Partecipazione e militanza: perchè i partiti servono ancora

Di Marco Almagisti Venerdì 30 Novembre 2012 17:04 Stampa

I partiti sono, tra i corpi intermedi che contraddistinguono la società moderna, quelli che, nel secolo scorso, hanno maggiormente organizzato la partecipazione politica dei cittadini e favorito la ricomposizione delle tensioni sociali. Il ridimensionamento del loro ruolo, che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ha però aperto nuove prospettive e ampliato i margini di azione degli altri corpi intermedi: gruppi e movimenti. Una alternativa preferibile a quella di un loro antagonismo potrebbe essere costituita dalla cooperazione tra gruppi, movimenti e partiti, come si è verificato in occasione del referendum del 12-13 giugno 2011.

Nelle società tradizionali, caratterizzate da appartenenze gerarchiche, i legami interpersonali erano “strutturanti” e sortivano l’effetto di “frenare” il potere politico. Nella società moderna, invece, i legami interpersonali tendono a essere destrutturati e a non rappresentare un efficace contrappeso al potere politico. Secondo Tocqueville, la maggiore fluidità dei rapporti interpersonali favorisce l’allentamento dei legami sociali, sino a giungere a una tendenziale frantumazione della società, con conseguenze anche sulla qualità del sistema politico. Infatti, se ogni cittadino rifluisce nel “privato”, la sfera pubblica si impoverisce e diviene disponibile alle incursioni di figure dispotiche. L’antidoto proposto da Tocqueville (una sorta di “rimedio democratico” alle aporie della democrazia) è costituito da una diffusa partecipazione associativa. Mentre nel Medioevo i corpi intermedi erano “chiusi” (o difficilmente permeabili, come le corporazioni), nella modernità, giusta la lezione di Tocqueville, essi mutano le proprie caratteristiche, rinascendo tendenzialmente “aperti” (come le associazioni).

Tale trasformazione evoca due questioni decisive per la qualità dei sistemi politici. Prevenire l’inaridirsi della sfera pubblica e la conseguente affermazione di despoti rimanda alle concrete opportunità dei governati di “prendere parte” alla selezione dei governanti e alle decisioni prese dai medesimi.1 Al contempo, in società pluraliste la partecipazione in corpi intermedi rimanda all’orizzonte sempre possibile della contesa fra i partecipanti. Il conflitto, infatti, costituisce un esito sempre possibile della partecipazione. “Prendere parte” significa anche “scegliere una parte”, ossia scegliere dei “compagni di strada” e non altri, oppure contro altri. Pertanto, nell’atto di partecipare vi è il senso di agire per qualcosa e con qualcuno, oppure contro qualcosa e contro qualcuno. Ne discende la necessità di regolare i conflitti fra i gruppi e di mantenerli entro limiti che impediscano la deflagrazione della società.

La sociologia ci ricorda che l’esistenza di un gruppo sociale implica un processo di riconoscimento, tramite il quale i soggetti si riconoscono e vengono riconosciuti come appartenenti (o meno) al gruppo. Sociologicamente, quindi, l’appartenenza rimanda all’esistenza di un gruppo di esseri umani che riconosce la presenza di un complesso di elementi comuni a tutti i membri del gruppo, sufficienti per definire un “noi”. Essa presuppone un gruppo umano che si “riconosce” un’identità, lungo processi intersoggettivi graduali e vischiosi, spesso contraddistinti da momenti conflittuali (per la definizione dell’identità medesima). Inoltre, l’identità non esiste mai come fenomeno isolato e non dipende mai soltanto dalle convinzioni degli appartenenti al gruppo, ma anche dal riconoscimento degli altri appartenenti alla vita sociale. Sotto questo aspetto, l’identità politica, come l’identità sociale, culturale o religiosa, non è che una specie (per quanto peculiare) dell’identità di gruppo. A sua volta, l’identità politica è il “genere” di cui sono “specie” quella nazionale, quella statuale, quella partitica e altre ancora.

