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Ricercatori via dall’Italia: dove e perché

A indurre gli scienziati a muoversi verso paesi diversi da quello di origine sono sostanzialmente due ragioni: in primo luogo la possibilità di svolgere una attività scientifica di alto livello e con un finanziamento adeguato e, in misura minore, migliori prospettive salariali e di carriera. Alla luce di ciò, il dato relativo alla spesa per ricerca in proporzione al PIL, del solo 1,29% per l’Italia, spiega meglio di tante altre considerazioni perché per il nostro paese non si possa parlare di una fisiologica mobilità della ricerca quanto, piuttosto, di una vera emorragia verso paesi con sistemi magari anche simili al nostro, ma che investono di più e meglio nel settore.

“Cervelli in fuga” e gap tecnologico dell’Italia

Rispetto all’attività di ricerca l’Italia sperimenta un singolare paradosso: pur di fronte alla crescente consapevolezza che essa sia essenziale per la crescita di un’economia avanzata e che quella che viene svolta nel nostro paese sia di buona qualità, viviamo una fase di “fuga” dalla ricerca. Registriamo, in ragione della limitata spesa privata nel settore e dei considerevoli tagli alla spesa pubblica, una sempre minore capacità di produrre alta formazione e nuove conoscenze, che risultano però, comunque, in eccesso rispetto a quanto il nostro sistema produttivo è in grado di assorbire, ancorato com’è a settori a medio-bassa intensità tecnologica.

La fuga all’estero dei ricercatori italiani al tempo della meritocrazia

Da oltre quindici anni il tema della “fuga dei cervelli” si è imposto nel dibattito pubblico italiano. Ciò è accaduto sulla scorta dell’aneddotica e della narrazione sensazionalistica, senza che si affermasse, di contro, una reale comprensione del fenomeno. Che entità ha assunto l’abbandono dei cervelli nel nostro paese? Quali figure e quali settori interessa? Questo flusso unidirezionale di risorse e conoscenza può mettere a rischio le potenzialità di sviluppo del nostro sistema economico?

Dalla scuola al lavoro, quello “buono”

Che si debba strutturare in modo proattivo il rapporto tra formazione e lavoro è auspicato da tempo da più parti. Nella realtà, però, ciò che si è fatto finora non solo si è rivelato insufficiente ma, quando si è realizzato un cambiamento, esso è stato improntato all’adeguamento dei percorsi formativi alle esigenze del mondo del lavoro esistente. Forse è necessario, invece, invertire i termini della questione e provare, dalla scuola, dall’università, dal mondo della formazione, superando ogni autoreferenzialità, a impegnarsi ancora di più nella progettazione dei percorsi formativi, nell’analisi sul cambiamento dei mestieri e delle professioni, nell’interazione con le sedi in cui si progetta lo sviluppo locale.

Disallineamento formativo e professionale. Il paradosso italiano

Uno dei più discussi aspetti della difficile situazione dei giovani nel mercato del lavoro occidentale e, in particolar modo, in quello italiano, è il disallineamento formativo e professionale, inteso come la distanza tra i profili formati dal sistema di istruzione e formazione e la richiesta di competenze specifiche del mercato del lavoro. In Italia, pur essendo di fronte a un fenomeno rilevante di overeducation, le aziende lamentano la difficoltà di trovare profili adeguati a soddisfare le loro esigenze. Come spiegare questo apparente paradosso? E come intervenire per contrastare il fenomeno?

Sud e lavoro: istruzione e produzione per spezzare i circoli viziosi

Negli ultimi anni di durissima crisi economica, che ha colpito il Sud più del resto del paese, le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, caratteristiche dei livelli più bassi di istruzione, si sono diffuse anche tra giovani in possesso di un bagaglio di formazione robusto, in particolare nel Mezzogiorno. Si è determinata così un’enorme sottoutilizzazione di capitale umano, uno “spreco” di intelligenze, che comporta un inevitabile deterioramento delle conoscenze e un avvitamento nelle dinamiche del sottosviluppo. Ciò rivela che non basta investire soltanto in istruzione per uscire dalla trappola del sottosviluppo meridionale, e che invece, per superare la strutturale carenza di occasioni di lavoro qualificato al Sud, occorrono investimenti pubblici, politiche dell’innovazione e nuove politiche industriali mirate alla modifica del modello di specializzazione verso produzioni a maggior valore aggiunto e contributo di conoscenza.

Riattivare i NEET: da vittime della crisi a protagonisti della crescita

L’Italia sta perdendo i suoi giovani, quelli che, con un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, si formano meno, lavorano meno, guadagnano meno e fanno meno carriera, vivono meno esperienze di autonomia e hanno meno figli rispetto ai coetanei degli altri paesi avanzati. Tra questi, i NEET, persi nel nebuloso percorso tra l’uscita dalla scuola e l’ingresso nel mercato del lavoro, sperimentano le condizioni peggiori e vivono l’angoscioso paradosso di vedersi trasformati da potenziale risorsa per la crescita in costo sociale. Alcune misure, come il programma Garanzia giovani, sono già state messe in campo per contrastare il fenomeno. Ma non bastano. Occorre fare di più e decidere se in Italia le nuove generazioni sono le principali vittime di un paese rassegnato al declino o se vogliamo che siano le risorse principali di un paese che vuole tornare a crescere e a essere competitivo.

Proteggersi dai rischi. Nuove competenze e modi di lavorare per il mercato che cambia

La complessa ristrutturazione dei sistemi occupazionali e dei tradizionali sistemi di protezione sociale non solo ha completamente ridefinito modi, tempi e aspettative legate al lavoro, ma ha anche reso necessaria una riarticolazione delle competenze, sia per aumentare le proprie chance professionali sia per autotutelarsi all’interno di un sistema in cui la protezione dai rischi, ad esempio di disoccupazione, è sempre più bassa.

La disoccupazione giovanile si combatte in Europa

La disoccupazione giovanile è un fenomeno preoccupante che, pur registrando in Italia picchi insostenibili, riguarda tutta l’Europa. Ed è appunto sul piano europeo che occorre agire per contrastarlo efficacemente, sia con misure specifiche come un sussidio comune di disoccupazione per l’eurozona o Garanzia giovani – il programma dell’Unione europea che mira a fornire ai ragazzi tra i 15 e i 29 anni un’offerta di lavoro, di formazione, di proseguimento dello studio o di tirocinio entro quattro mesi dall’inizio del periodo di disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione – sia con più ampi provvedimenti a sostegno della crescita economica e della trasformazione tecnologica del sistema produttivo.

Garanzia giovani: utile ma non risolutiva

Cos’è Garanzia giovani? Una misura importante di contrasto alla disoccupazione giovanile che però non è in grado, di per sé, di creare posti di lavoro. È un tassello importante che potrà dispiegare pienamente il suo potenziale quando si deciderà di dare corso a una politica più ampia e incisiva  per l’occupazione.

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