Terra, lavoro e cibo

Di Riccardo Iacona Venerdì 30 Novembre 2012 16:15 Stampa

Nonostante l’eccellenza del modello agricolo italiano e i primati che esso registra per quanto riguarda qualità, tipicità, salubrità delle produzioni, oltre che per il valore aggiunto generato per ettaro di terreno, negli ultimi dieci anni in Italia hanno chiuso 775.000 aziende agricole, pari al 32% di tutte le imprese agricole italiane registrate, mentre aumenta l’indebitamento di quelle attive. I terreni agricoli abbandonati, quelli non più coltivati perché non conviene, coprono una superficie grande quanto il Veneto. Questo sì, è un vero disastro.

Se si vuole capire quanto vale il made in Italy nella nostra industria alimentare bisogna andare nei principali porti italiani a giugno, quando in tutta Italia sta per cominciare la mietitura del grano. Noi di PRESADIRETTA l’abbiamo fatto l’anno scorso al porto di Bari, uno degli scali commerciali più grandi d’Italia, e abbiamo visto enormi navi scaricare giorno e notte grano che veniva da tutto il mondo, dal Canada, dall’Ucraina, persino dall’Australia, dopo un viaggio di due mesi e dopo aver navigato due oceani e costeggiato tre continenti. La nave in questione era lunga 200 metri e portava nelle sue stive 55.000 tonnellate di grano australiano, così tanto che ci sono voluti dieci giorni per scaricarlo tutto e 1500 autotreni per portarlo nelle industrie molitorie.

Le stesse scene si ripetono in tutti i porti del nostro paese, perché il grano che viene da fuori serve all’industria italiana, che lo trasforma in farina, e soprattutto serve all’industria che fa il prodotto più italiano del mondo: la pasta. Secondo gli industriali della farina, in Italia si consumano 5 milioni e mezzo di tonnellate di grano duro all’anno e se ne producono mediamente 3 milioni. Mancano quindi all’appello 2 milioni di tonnellate di grano, che è quello che importiamo. «L’Italia è deficitaria per un 40% di grano duro, quindi nella nostra pasta c’è un 60% di grano italiano e il restante 40% è grano che importiamo, perché, visto che qui non c’è, da qualche parte lo dobbiamo andare a pigliare ‘sto grano!». A parlare, con la sua rinomata schiettezza, è Francesco Divella, ex senatore, deputato di Futuro e Libertà in questo finale di legislatura, ma soprattutto il secondo produttore italiano di pasta, con 2 milioni di quintali di produzione l’anno, destinata ai mercati di tutto il mondo. I rappresentanti dei produttori di grano e degli agricoltori sono invece più pessimisti e sostengono che, mediamente, nella pasta non c’è più del 35% di grano italiano. «Io, se potessi avere grano italiano al 100%, tutto pugliese, perché dovrei dire di no? E che ce l’ho con gli agricoltori pugliesi? E che voglio la loro morte? No, se ci fosse metterei solo grano italiano nella mia pasta» si difende Francesco Divella, ribadendo quella che è la posizione ufficiale dell’associazione degli industriali della pasta: non c’è grano italiano a sufficienza e abbiamo bisogno del grano straniero se vogliamo rimanere il primo produttore di pasta al mondo.

