L’impatto della riforma del lavoro

Di Maria Cecilia Guerra Mercoledì 13 Maggio 2015 15:18 Stampa

La discussione in corso sulla riforma del mercato del lavoro conseguente all’approvazione del Jobs Act si è incentrata soprattutto sulla relazione tra flessibilità e crescita economica. Aggiustare il livello e la composizione della forza lavoro per adattarla alle nuove esigenze del mercato e favorire così la crescita delle imprese può essere senz’altro utile al rilancio dell’economia. Non bisogna però sottovalutare l’aumento dei costi sociali che queste misure possono comportare, nonché le implicazioni sul sistema politico e sulla qualità della democrazia del nostro paese.

L’idea che esista un legame di causa ed effetto fra un elevato grado di protezione del lavoro e un elevato tasso di disoccupazione è stata oggetto di un intenso dibattito accademico almeno a partire dagli anni Ottanta, quando una prioritaria attenzione all’economia dell’offerta ha depotenziato l’enfasi che l’approccio keynesiano attribuisce invece alla relazione inversa fra domanda aggregata e disoccupazione. Questa idea, che pure non ha mai trovato un supporto empirico concludente, è divenuta il refrain delle indicazioni di policy dell’OCSE e del FMI ai governi dell’Europa continentale affinché allentassero i propri schemi di protezione, più rigidi rispetto a quelli degli Stati Uniti e del Regno Unito, per aumentare l’occupazione.

La medesima visione è stata progressivamente adottata anche dalle istituzioni europee (Commissione e BCE), sia pure, come si spiegherà meglio in seguito, in un’ottica di flexicurity, fino a tradursi, in coincidenza degli anni della crisi economica, in uno strumento di condizionamento delle politiche sociali e delle relazioni industriali nei confronti dei paesi che avevano necessità di ottenere un allentamento nei propri vincoli di finanza pubblica. Per quanto riguarda il nostro paese, la necessità di procedere a una «accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti» è stata, ad esempio, esplicitamente “ricordata” nella famosa lettera della BCE al governo Berlusconi nell’agosto del 2011. Coniugata alle politiche di “austerità”, perseguite con la finalità principale di tenere sotto controllo la finanza pubblica, in particolar modo dei paesi con alta esposizione debitoria, questo tipo di politica ha chiuso, fino a un’epoca molto recente (mi riferisco al piano Juncker sugli investimenti, che rappresenta un primo apprezzabile segnale di mutamento di prospettiva), gli spazi a politiche di sostegno alla domanda. Il progetto di Jobs Act della prima ora non aderisce però a questa visione totalmente supply side: nella e-news dell’8 gennaio 2014 con cui lo si lanciava, la programmata revisione delle regole del mercato del lavoro, appena tratteggiata, si affiancava infatti alla previsione di politiche industriali, considerate necessarie per creare nuovi posti di lavoro, in sette settori: cultura, turismo, agricoltura e cibo; made in Italy; ICT; green economy; nuovo welfare; edilizia; manifattura. Le condizioni di finanza pubblica vincolano però notevolmente, e presumibilmente ben al di là delle aspettative del nuovo presidente del Consiglio, il ricorso a politiche espansive. Il Jobs Act approvato dal Parlamento interviene quindi sul solo mercato del lavoro.

L’attuazione di riforme strutturali, e in particolare della riforma del mercato del lavoro nei termini auspicati dalla Commissione e dalla BCE, costituisce però una condizione/opportunità per guadagnare margini di flessibilità nel bilancio pubblico, come è stato di recente confermato e chiarito anche dalla comunicazione della Commissione del 13 gennaio 2015. Per conquistare questi margini, che intende sfruttare al massimo, anche con mosse ardite – si pensi all’annuncio relativo a un possibile utilizzo, già nel 2015, di un “tesoretto” derivante dal miglioramento del disavanzo tendenziale –, e che gli permetteranno di annunciare, nel DEF 2015, prossime politiche di sostegno agli investimenti, Renzi non esita a mostrare la sua determinazione, anche attraverso un atto ritenuto di grande valore simbolico, specialmente nei confronti degli investitori esteri (come già lo era stato per Monti), quale lo smantellamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

