Una guerra fondata su una duplice radicalizzazione: la Somalia di fronte ad al Shabaab

Di Roland Marchal Giovedì 28 Aprile 2016 15:49 Stampa

Sebbene con un andamento altalenante, che ha visto alternarsi fasi di crisi ad altre di rinascita e consolidamento, l’organizzazione jihadista al Shabaab da anni controlla saldamente una porzione importante del territorio somalo e alimenta una guerra sporca, apparentemente senza fine e che rischia di estendersi anche ai paesi vicini. Le ragioni del suo rafforzamento vanno ricercate da un lato all’interno del paese, nelle vicende della guerra civile che ne ha brutalizzato la società, dall’altro negli errori degli attori regionali e internazionali che hanno, di fatto, favorito nel paese la radicalizzazione religiosa e politica.


Mentre al centro delle attenzioni europee ci sono la Siria e l’Iraq, non e superfluo ritornare su quei paesi che da molti anni fanno i conti con la violenza jihadista e che ricevono un importante aiuto internazionale. Se si prendessero in considerazione i vicoli ciechi nei quali si sono cacciati gli occidentali in questi contesti, oggi ignorati dal dibattito pubblico, si potrebbe riflettere con un atteggiamento meno segnato dall’emotività sulle opzioni possibili per limitare le crisi del Vicino Oriente, senza trasformare guerre “limitate” in guerre “prolungate” come e oggi il caso dell’Afghanistan e della Somalia.

E anche importante scollegare queste riflessioni dalla discussione che sta ora alimentando il dibattito sugli homegrown terrorists. A differenza di quando si sostiene oggi in Francia e in Belgio, le reclute di questi movimenti jihadisti sono sostanzialmente di nazionalità locale e subiscono in pieno gli effetti della guerra alla quale partecipano. Le condizioni del reclutamento o la comprensione della posta in gioco nel conflitto sono per questo e a priori notoriamente diverse e richiedono pertanto analisi distinte.

Ci interrogheremo qui sui fattori che spiegano l’emergere e la relativa continuità di un movimento jihadista in Somalia, nonostante tutti i comunicati di vittoria e celebrativi della Forza africana in Somalia, l’AMISOM, costituita nella primavera del 2007. Mentre negli anni Novanta la Somalia doveva confrontarsi con movimenti islamici armati che si comportavano in fondo come fazioni claniche che dominavano l’arena politica, dopo l’11 settembre questa situazione si e deteriorata, con la proliferazione di omicidi mirati, di veri e propri attacchi terroristici e, infine, con la apparizione, nel febbraio 2006, del Movimento dei giovani combattenti, più noto con il nome di al Shabaab. Questa organizzazione, che un anno dopo sarebbe stata prossima a sparire, nel gennaio 2009 controllava in Somalia una popolazione più numerosa di quella degli Stati autoproclamati del Puntland e del Somaliland. Molti osservatori hanno stimato che la perdita di Mogadiscio nel luglio 2012 e poi quella di Chisimaio nel settembre 2013 abbiano segnato la fine di questo movimento. Non e stato affatto cosi. Dal giugno 2015, al Shabaab, che gli stimati esperti occidentali descrivevano come indebolito, diviso e in disfacimento, ha preso il controllo di tre campi dell’AMISOM, uccidendo diverse centinaia di soldati di professione burundesi, ugandesi e kenioti, per non parlare delle perdite etiopi, che Addis Abeba non comunica mai. E dunque in corso una guerra sporca e sarebbe imprudente prevederne la fine, proprio mentre il teatro dello scontro e in evoluzione e non riguarda più soltanto la zona centro-meridionale della Somalia, ma tocca il Nord del paese e certamente anche i paesi confinanti, a cominciare dal Kenya, che oggi e l’obiettivo principale delle ambizioni di al Shabaab. La competizione tra al Qaeda e Daesh non lascia speranze di una remissione, perche la globalizzazione dei repertori dell’azione terroristica fa si che, in ultima istanza, continuino a esserne vittime i civili, spesso gli stessi musulmani.