Quali forme idealtipiche, è possibile individuare diversi corpi intermedi affermatisi nella modernità.2 Rispetto ai gruppi in senso stretto (gruppi di interesse), i partiti e i movimenti si distinguono per caratteristiche strutturali e per il tipo di rapporti che instaurano con le istituzioni: i movimenti sono fluidi sotto l’aspetto organizzativo, altamente instabili e legati a “entusiasmi collettivi” relativamente difficili da protrarre nel tempo. Invece, i gruppi di interesse e i partiti organizzano la partecipazione secondo modelli maggiormente strutturati e gerarchici, sovente destinati a riprodursi nel lungo periodo. Riguardo ai rapporti con le istituzioni, i partiti si differenziano da tutti gli altri corpi intermedi in quanto cercano esplicitamente di conquistare il controllo delle istituzioni rappresentative e non soltanto di condizionarle dall’esterno. Per tale motivo, essi costituiscono una sorta di ircocervo politico, essendo, al contempo, organizzazione della società e presenti nelle istituzioni.

Alcune caratteristiche contraddistinguono i partiti politici sin dalla loro comparsa: l’obiettivo di conquistare il potere politico, una relativa disciplina interna, la selezione del personale politico. Con il passaggio dal modello del partito “dei notabili” al partito “di massa”, in concomitanza con i successivi allargamenti del suffragio, l’organizzazione del partito diviene un elemento permanente e costitutivo della stessa società politica, almeno fino agli anni Novanta del Novecento: mentre i notabili attingono a risorse private, il partito di massa necessita di utilizzare la propria organizzazione quale risorsa politica, costruendo competenze organizzative specifiche e legami di fiducia – ossia quanto oggi indichiamo con il termine di capitale sociale – interni all’organizzazione o comunque, rispetto a essa, collaterali. Il fatto che l’organizzazione divenga una finalità stessa della partecipazione produce due fenomeni che sono caratteristici dei partiti di massa. Il primo consiste nella burocratizzazione (di parte) dell’attività politica, con la dilatazione della presenza del “professionista della politica”, del funzionario, il cui radicamento capillare realizza una situazione inedita nella storia, nella quale per la prima volta centinaia di migliaia di persone vivono, secondo la celebre distinzione weberiana, di politica.

Il secondo fenomeno, parzialmente legato al primo, riguarda la costruzione di identità collettive connesse all’organizzazione partitica, ossia la partecipazione associativa in organismi politici di base che comporta la costruzione di particolari relazioni sociali e di legami di appartenenza, tramite la creazione ad hoc di corpi intermedi o la sussunzione entro l’organizzazione partitica di corpi intermedi precedentemente esterni a essa. Per effetto di tali processi, nel corso del Novecento i partiti di massa tendono a connotare della propria presenza ampie porzioni del contesto sociale.

È in questa fase che i partiti di massa organizzano la partecipazione politica, divenendo luoghi di solidarietà e sociabilità, offrendo all’interno della propria organizzazione l’occasione di nuovi riconoscimenti personali, assicurati da intense esperienze simboliche condivise entro cerchie relativamente stabili. Fra gli incentivi alla partecipazione che l’organizzazione partitica rende praticabili per i propri aderenti e i fiancheggiatori vi sono canali di accesso alle risorse pubbliche o alla redistribuzione di benefici economici, oppure le prospettive di carriera politica o di sostegno a carriere private. Tuttavia, oltre a questi aspetti, i partiti di massa costituiscono gli ambiti nei quali si sedimentano le esperienze significative vissute dagli individui attraverso le ondate di mobilitazione collettiva, che possono verificarsi anche in ambiti esterni rispetto all’alveo partitico, non avendo i partiti né il monopolio della soggettività politica, né quello della partecipazione. Inoltre, essi possono costituire occasioni di mutuo appoggio e di assistenza, di ispessimento delle reti di fiducia; possono, dunque, essere considerati dei produttori e riproduttori di capitale sociale, anche se non in esclusiva (operando essi in compresenza con altri erogatori di capitale sociale, quali associazioni non affiliate ai partiti, Chiese, istituzioni pubbliche nazionali e locali, famiglie e gruppi amicali). Se la produzione di capitale sociale non è monopolio dei partiti di massa, spesso la presenza dei medesimi si è rivelata indispensabile per costruire reti di fiducia più ampie e meno segmentate, più aperte verso le istituzioni. Ad esempio, nell’Italia del secondo dopoguerra il consolidamento democratico è stato reso possibile dall’ancoraggio dei partiti. L’esistenza di partiti con forte radicamento sociale ma proiettati nel contesto nazionale (e spesso in un sistema di relazioni internazionali) ha consentito di allentare la morsa del particolarismo, dilatando le maglie delle appartenenze locali oltre la dimensione del più schietto campanilismo; ha trasformato il capitale sociale sedimentato in contesti fortemente localizzati in una risorsa pienamente utilizzabile nel sistema politico nazionale, radicando la capacità di differire nel tempo la soddisfazione degli interessi individuali.