È indubbio che nel nostro paese esiste un problema di stagnazione ormai ventennale della produttività, imputabile non solo alla resistenza all’innovazione e all’incapacità dell’apparato produttivo di valorizzare e stimolare le conoscenze e la ricerca, ma anche al livello di corruzione (questa sì in grado di disincentivare gli investimenti dall’estero) e di scarsa capitalizzazione, con conseguente dipendenza dal credito bancario, delle imprese. Aggiustare il livello e la composizione della forza lavoro per adattarla alle mutate condizioni della domanda e della tecnologia e per favorire la crescita dimensionale delle imprese può aiutare ad affrontare questi problemi e favorire quindi la crescita economica, ma non vanno ignorati né i costi per i lavoratori esposti al rischio di perdere la possibilità di sfruttare il bagaglio di conoscenze acquisite e costretti comunque a modificare l’organizzazione della propria vita, né i diversi costi sociali conseguenti alla crescita, quanto meno nel breve periodo, della disoccupazione. Il bilanciamento fra questi diversi obiettivi coinvolge almeno due ordini di problemi.

 

Misure di tutela del lavoratore Occorre che, come suggerito anche dalla Commissione europea, le riforme finalizzate ad aumentare la flessibilità del lavoro si accompagnino a misure di tutela (sicurezza) del lavoratore che dovrebbero rendere possibile al cittadino trovare lavoro a ogni stadio della propria vita: aumentandone l’occupabilità attraverso l’istruzione, la formazione e altre politiche attive del lavoro, fra cui quelle consistenti nel fornirgli adeguata assistenza nella ricerca di un lavoro, e politiche passive, che gli garantiscano adeguato sostegno economico nelle fasi di transizione da un lavoro all’altro. Questo modello è fatto proprio dal Jobs Act. La riforma del lavoro delega infatti il governo sia a rendere universale il sistema degli ammortizzatori sociali, sia a ripensare e rilanciare le politiche attive del lavoro. Si tratta di una sfida assolutamente condivisibile e di grande importanza, che dovrà però misurarsi con alcuni problemi, estremamente rilevanti, dalla cui soluzione dipenderà la credibilità e la validità dell’intero impianto di riforma.

Innanzitutto, il problema delle risorse, particolarmente aggravato dal venire meno, a partire dal prossimo anno, della Cassa in deroga e poi, dal 2018, dell’indennità di mobilità. La nuova indennità di disoccupazione, NASPI, opera un primo apprezzabile allargamento della platea dei beneficiari e ha una durata prevista fino a un massimo di due anni, sia pure con un calo del 3% al mese dell’importo a partire dal quarto mese di fruizione. Questa durata è però garantita solo fino al 2016 e verrà poi ridotta a un massimo di diciotto mesi, se non si troveranno altre forme di copertura. La nuova forma di assicurazione per i collaboratori, Dis-col, è finanziata solo per il 2015, anche in vista di un superamento, che però si prospetta solo parziale, di questa tipologia di lavoro. Il nuovo istituto, ASDI, di tipo assistenziale, che verrà riconosciuto a chi dopo la NASPI ha ancora difficoltà a trovare lavoro e versa in una grave condizione economica, tenuto conto anche del suo contesto familiare, e che trova giustificazione solo nella assenza nel nostro paese di una misura universale di contrasto alla povertà, è finanziato in via sperimentale e per soli 200 milioni per il 2015 e per il 2016. Se le risorse meritoriamente introdotte in legge di stabilità saranno probabilmente sufficienti a finanziare la NASPI per il 2015, non è ancora chiaro su cosa si potrà contare per le politiche attive, e in particolare per i centri per l’impiego per i quali il nostro paese spende cifre mai superiori, negli ultimi anni, allo 0,03% del PIL.