Da questa riflessione emergono tre constatazioni. La prima e che e un errore fatale credere che i movimenti di questo genere siano solo organizzazioni terroristiche, senza interrogarsi sul loro progetto politico e sul loro ruolo nell’arena nazionale. Il terrorismo e una tecnica di guerra, non e la guerra. La seconda constatazione e che se una radicalizzazione esiste, questa non riguarda soltanto questi movimenti, ma anche il nostro stesso modo di individuare i problemi e di delinearne le soluzioni. All’estrema rigidità dei jihadisti corrisponde una inflessibilità fuori luogo nelle percezioni e nelle priorità occidentali. Lo illustrano alla perfezione il dibattito europeo e l’accoglienza che riserviamo ai profughi siriani e iracheni. Una terza conclusione susciterà l’approvazione immediata di chi legge: questo fenomeno non e il frutto di una storia lineare e nazionale, ma risponde per numerosissimi aspetti a dinamiche internazionali e transnazionali e a configurazioni regionali. Il che dovrebbe servire ad attenuare decisamente l’interesse che spinge a ritenere che la crescita di tali movimenti sia semplicemente dovuta a un’inclinazione di individui verso pratiche ultraviolente. Non osiamo qui ricordare l’ascesa di Daesh in Iraq.

Per procedere, proponiamo qui di ricordare in primo luogo quanto sia stata brutalizzata la società somala nel corso della guerra civile e come al Shabaab si presenti al punto di congiunzione tra una radicalizzazione religiosa, comunque percepibile nella società, e una radicalizzazione militare nella quale si esprime una volontà di rivincita, dopo tanti conflitti persi. Indicheremo inoltre in modo sintetico come gli attori regionali e internazionali non abbiano smesso di ridurre qualsiasi spazio che avrebbe potuto permettere una transizione sociologica dei sostenitori di al Shabaab verso un percorso comune con i suoi oppositori. Nella lotta contro il terrorismo, in modo più o meno volontario, si costruisce una nuova definizione di potenza regionale che oggi e soprattutto un paese in grado di proiettare forze in una guerra asimmetrica. Il Ciad ha fatto le sue prove nel Sahel, ma un elemento ulteriore di instabilità per la Somalia e dato dal fatto che oggi vari paesi vi avanzano pretese, in particolare l’Etiopia e il Kenya.

LA BRUTALIZZAZIONE DI UNA SOCIETÀ?

Lo sterminio di circa 150 studenti all’Universita di Garissa, nel marzo 2015, non ha suscitato lo stesso orrore sul piano internazionale dei massacri di massa in Siria, anche se ha fatto si che una volta di più fosse screditata al Shabaab, di cui si e confermata la natura terroristica. Al Shabaab e senza dubbio l’espressione sublimata di un periodo storico nel quale la violenza e stata lo strumento principale della politica.

La violenza, pero, non e una novità in Somalia, un paese in guerra dal 1991, senza contare la repressione sorda ma più raffinata di Mohamed Siad Barre. Gli islamisti somali, come le altre correnti politiche, si sono divisi sull’uso della violenza. I Fratelli Musulmani essenzialmente hanno puntato su una reislamizzazione della società dal basso, mediante progetti sociali e educativi. Hanno segnato punti essenziali, perche il sistema educativo nel Somaliland, nel Puntland e nel Sud del paese e oggi influenzato dal loro programma. Una parte dei salafiti somali ha fatto la scelta contraria e dal 1991 si e organizzata come movimento politico-militare. Questo movimento, combattuto dall’Etiopia e dalle fazioni claniche, ha dovuto gettare la spugna nel 1997. Una parte dei suoi membri e tornata alla vita civile, dedicandosi ai commerci e alle opere sociali in progetti finanziati dalle ONG islamiche del Golfo (molte delle quali sono nell’elenco americano delle organizzazioni terroristiche). L’altra parte, minoritaria e ancora più radicale, ha fondato una nuova organizzazione politico-militare (che dal 2005 e servita da base per la costituzione di un movimento jihadista).