Pertanto, possiamo sostenere che, se movimenti e gruppi risultano attori essenziali nei processi di articolazione degli interessi, l’analisi delle democrazie consolidate, soprattutto dell’Europa continentale, ha evidenziato come nel corso del Novecento i carichi potenzialmente gravanti sul sistema politico siano stati filtrati dall’azione dei partiti, i quali, aggregando gli interessi e ricomponendo i conflitti nelle arene istituzionali, hanno ridotto l’eventualità di intervenire sui conflitti stessi in termini puramente repressivi.

Tale considerazione solleva molteplici questioni, dal momento che il ruolo dei partiti è sottoposto a critiche in quasi tutte le democrazie, ma soprattutto è messo in dubbio in Italia, ossia in una realtà che si è consolidata grazie ai partiti di massa, ma in cui, negli ultimi vent’anni, un intero sistema partitico è imploso senza essere sostituito da neoformazioni partitiche stabilmente strutturate.

Una consistente corrente di pensiero ritiene che la “recessione sociale” subita dai partiti alla fine del Novecento schiuda nuove opportunità agli altri due tipi di corpi intermedi della modernità, ossia gruppi e movimenti. Secondo alcuni, sia l’articolazione degli interessi sia la socializzazione politica passerebbero attraverso i movimenti sociali, più agili sotto l’aspetto organizzativo e potenzialmente più vicini ai contesti locali o transnazionali o, comunque, maggiormente autonomi rispetto alle istituzioni centrali degli Stati. Altri indicano, invece, nell’evoluzione dei gruppi di interesse e, in particolare, nella crescita delle associazioni una possibile strada di rinnovamento (anche radicale) della politica democratica. Le implicazioni che discendono da tale questione sono cruciali per la qualità della democrazia, comportando rischi oltre che opportunità. È il caso di ricordare che se i movimenti non trovano connessioni con il sistema politico, sotto forma di canali in grado di integrare negli ambiti istituzionali le loro domande, possono disperdere il proprio capitale sociale e avvitarsi in un circolo vizioso di riflusso e riemersione radicale, vistosa sotto il profilo espressivo ma sostanzialmente sterile dal punto di vista politico.