Secondo gli agricoltori, invece, c’è una regia internazionale che muove il grano da tutto il mondo, di cui l’industria di trasformazione è complice e che ha un unico obiettivo: tenere il prezzo di vendita del grano il più basso possibile. Hanno torto gli agricoltori? Riflettiamo su quanto ha detto alla nostra giornalista Lisa Iotti, Stefano Serra, agente italiano della CHS, una grande multinazionale americana che si occupa di energia e cibo e che l’anno scorso ha fatturato 25 miliardi di dollari. Lisa Iotti l’ha incontrato alla Borsa Merci di Bologna, la borsa cereali più grande d’Italia, dove si decide il prezzo del grano. «In questo momento le multinazionali stanno comprando del grano duro italiano e lo stanno accumulando nei porti in vista di possibili aste nel Nord Africa, che daranno sicuramente un ottimo margine di profitto» ha esordito Stefano Serra, e Lisa Iotti è saltata sulla sedia. Ma come?! Finora ci avevano detto che in Italia non abbiamo abbastanza grano, che lo dobbiamo comprare per forza dall’estero e ora salta fuori che lo stiamo esportando in Nord Africa? «Le multinazionali non guardano all’autosufficienza di un paese» ha risposto Serra. «Le multinazionali pensano a far soldi. In questo momento ci conviene comprare il grano italiano, che è quello che costa meno al mondo, andare in Nord Africa, venderlo e farci un margine. Poi, quando sarà finito il grano italiano, lo importeremo in Italia dai paesi terzi. Esportare il grano di un paese deficitario è molto interessante, perché il prezzo è basso e perché si crea ancora più deficit, e alla fine saremo sempre noi a rivendere sul mercato italiano il grano che viene da fuori, a un prezzo ancora più basso». Ma chi decide il prezzo del grano? Ecco l’incredibile risposta di Stefano Serra: «Cinque multinazionali che controllano più o meno tutto il grano del mondo». «E non c’è rischio che facciate cartello?», gli ha chiesto Lisa Iotti. «Ad essere maliziosi sì; certo un po’ ci si guarda tra di noi per cercare di mantenere un regime di prezzi in linea, di non essere, cioè, proprio in aperta concorrenza». «Fate cartello, quindi?» lo aveva incalzato la giornalista di PRESADIRETTA. «Cartello? Insomma, sì. Si potrebbe anche chiamare così».

Avete capito che meccanismo infernale? Il grano italiano si vende a poco perché entra in concorrenza con il grano del mondo intero. Se ne produce così sempre di meno perché a quel prezzo non conviene coltivarlo. Aumenta quindi il deficit di produzione nazionale e aumentano i margini di manovra delle cinque multinazionali che decidono il mercato mondiale del grano, in una spirale in cui il prezzo non sale mai, semmai scende. Al mercato, a questo mercato, insomma, sta bene così, che l’Italia sia deficitaria nella produzione del grano perché in tal modo aumentano i profitti di chi muove il mercato, e va bene anche alle industrie di trasformazione del prodotto, che ottengono la materia prima al prezzo più basso possibile.

Va decisamente male, invece, ai produttori: «Ho 50 ettari a grano e sono il più miserabile di Santa Margherita. Dovrei essere un signore e invece sono indebitato fino all’ultimo capello!». Quasi gridano gli agricoltori di Santa Margherita del Belice che si sono riuniti sulla piazza principale, per una delle tante manifestazioni che, come i fuochi estivi, ormai si accendono ogni estate in tutte le piazze agricole d’Italia, dal Nord, passando per la Puglia, fino al Sud: Rovigo, Foggia, Vittoria e, appunto, la Valle del Belice. I contadini vanno a conferire il prodotto e il prezzo che ricevono in cambio del loro lavoro è come uno schiaffo in faccia. «Il grano l’abbiamo dato a 20 centesimi al chilo, una miseria» ci dice un giovane produttore. «Una brioche di gelato vale 10 chili di frumento, si rende conto? Ho addosso l’INPS, l’IRPEF, sono pieno di cartelle esattoriali. Una volta entravo in banca e venivo ricevuto e riverito, ora mi chiedono “cosa puoi dare in cambio?”. Io rispondo: “posso dare la mia produzione, l’uva e il grano”. “Non basta”, mi dicono. Non basta neanche il terreno come garanzia! Se il grano venisse pagato per il valore che ha, la faccia della Sicilia cambierebbe», continua. E fa quattro con- ti: «Qui, sul territorio margheritese, facciamo 50.000 quintali di grano duro all’anno. Se ci dessero non dico tanto, ma quello che ci hanno dato nel 2007, 40 centesimi al chilo, qui entrerebbero in circolo 2 milioni e duecentomila euro. Non stiamo parlando di cifre astronomiche, stiamo parlando di poco più di 2 milioni di euro. Ma quanto costa allo Stato la Cassa integrazione delle grandi industrie?».