Le cose stavano cosi l’11 settembre 2001. Da quella data una guerra clandestina ha visto contrapposti gli islamisti radicali e gli operatori somali finanziati dai servizi di sicurezza americani ed etiopi. In quella sequenza di omicidi mirati e di sequestri, la popolazione ha visto solo la mano dello straniero e si e ritrovata cosi accanto a chi non aveva mai sostenuto prima. Le vittime dei droni americani sono numerose, ma ci sono poche o nessuna fotografia a testimoniarlo e non ci sono state vittime occidentali. Per questo il fatto non sussiste. Il 2006 era stato l’anno delle speranze, soffocate una dopo l’altra con la massima violenza. Il governo uscito dalla conferenza di Mbagathi, in Kenya (2002-04), finalmente riunificato, si e dimostrato incapace di valutare la portata dell’eliminazione delle fazioni claniche a Mogadiscio nel giugno 2006, cosi come non ha saputo riconoscere la natura assai eterogenea dell’Unione delle Corti islamiche che ha assunto di colpo il potere nella capitale. Sentendosi minacciato, il governo ha spinto per lo scontro e per un impegno internazionale che e suonato come una provocazione. Al Shabaab non ha esitato ad attaccare il presidente e le divisioni interne hanno indotto le Corti islamiche a un’incoerenza politica, nonostante i profondi contrasti con al Shabaab. Solo l’Unione europea ha tentato una mediazione. Nel dicembre 2006, l’intervento militare etiope e arrivato a “liberare” la Somalia dai suoi demoni. L’euforia dei vincitori non e pero durata a lungo, perche la guerra e ricominciata coniugando richiami nazionalistici e parole d’ordine islamiche: la disfatta politica etiope e stata totale ed e costata il crollo del governo somalo e l’elezione di un nuovo presidente uscito dalle Corti islamiche nel gennaio 2009.

In quel momento le forze di al Shabaab ammontavano probabilmente a più di 15.000 uomini, su un territorio che copre in pratica tutto il Centro-Sud della Somalia e una popolazione di oltre quattro milioni di anime. Governare e arduo e terrorizzare la popolazione per ottenerne l’adesione pare un metodo efficace per farlo. Il ricorso alla violenza divide la società, non solo perche “Shabaab sono figli nostri”, ma anche perche dopo tanti anni di incuria l’idea che ci sia una legge e che tutti la debbano rispettare soddisfa spesso i più deboli. Certo, dall’estate del 2011 al Shabaab e stata costretta ad arretrare e ha perso il controllo dei grandi centri urbani. Ma la popolazione si pone qualche domanda: chi la protegge da un esercito nazionale predatore, dai bombardamenti dell’AMISOM, dalle ambizioni dei miliziani dei clan vicini? Come Daesh, al Shabaab non e più popolare, ma resta un’organizzazione utile, un nemico secondario, non una minaccia esistenziale.

UNA DUPLICE RADICALIZZAZIONE

Tale violenza, ahimè, non può essere attribuita oggi solo a questa organizzazione jihadista. Dopo la presa del campo di El Adde, nel febbraio 2016, l’aviazione keniota ha bombardato le basi di al Shabaab. Per quale ragione e stato necessario aspettare quell’attacco per prendere un’iniziativa che e in linea con il mandato dell’AMISOM? Nel 2015, i diplomatici occidentali hanno visto con sollievo la fine di un’offensiva dell’esercito etiopico nella valle del Giuba, dopo che le prime operazioni avevano provocato danni collaterali. Quei silenzi selettivi dell’Occidente meritano di essere analizzati e non con le solite scrollate di spalle dei diplomatici che parlano di “un’altra brutta figura”, come se errori del genere non avessero conseguenze a medio termine.

