Viaggio al termine della "munnezza"

Di Antonio Massarutto Mercoledì 14 Maggio 2014 16:55 Stampa

La valorizzazione dei rifiuti urbani, che in Italia è ancora lontana dal realizzarsi pienamente, prevede non soltanto la raccolta differenziata, ma anche degli impianti in cui trattare i materiali e, soprattutto, un mercato finale in cui collocarli, secondo il principio, sempre più diffuso a livello europeo, della responsabilità integrata. L’abbandono della discarica richiede una politica di disincentivo al suo uso, che potrebbe essere condotta, ad esempio, attraverso una tassazione sufficientemente elevata.

Spenti i riflettori dei media sull’emergenza rifiuti napoletana, chetati (ancora per un po’) quelli sulla non meno inquietante situazione di Roma, si può forse riprendere pacatamente a ragionare sul tema della gestione dei rifiuti, cercando di porre le basi affinché simili vergogne non si ripetano più. È utile farlo a partire da qualche dato. Oggi in Italia si producono circa trentacinque milioni di tonnellate di rifiuti urbani e circa tre volte tanti rifiuti speciali. Se questi ultimi vengono gestiti da sempre in regime di mercato, affidando la responsabilità di provvedere al detentore, i rifiuti urbani sono assoggettati a un regime di servizio pubblico locale: spetta ai Comuni organizzarne la raccolta e avviarli a un’adeguata soluzione di trattamento, affinché possano (sperabilmente) rientrare nel ciclo produttivo come materie seconde, oppure vengano valorizzati in altro modo (per produrre energia o materiali secondari come gli ammendanti agricoli, gli inerti per il riempimento di cave dismesse o per massicciate stradali), o infine vengano definitivamente messi a dimora in modo da arrecare i minori danni possibili all’ambiente (discarica controllata). Quest’ultima opzione, in base alle strategie europee, deve tendere ad azzerarsi: molti paesi dell’UE lo hanno già fatto, riducendo a pochi chilogrammi per anno pro capite l’uso della discarica. In Italia, tuttavia, ancora un terzo del totale dei rifiuti urbani prende ancora questa via. Spesso si tratta di residui inertizzati del trattamento meccanico-biologico che parte dal rifiuto indifferenziato, che teoricamente avrebbero dovuto trovare destinazione come combustibile secondario (ad esempio nei cementifici) o come compost sul suolo agricolo, ma poi, in mancanza di un mercato di sbocco, finiscono per dover essere smaltiti. Molte altre volte si tratta di rifiuti indifferenziati tal quali: fortunatamente sempre meno. Per poter essere valorizzati, destinandoli nuovamente al ciclo produttivo, i rifiuti necessitano di una serie di trattamenti preliminari. Devono innanzitutto essere raccolti in modo differenziato, separando le frazioni atte a un potenziale recupero: ma la raccolta differenziata è solo un primo passo. Servono impianti che separino ulteriormente e trattino i diversi materiali; e serve soprattutto un mercato finale presso il quale collocarli. Un tempo era proprio questo l’anello debole della catena; ma grazie all’approccio innovativo della responsabilità estesa dei produttori, pian piano il vincolo è stato, se non del tutto rimosso, almeno in gran parte allentato, rendendo fattibili obiettivi di recupero che solo vent’anni fa sembravano utopistici.

In poche parole, il principio della responsabilità estesa (EPR) prevede che l’industria che immette sul mercato i beni che un giorno diventeranno rifiuti si faccia carico del problema. Nel caso degli imballaggi, ad esempio, un consorzio nazionale (finanziato dall’industria che produce gli imballi vergini) è obbligato a riciclarne una certa quantità (70-80% a seconda dei materiali), provvedendo a organizzare le operazioni necessarie. Il consorzio, a questo scopo, ha definito un contratto nazionale con i Comuni, che lo impegna a ritirare i materiali ottenuti dalle raccolte differenziate a un prezzo che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe risultare remunerativo per una raccolta svolta in modo efficiente rispetto al tradizionale ciclo della raccolta indifferenziata e dello smaltimento. Il meccanismo ha funzionato, e anche bene: non solo per gli imballaggi, per i quali l’Italia si trova, per una volta, tra i paesi virtuosi; ma anche per gli oli esausti, per le batterie e, un po’ alla volta, per i rifiuti di origine elettronica (la nuova frontiera della “munnezza”). Ma non ha funzionato altrettanto bene dovunque, anche perché le condizioni che rendono conveniente la raccolta differenziata rispetto a quella tradizionale dipendono, tra le altre cose, dalla disponibilità di soluzioni di smaltimento relativamente poco costose. Finché la discarica costava poco o nulla, c’era obiettivamente poco da fare. Il problema delle discariche, tuttavia, è che costano poco finché ce ne sono: ma, quando cominciano a scarseggiare, il prezzo tende immediatamente a schizzare in orbita. Quando questo accade, spesso è troppo tardi per mettere in campo soluzioni alternative, che richiedono tempo e pazienza – e non sempre sono realizzabili, soprattutto se si fondano su attese miracolistiche e demagogiche.