Fanno i conti gli agricoltori della Sicilia e non si capacitano che il frutto del loro lavoro valga talmente poco da rendere persino non conveniente coltivare, seminare e raccogliere. «È uno spettacolo orribile questo che vedete, orribile!» ci dice Michele Gambino, uno dei più grandi proprietari terrieri della provincia di Agrigento mentre indica dalla collina i 200 ettari di terreno di sua proprietà, una volta tutti coltivati a grano e oggi abbandonati. «Questa è la fine che ha fatto il Granaio d’Italia, che ha dato da mangiare a mezzo mondo da duemila anni. Ma se non riusciremo a dare da mangiare ai nostri figli, nell’ipotesi di una crisi economica, voi pensate che le altre nazioni saranno disponibili a dividere gli alimenti con noi? Non si può consentire a chi fa cartello di distruggere una società agricola che produce ricchezza per la nazione!», conclude Gambino. Poi gira la testa e quasi si mette a piangere; sulla sua terra, infatti, non ci viene ormai più tanto è il dolore nel vederla abbandonata. Così i produttori di grano siciliano sono veramente gli ultimi della catena e gli ultimi della terra, perché non hanno alcuno strumento per contrattare meglio il prezzo del loro lavoro e della loro fatica e l’onda di povertà che si è abbattuta sul mondo dell’agricoltura ha trasformato quelli che una volta erano degli imprenditori in povera gente.

Povera gente che però, con il suo sudore, alimenta un mercato che non è povero per niente: solo l’industria della pasta fattura 4 miliardi e 300 milioni di euro l’anno, ed è un mercato in crescita. Ma è così in tutti i settori dell’agroalimentare. Attorno al pomodoro lavorano in Italia 178 industrie di trasformazione, per un fatturato di oltre 2 miliardi di euro all’anno, ma ai produttori arrivano 10 centesimi al chilo, mentre, precisamente come succede con le navi del grano, durante il periodo della raccolta, nei porti di Napoli e Salerno arrivano quintali di triplo concentrato di pomodoro cinese, con il quale le aziende di trasformazione fanno dumping sui prezzi. «Questi vogliono il pomodoro a costo zero!» si lamentano i produttori del foggiano. I pastori sardi, che alimentano un mercato internazionale di 25.000 quintali di latte di pecora all’anno che finiscono per la maggior parte negli Stati Uniti, ricevono dall’industria di trasformazione 60 centesimi al litro, l’equivalente delle 1200 lire che prendevano nel 1980, 32 anni fa! Lascio a voi fare il calcolo di quanto si sono nel frattempo moltiplicati i costi di produzione. Non c’è quindi da stupirsi se in Sardegna, nell’ultimo anno, sono più di 7000 le aziende che fanno pastorizia che hanno chiuso. Si tagliano i vigneti, i pescheti, si lasciano marcire i filari di pachino dentro le serre, perché con i 30 centesimi al chilo che ti dà il mercato non ci si paga neanche il concime. Così come avviene per il melone cantalupo, che ormai non compra più nessuno. Le arance sono rimaste sugli alberi, come i limoni. Stessa sorte per le albicocche. «Conviene non fare niente, almeno non si fanno debiti ». Questo è quello che dicono i produttori, che per risparmiare non danno neanche più l’acqua alle piante.

