenute” della democrazia, ossia dalla scar­sa preparazione alla cittadinanza: una missione ardua e infinita, un processo educativo che conosce ricadute, come insegnano non solo la storia del Novecento, con la nascita dei totalitarismi, ma anche eventi contemporanei.

Eppure l’uccisione dei fatti è esistita e continua a esistere, ma essi han­no, per fortuna, la testa dura. Con un esempio efficace, lo testimoniò Clemenceau, già presidente della Repubblica francese e duro negoziatore alla conferenza di pace di Versailles. A chi lo interrogava su cosa avrebbero detto gli storici relativamente alle responsabilità nello scoppio della prima guerra mondiale rispose così: «Non lo so, ma so per certo che non diranno che il Belgio ha invaso la Germania».