È bene ricordare che, a dispetto dei trionfali proclami del sindaco De Magistris in base ai quali Napoli sarebbe diventata in poco tempo la regina della raccolta differenziata e del riciclo, l’emergenza partenopea è (per ora) finita solo grazie a due fatti. Il primo è l’entrata in funzione del termovalorizzatore di Acerra: un impianto contestato, che tuttavia ora funziona in modo esemplare, con livelli di inquinamento prossimi allo zero. Il secondo è che le quantità ulteriori che Acerra non può trattare vengono esportate verso il Nord Europa. Da questa vicenda si possono trarre, a mio avviso, alcune lezioni importanti. La prima è che bruciare (una parte dei) rifiuti per produrre energia rimane a tutt’oggi una necessità. Non ingannino i risultati miracolosi di quei Comuni, in genere di piccole dimensioni e tessuto urbano favorevole, che sono riusciti a spingere le raccolte differenziate fino al 70-80%. In un paese nel quale la stragrande maggioranza della popolazione vive in centri urbani di medie o grandi dimensioni è a questi ambiti che occorre in primo luogo guardare. Non tutto si può riciclare e le raccolte differenziate hanno rendimenti decrescenti e costi crescenti, man mano che si cercano di intercettare frazioni maggiori. Senza dimenticare che di quel che viene raccolto in modo differenziato una parte consistente verrà comunque scartata dagli impianti di selezione a valle, ridiventando rifiuto (speciale). Il fatto che questi materiali escano dal perimetro dei rifiuti urbani dopo la differenziata non significa che scompaiano.

Nelle condizioni attuali, si può pensare di azzerare la discarica solo se (all’incirca) da metà ai due terzi del rifiuto viene recuperato direttamente e da un terzo a metà viene utilizzato per produrre energia. Le proporzioni potranno variare localmente, in funzione delle rispettive vocazioni del territorio: ma, a livello macro, sono all’incirca queste (come testimoniano i paesi europei che davvero lo hanno fatto).

Occorre anche resistere alle campagne di disinformazione che, ancor oggi, additano questi impianti al pubblico dileggio come inguaribile fonte di inquinamento. Gli studi epidemiologici dimostrano che impianti di concezione moderna, che siano in grado di rispettare i severissimi limiti imposti, comportano emissioni trascurabili, anzi spesso con un vantaggio consistente se nel bilancio si mettono anche le emissioni risparmiate dalla combustione di altri combustibili fossili utilizzati per produrre energia elettrica o calore. Anche le temute “nanoparticelle” – sulla cui pericolosità per la salute si concentra oggi la frontiera della ricerca – non sono emesse da questi impianti in misura particolarmente significativa.

Ma gli inceneritori o termovalorizzatori, o come li si vuole chiamare, sono impianti che comportano grandi economie di scala ed elevati costi fissi. Funzionano bene e si gestiscono in modo relativamente economico solo se viene assicurato un flusso continuo di materiali da trattare, in quantità sufficiente a saturarne la capacità. Questo si può fare difficilmente in regime di pianificazione, poiché è fatale che in tal caso si tenderà a sovradimensionare gli impianti raggiungendo presto un eccesso di capacità. Ma si può fare se gli impianti hanno possibilità di cercare sul mercato le quantità in eccesso. Questo lo hanno capito molto bene tedeschi e olandesi, che già da tempo hanno avviato una politica di apertura all’importazione di rifiuti da trattare; ma anche gli italiani, i cui impianti già oggi funzionano trattando una frazione consistente di altri rifiuti, in particolare quelli che si originano proprio dagli scarti non riciclabili delle raccolte differenziate, gestiti dal Conai (dunque non più in regime di privativa comunale, ma come rifiuti speciali).