I terreni agricoli abbandonati in Italia negli ultimi anni coprono una superficie grande quanto il Veneto: 1.900.000 ettari, ed è un vero disastro. Incendi, erosione, frane e paesi semi abbandonati: questo è diventato in larga parte il paesaggio rurale d’Italia. Negli ultimi sette anni abbiamo perso 685.000 ettari di terreno coltivato a grano, terra oggi abbandonata, ma che se fosse stata coltivata avrebbe dato 2 milioni di tonnellate di grano all’anno, che è precisamente il quantitativo che importiamo ogni anno dall’estero. Fa rabbia, no? E fa ancora più rabbia se pensiamo che l’agricoltura quest’anno è stato l’unico settore in controtendenza, che ha fatto registrare un aumento del PIL (1,1%), mentre calano l’industria (−5,8%), le costruzioni (−6,5%) e i servizi (−1,1%). L’Istat ha stimato in circa 246 miliardi di euro, pari al 15,9% del PIL, le dimensioni economiche del sistema agroalimentare italiano. Una montagna di soldi e centinaia di migliaia di piccole, medie e grandi aziende, di cui 900.000 sono quelle che si occupano di agricoltura.

Secondo un recente rapporto di Coldiretti, «il modello agricolo italiano è vincente nel mondo, dove ha conquistato primati nella qualità, tipicità e nella salubrità delle produzioni, ma anche nel valore aggiunto per ettaro di terreno ovvero la ricchezza netta prodotta per unità di superficie dall’agricoltura italiana, che è praticamente il doppio di quella di Germania, Francia e Spagna e il triplo di quella inglese. Le produzioni italiane hanno poi il primato della sanità e della sicurezza alimentare (…), con un record del 99% di campioni regolari di frutta, verdura, vino e olio, con residui chimici al di sotto dei limiti di legge. L’Italia ha il maggior numero di imprese biologiche in Europa (quasi 50.000) che coltivano un milione di ettari di superficie bio. L’agricoltura italiana, che ha scelto di non coltivare OGM, vanta inoltre la leadership nei prodotti tipici con 244 prodotti a denominazione o indicazione di origine protetta riconosciuti dall’Unione europea, mentre sono 517 i vini DOCG, DOC e IGT riconosciuti in Italia. L’Italia, infine, vanta un paesaggio unico che – conclude Coldiretti – è meta di un crescente flusso turistico negli 871 parchi e aree protette presenti in Italia, che coprono ben il 10% del territorio nazionale». Non solo, secondo Coldiretti, in agricoltura nel 2012 c’è stato un boom di assunzioni, con un incremento record del 10,1%, in netta controtendenza rispetto all’andamento generale. Basterebbero già questi dati per capire che enorme risorsa rappresenti l’industria del cibo per il nostro paese.

Manca però la politica, che non è stata in grado di difendere il made in Italy. «A pesare negativamente sulla redditività dell’agricoltura italiana sono i bassi prezzi pagati alle imprese agricole per effetto dello strapotere contrattuale degli altri soggetti della filiera» ci dice Sergio Marini, il presidente di Coldiretti, che continua «ma anche per la concorrenza sleale dovuta alla mancanza di trasparenza nell’informazione ai consumatori, che permette di spacciare come made in Italy prodotti importati. Un deficit di giustizia nella filiera e di verità nei confronti dei consumatori reso possibile dalla mancanza della politica». Nel febbraio del 2010 il Parlamento italiano aveva approvato una importante legge che avrebbe dovuto obbligare i produttori a indicare sulla confezione l’origine delle materie prime dei prodotti messi sul mercato, ma l’industria agroalimentare italiana e di tutta Europa si è opposta e la pressione esercitata ha impedito al Parlamento europeo di varare la legge sulla etichettatura. Oggi vale solo per la carne fresca; per quanto riguarda gli altri prodotti, niente da fare. Eppure non c’è altra strada se vogliamo dare un futuro alle nostre campagne, porre fine allo strapotere dei monopolisti delle filiere alimentari e redistribuire con un po’ più di giustizia l’enorme ricchezza che nasce attorno ai prodotti della terra. In un mondo dove il problema è ancora quello della mancanza di cibo, acqua e terra per tutti, dove milioni di persone muoiono di fame e che, non ultimo, è oggetto di trasformazioni climatiche epocali, non ci possiamo permettere di lasciare la produzione, strategica, del cibo e la difesa della terra a cinque monopolisti e a qualche migliaio di speculatori nel mondo.

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