Per le politiche attive manca, nella delega, un disegno preciso di riforma: si ricorrerà a una Agenzia nazionale con una struttura a rete organizzata sul territorio, cosa che richiede che sia prima attuata la riforma costituzionale che rivede le competenze ora riconosciute alle Regioni, accentrandole, o viceversa l’Agenzia nazionale avrà solo una funzione di regia nel processo che continuerà a investire in modo prevalente le Regioni? Con quali risorse, visto che la soppressione di questa funzione in capo alle Province ne ha anche soppresso il finanziamento?

Applicare il modello di mobilità del lavoro implicito nell’approccio flexicurity nel nostro paese, date le caratteristiche del capitale umano, non è agevole: è uno schema che, mentre funziona per le figure professionali, ricercate dalle imprese, funziona molto meno per quelle poco professionalizzate, che rappresentano ancora la maggior parte della forza lavoro. Né arrivano segnali confortanti dai processi di riallocazione intersettoriali, il cui trend non sembra essere stato scalfito dalla crisi e che non si rivelano in grado di sostenere un aumento della produttività. Secondo l’ultimo rapporto di Prometeia, durante la crisi i settori a più alta produttività – ICT, finanza ed energia – hanno beneficiato di questa riallocazione, ma sono settori che contano poco dimensionalmente, mentre il grosso della riallocazione è avvenuto fra i settori più tradizionali (soprattutto dalla manifattura al commercio) con effetti complessivamente negativi sulla produttività. È allora necessario che insieme al Jobs Act avanzino gli investimenti nel capitale umano e nella ricerca. Sono terreni su cui il governo si sta muovendo, ma che richiedono processi lunghi. Nel frattempo, la testimonianza che ci viene anche dagli altri paesi europei è che la capacità delle politiche attive di offrire sicurezza al lavoratore dipende dalla forza e dalla stabilità della domanda aggregata di lavoro, entrambe generalmente assenti nei paesi che hanno adottato politiche di riduzione della protezione del lavoro e che, per gli stessi motivi, sono più pesantemente impegnati in politiche di austerità, che spesso comportano diminuzione della spesa sociale nel suo complesso. Nella riduzione della sicurezza del lavoratore vanno anche considerate le misure, intraprese da molte nazioni, di legare più strettamente il diritto al beneficio degli ammortizzatori all’accettazione di un “congruo” lavoro; espressione che, nel caso del Jobs Act, deve ancora essere riempita di contenuti. Il rischio di costi sociali in aumento, nell’immediato, a fronte di benefici economici futuri, da verificare, è quindi da tenere in attenta considerazione.

 

Alterazioni delle relazioni di lavoro e possibili conseguenze su democrazia e crescita economica Occorre valutare le pesanti alterazioni che alcune delle scelte compiute impongono alle relazioni di lavoro e le loro possibili conseguenze sulla democrazia del paese e con esse sulla crescita economica. Partendo dalla convinzione che “il lavoro lo creano gli imprenditori”, l’esecutivo sembra fare propria l’idea, già sostenuta dal precedente governo Berlusconi, della necessità di liberare le imprese dai famosi lacci e lacciuoli che ne impedirebbero la piena operatività. Rientra in questo schema la riconsiderazione dei diritti del lavoratore, con uno spostamento del potere sui luoghi di impiego a favore dei datori di lavoro, aprendo spazio ai peggiori fra di essi e aumentando vulnerabilità e insicurezza dei lavoratori, senza che sia chiaro il perché questo possa tradursi in una maggiore efficienza del mercato del lavoro.