Occorre superare il tabù del “principio di prossimità e autosufficienza”, facendo in modo che, con gradualità e con i dovuti controlli, gli impianti esistenti possano trattare non solo i rifiuti originati dal proprio territorio. Un modo per farlo potrebbe essere, ad esempio, quello di assegnare a ogni impianto un obbligo di servizio pubblico (con tariffa regolamentata) per i rifiuti prodotti nel territorio di competenza, con libertà di vendere sul mercato le quote eccedenti. Poiché il prezzo di mercato sarà verosimilmente più elevato della tariffa regolamentata, si crea una doppia convenienza: le comunità che hanno gli impianti vorranno riciclare di più (per liberare capacità), quelle che non li hanno, a loro volta, cercheranno di riciclare il più possibile per non dover pagare i prezzi di conferimento.

La seconda lezione è che il principio di responsabilità estesa ha ben funzionato: ma, se guardiamo con attenzione, non ha funzionato tanto perché a essere responsabili sono “i produttori”, quanto perché il sistema industriale è stato messo nelle condizioni di dover escogitare qualcosa. Se, invece che ai produttori di imballaggio, la responsabilità fosse stata affidata a qualche altro soggetto, i risultati potevano essere gli stessi: e, infatti, analoghi sistemi negli altri paesi operano con logiche diverse, talora promossi dalla grande distribuzione, come in Germania, talaltra dai grandi “utilizzatori di imballaggi”, come l’industria alimentare o altri soggetti ancora.

Tale osservazione ci spinge ad avanzare la proposta di estendere ulteriormente il perimetro di queste soluzioni, anche in maniera creativa. Un caso emblematico è quello del riuso dei Combustibili da rifiuti (CDR) nei cementifici: possibilità concreta, da tempo proposta, che tuttavia ha incontrato il collo di bottiglia dello scarso interesse da parte dell’industria potenziale utilizzatrice, tanto che la gran parte degli impianti di trattamento meccanico-biologico ha da tempo rinunciato. Un sistema di responsabilità estesa potrebbe prevedere, ad esempio, di spingere l’industria del cemento (o tutte le industrie che attualmente utilizzano combustibili solidi) a farsi carico del riutilizzo di almeno una certa quantità annua di CDR. Analoghi sistemi potrebbero essere adottati per altre frazioni, come quelle potenzialmente destinate al settore delle costruzioni edili o delle infrastrutture. Ma occorre tenere presente anche il fatto che le opportunità di recupero si giocano, in larga parte, su ambiti territoriali di gran lunga maggiori di quelli che normalmente associamo alla gestione dei rifiuti.

Proprio nel caso del CDR, ad esempio, le opportunità di mercato non sono più necessariamente confinate alla scala nazionale: flussi crescenti di combustibili da rifiuto viaggiano già in direzione dei paesi centroeuropei, come sostituti del carbone; l’importante, semmai, è notare che le opportunità di utilizzo sono direttamente legate ad accordi bilaterali stabili, che prevedano flussi merceologicamente e quantitativamente omogenei. Del resto, se i materiali secondi devono tornare al ciclo produttivo, dovranno giocoforza terminare il loro viaggio nei territori e nei paesi in cui la produzione manifatturiera si è localizzata. Non si tratta di passare dal Comune alla Provincia o dalla Provincia alla Regione: si tratta, semmai, di un mercato sempre più globale. Come ci insegnano le cronache, purtroppo, a forza di seguire questa strada si passa facilmente a un regime di deregulation le cui vittime sono i paesi in via di sviluppo (ma le cui vittime di ritorno potremmo paradossalmente essere anche noi stessi, quando i nostri rifiuti, malamente trattati e mescolati, diventeranno la base con cui verranno prodotti i beni che nuovamente importeremo). Il principio della responsabilità estesa dovrà anche essere congegnato in modo da minimizzare questi pericoli, senza limitarsi ad assegnare generici obiettivi di riciclo, ma obbligando i sistemi industriali a dare prova che la “filiera” sia stata chiusa in modo corretto anche al di là delle frontiere. Nel campo dei rifiuti elettronici si stanno sperimentando soluzioni interessanti a questo proposito, che possono aprire la strada a meccanismi analoghi anche per altri materiali oggi abbondantemente esportati. I tempi potrebbero essere maturi affinché simili politiche non siano più governate su scala nazionale, ma europea, almeno per alcuni materiali.