Si, c’e una radicalizzazione religiosa in Somalia. E visibile fin dagli ultimi anni del secolo scorso, ed e dovuta non tanto alla rinascita delle correnti armate salafite, quanto al potere economico e all’influenza sociale di un nuovo ceto di uomini d’affari e di attivisti salafiti. Ma questa radicalizzazione religiosa non chiarisce molto di una radicalizzazione che segue altre strade. Mentre una parte dei salafiti si tiene lontana dalla politica, nel 2005 altri si sono alleati con al Shabaab e sono rimasti con loro fino al 2009 o al 2010. Oggi sono gli interlocutori privilegiati degli Stati del Golfo, nel loro progetto di mettere in ginocchio i Fratelli Musulmani e, senza dubbio, vista la loro forza economica, sono in ottimi rapporti con il governo somalo.

Quanto agli attori esterni, il loro impegno a favore della pace e svanito nel dicembre 2006, quando e stato necessario avallare l’intervento etiope e poi quello keniota nel 2011 e le manovre dei servizi di sicurezza occidentali sulla politica nei confronti della Somalia. Infatti, la politica estera degli occidentali non e affatto cambiata nei sui fondamenti dalla meta degli anni Novanta: si da la priorità al contenimento, a costo di continuare la guerra in Somalia. Come negli anni Novanta, si e dovuto ammettere che mantenere una presenza jihadista in Somalia eliminandone i capi non limitava il problema, ma accelerava la decomposizione politica e favoriva una propagazione della minaccia oltre i confini somali.

Se tutti gli esperti dell’AMISOM e dei servizi d’informazione occidentali sono d’accordo nel sostenere che al Shabaab recluta in specifiche comunità, a causa di particolari vicende della guerra civile, e se tutti sottolineano che al Shabaab si ricostituisce grazie ai conflitti locali, non si e fatto nessun intervento sostanziale per arrivare a processi di riconciliazione locali, salvo prendere per autentica pacificazione la spartizione, all’interno di una piccola elite autoproclamata, dei posti offerti in seguito alla costituzione di strutture federali. Il concetto espresso in modo bellicoso ad Addis Abeba e a Nairobi e che saranno sconfitti, sterminati, ci si sbarazzerà di loro al più presto, ma la guerra invece continua, al punto che i somali si domandano se tutto questo non sia altro che un atteggiamento concordato per occupare il loro paese, per organizzarne la spartizione e depredarne le risorse.

Chiaramente ci sono legami innegabili con al Qaeda. E possibile ricordare che i jihadisti di professione erano solo poche decine nel 2004 e che tra loro non mancavano le divisioni. Al Qaeda e sopravvissuta grazie all’intervento etiope e all’assicurazione americana di farla finita in fretta. Invece di analizzare le ragioni di una convergenza tra islamisti radicali somali e stranieri, si sono moltiplicate le generalizzazioni confuse nell’interesse dell’Etiopia e oggi del Kenya, e si e permesso che si formasse una sequenza di eventi che ha spinto i membri somali di al Shabaab a collegarsi in modo più organico ad al Qaeda nello Yemen dal 2012. Questa cecità politica degli occidentali permette all’Etiopia di perseguire una politica di potenza in Somalia e di restare padrona del gioco dell’agenda diplomatica sotto la maschera dell’IGAD.

CONCLUSIONI

La guerra in Somalia continua e si sta già ripercuotendo su altri paesi della regione. Si sta formando un legame con lo Yemen che domani potrebbe riguardare anche la Libia e i paesi del Sahel. L’interrogativo che sorge e duplice. Si tratta prima di tutto di capire se si e disposti a considerare i problemi politici insiti in un’insurrezione di questo tipo e a trarne le debite conseguenze. Si tratta inoltre di sapere quale sia l’ordine che s’intende sostenere nella regione: in Africa, come nel Vicino Oriente, questa guerra contro al Qaeda o Daesh rappresenta una fantastica rendita diplomatica che permette a certi di evitare la Corte penale internazionale, ad altri di sottrarsi alle critiche per un regime autoritario nel quale le elezioni si vincono con il 100% dei voti, a tutti di ammantarsi del vessillo della laicità democratica per conservarsi al potere a onta di tutto e contro tutto.