Se da un lato l’intervento del decreto Poletti – 34/2014, considerato come prima tappa del Jobs Act, che allenta le condizioni per l’impiego di lavoratori a tempo determinato, rendendolo acausale e prevedendo la possibilità di ben cinque rinnovi nel corso di tre anni di massima durata del rapporto di lavoro – può trovare una giustificazione nella volontà di indurre a trasformare in questa forma di lavoro subordinato forme atipiche che godono di minor protezione e dall’altro il forte incentivo della decontribuzione riconosciuta per un triennio, in legge di stabilità, a tutti gli assunti a tempo indeterminato va nella giusta direzione di dare centralità a questo tipo di rapporto di lavoro – rendendolo più conveniente per le imprese e spingendo quindi anche a una stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari in essere –, la definizione delle tutele crescenti del nuovo contratto a tempo indeterminato e altri contenuti dei decreti attuativi della riforma rafforzano in modo preoccupante i poteri discrezionali/ arbitrari del datore di lavoro sull’organizzazione e la gestione del lavoro e, con esso, del lavoratore.

Alcuni esempi. Per garantire la possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore, anche senza giusta causa né giustificato motivo, a un costo certo e predeterminato, viene eliminata la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro anche nel caso di totale assenza di motivazioni economiche al licenziamento e per qualsiasi tipo di inadempienza disciplinare (ad esempio un ritardo di pochi minuti o una sigaretta fumata in bagno). Viene inoltre esplicitamente impedito al giudice di valutare la proporzionalità fra la “colpa” del lavoratore e la “punizione” (la perdita del posto di lavoro) a cui è sottoposto, violando, a mio avviso, principi sia costituzionali che di diritto europeo. Si mette in discussione il ruolo che storicamente le organizzazioni sindacali esercitano per superare le asimmetrie di potere nel rapporto di lavoro che favoriscono la parte datoriale. Nei licenziamenti collettivi, ad esempio, l’obbligo di reintegrazione non scatta più non solo, come già nella legge Fornero, nel caso in cui venga ignorata la cosiddetta “procedura sindacale” (nel corso della quale il datore di lavoro e i sindacati tentano di trovare soluzioni alternative al licenziamento) ma anche quando il datore di lavoro scelga quali singoli lavoratori licenziare, senza rispettare i criteri di priorità definiti dalla legge (carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive e organizzative) e introdotti non solo per prevenire discriminazioni ma anche per ragioni storiche ben precise, di tutela dei lavoratori sindacalizzati e più coraggiosi nel difendere i propri diritti. Saranno i primi a essere espulsi (modello Valletta). Nella versione del decreto attuativo licenziata dal Consiglio dei ministri e al vaglio del Parlamento, il demansionamento che, secondo i principi di delega, poteva essere previsto solo in caso di ristrutturazioni o riconversioni industriali e in presenza di parametri oggettivi viene invece reso possibile in presenza di “modifica degli assetti organizzativi” e anche a seguito di accordi individuali. Così come viene eliminato, in contrasto con la normativa europea, il dovere di informare le rappresentanze sindacali sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale.

L’indebolimento del ruolo delle rappresentanze dei lavoratori potrebbe essere giustificato da ragioni economiche: ridurre un potere monopolistico per ridurre il dualismo sul mercato del lavoro e favorire l’uso flessibile della forza lavoro, con conseguente auspicato aumento della produttività. Senza nulla togliere alla necessità di meglio definire le regole della rappresentanza e di ripensare i modelli di contrattazione, non bisognerebbe però dimenticare le implicazioni che questo approccio può avere sul sistema politico e sulla qualità della democrazia del nostro paese. Un paese in cui i sindacati hanno avuto un ruolo importante nel condizionare le politiche redistributive, spesso agendo da bilanciamento nei confronti di gruppi e interessi il cui potere tendeva invece a riaffermarsi. Un tema che meriterebbe ben altre considerazioni, ma che ho voluto richiamare per sottolineare i danni che un minor presidio delle politiche redistributive finalizzate a ridurre le diseguaglianze potrebbe avere, come riconosciuto ormai da molti studi economici oltre che dal FMI e dall’OCSE, sulla crescita economica.