La terza osservazione è che per eliminare la discarica e la tentazione di ricorrervi occorre una coraggiosa politica che, fin da subito, penalizzi economicamente il ricorso alla discarica. Il modo più semplice è quello di adottare una tassazione di importo sufficientemente elevato da mettere questa opzione fuori mercato. La cosiddetta “ecotassa” in Italia esiste da molti anni, ma il suo importo – intorno ai venticinque euro per tonnellata – non è sufficiente. Occorre come minimo triplicarla o quadruplicarla, eventualmente ricorrendo a un meccanismo graduale. In Inghilterra, ad esempio, funziona un meccanismo di quote prefissate assegnate alle comunità locali, che entro quel limite possono utilizzare questa opzione (pagando la tassa); chi riesce a ridurre il proprio fabbisogno potrà cedere ad altre comunità le proprie quote e, viceversa, chi non riesce a recuperare abbastanza rifiuti sarà costretto a procurarsele, dando vita a un vero e proprio mercato.

Simili espedienti sono stati qua e là utilizzati da alcune Regioni italiane, ma è tempo, a mio avviso, di pensare a un vero e proprio sistema nazionale, nel quale un soggetto pubblico operante su scala nazionale possa gestire una capacità di smaltimento di ultima istanza, prenotandola pres so gli impianti esistenti in cambio di un prezzo regolamentato (capacity payment). Chi si dovesse trovare in emergenza potrà servirsi di questo canale, non più ricorrendo all’ultimo istante alla Protezione civile, ma pagando in anticipo la disponibilità. In analogia con il mercato elettrico (dove opera attraverso la borsa elettrica un “mercato del giorno prima”), si potrebbe pensare a un “mercato dell’anno prima”, al quale le comunità locali che, a una certa data, non dispongano di adeguati contratti per smaltire i propri rifiuti siano obbligate a rivolgersi anziché al sistema pubblico di ultima istanza.

Si noterà che la strategia tratteggiata nelle righe che precedono tende a mettere in ombra un principio che si è consolidato nel nostro ordinamento: quello che vede la gestione dei rifiuti come “servizio pubblico locale”, esteso dalla raccolta allo smaltimento finale. Se è inevitabile che “l’ultimo miglio” della gestione dei rifiuti, almeno di quelli urbani, sia appannaggio delle istituzioni che governano il territorio – per le ovvie implicazioni che esso ha per il decoro urbano e per l’organizzazione della vita cittadina –, è sempre meno giustificato, a mio avviso, che il perimetro del servizio pubblico si estenda anche alle fasi a valle. La “pianificazione integrata”, che affidava alle Regioni il compito di organizzare nei dettagli la destinazione finale dei rifiuti, non è in grado di governare un sistema le cui logiche sono sempre più extraterritoriali e nelle quali la componente industriale è sempre più fondamentale. Il pubblico deve, come si è detto, confinarsi in un ruolo di controllore ed eventualmente di “smaltitore di ultima istanza”, creando le condizioni perché il mercato possa allargare il suo ambito di competenza.

Può sembrare un’eresia: ma, se ci pensiamo bene, è esattamente quel che succede, da sempre, ai rifiuti cosiddetti “speciali”, anche quelli pericolosi. La valorizzazione dei rifiuti urbani passa inevitabilmente per la costruzione di un legame con i settori di sbocco finale, per i quali poco importa l’origine del rifiuto (urbano, industriale, commerciale) e molto più invece la componente merceologica. Del resto, la stessa industria lo ha già capito molto bene: le principali esperienze di successo in Italia, da Hera ad A2A, ci mostrano imprese che hanno saputo integrare in modo efficace i due mondi, operando sia nel servizio pubblico che nel settore dei rifiuti speciali.

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