Alcune cautele devono essere ribadite anche riguardo al ruolo delle associazioni. Una nobile e feconda tradizione di ricerca, che discende da Tocqueville e che è riaffiorata alla fine del Novecento, soprattutto grazie agli studi sull’Italia e sugli Stati Uniti condotti da Robert Putnam, sostiene che la vivacità del tessuto associativo costituisce, di per sé, un valido indicatore della presenza di capitale sociale tendenzialmente disponibile per la generalità dei cittadini e che ciò si tradurrebbe in una garanzia di elevato rendimento istituzionale. In questo caso, però, può presentarsi il problema della segmentazione delle reti di fiducia e, di conseguenza, dei rapporti fra società e istituzioni: esistono tipi di fiducia “a corto raggio” (o “particolaristica”) che si contrappongono a tipi di fiducia “generalizzata” e numerose ricerche empiriche hanno mostrato che il passaggio da un tipo all’altro è problematico, nonché condizionato da numerosi elementi riferiti allo specifico contesto locale. Inoltre, soggetti dotati di una robusta fiducia interpersonale possono essere del tutto alieni dalla fiducia verso le istituzioni e viceversa. Se prendiamo ad esempio le trasformazioni sociopolitiche intervenute negli ultimi tre decenni nella (ex) subcultura cattolica nell’Italia nordorientale e che hanno condotto alla crisi del tradizionale meccanismo di rappresentanza politica e di integrazione della società locale e, infine, alla scomparsa del partito di riferimento, sembra che esse abbiano addirittura invertito il nesso causale ipotizzato da Putnam fra proliferazione dell’associazionismo e aumento del capitale sociale. Il progressivo distacco delle crescenti esperienze associative dai precedenti riferimenti culturali e partitici tende a erodere solidarietà più ampie; pertanto, l’estendersi dell’associazionismo volontario ha contribuito a incoraggiare, piuttosto che a inibire, il particolarismo dei sistemi locali.3 Quanto argomentato finora potrebbe indurre a concludere che le prospettive per la qualità dei regimi democratici non sono affatto rosee: il lento – e non lineare – passaggio dal partito di massa a nuove forme di partito, contraddistinte dalla presenza di forti leadership personali, sembra avere contribuito allo sfarinamento delle strutture partitiche, mortificando, al contempo, la militanza e la partecipazione politica, che si sono riversate altrove, ad esempio nelle neoformazioni di carattere populista. Tuttavia, non si può escludere a priori una prospettiva meno pessimistica. Fra i partiti, ancora forti nel condizionare l’accesso alla sfera istituzionale ma più deboli nei confronti delle molteplici realtà che attraversano la società, e i movimenti, l’associazionismo e le forme di azione politica da essi prodotte, si possono realizzare nuovi tipi di “divisione del lavoro”. In tale maniera, gli attori meno istituzionalizzati contribuirebbero a far emergere dalla latenza politica questioni socialmente importanti e i partiti avrebbero l’opportunità di interloquire con soggetti altrimenti periferici, irrobustendo la legittimità del sistema politico nel suo complesso.

Se pensiamo all’appuntamento referendario del 12-13 giugno 2011, possiamo trarre qualche utile indicazione al riguardo. In quell’occasione, i cittadini italiani si sono espressi su quattro referendum abrogativi: due relativi alla gestione dell’acqua pubblica, uno all’energia nucleare e uno al legittimo impedimento (per il presidente del Consiglio e i ministri). Nonostante Berlusconi e Bossi abbiano invitato ad astenersi, più del 54% degli italiani – ossia quasi 26 milioni di persone – è andato alle urne, dando il consenso all’abrogazione di tutti e quattro i quesiti con percentuali superiori al 94%. Si tratta di un risultato molto significativo, in quanto dal 1999 tutti i referendum abrogativi erano falliti per mancanza di quorum. Invece, nel giugno 2011 la mobilitazione degli elettori è risultata ingente, poiché il referendum è stato considerato quale occasione per far emergere un cambiamento del clima d’opinione (sfavorevole all’esecutivo Berlusconi) e per riportare al centro del dibattito politico i “beni comuni”, quali la gestione pubblica dell’acqua, la tutela dell’ambiente e una legge uguale per tutti. La mobilitazione è avvenuta soprattutto attraverso il contatto diretto e internet e grazie all’impegno delle coorti più giovani, e il successo referendario è scaturito dalla cumulatività della mobilitazione dei movimenti e dei partiti di centrosinistra.4 Militanti di partito e attivisti di gruppi e movimenti hanno rafforzato vicendevolmente la propria azione, determinando un risultato politico inatteso.

La discussione sul ruolo dei partiti dovrebbe partire dall’analisi di processi cosiffatti. Gli stessi partiti dovrebbero porsi il problema: come rappresentare e coinvolgere milioni di persone che hanno ancora voglia di occuparsi di politica? Perché senza i partiti il capitale sociale generato da tali mobilitazioni collettive rischia di disperdersi. Ma senza questo capitale sociale i partiti rischiano di trasformarsi in alberi incapaci di dare buoni frutti, poiché sprovvisti di radici.

 


 

[1] F. Raniolo, La partecipazione politica, il Mulino, Bologna 2007.

[2] M. Almagisti, La qualità della democrazia in Italia. Capitale sociale e politica, Carocci, Roma 2011.

[3] I. Diamanti, Il male del Nord. Lega, localismo, secessione, Donzelli, Roma 1996.

[4] M. Almagisti, M. Agnolin, Linee di frattura e partiti in Italia, in “Democrazia e diritto”, 1-2/2012, pp. 125-54; M. Almagisti, La qualità della democrazia in Italia cit.

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