Pensioni e lavoro: la difficile integrazione dopo due decenni di riforme

Di Matteo Jessoula e Michele Raitano Mercoledì 24 Febbraio 2016 12:22 Stampa

Il sistema pensionistico italiano, oggetto di ripetute riforme e reiterati tentativi di razionalizzazione, presenta numerose criticità alle quali non sempre si guarda con la dovuta attenzione. In realtà l’ottimalità di qualsiasi schema pensionistico va valutata necessariamente alla luce dei rischi che emergono nei mercati. In particolare, la prolungata crisi economica, che sta erodendo e comprimendo i redditi ormai da troppi anni, sta rimettendo tutto in discussione: l’aumento degli inoccupati riduce il reddito complessivo e di conseguenza la parte di questo che alimenta tutte le tutele, comprese le pensioni. Inoltre, l’interazione tra le numerose riforme pensionistiche, da un lato, e la flessibilizzazione del mercato del lavoro, dall’altro, sollevano dubbi circa l’equità e l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici per le generazioni future.

Tradizionalmente vituperato per i timori di insostenibilità finanziaria, le iniquità intercategoriali e gli effetti redistributivi spesso perversi, dopo due decenni di riforme il sistema pensionistico italiano è oggi generalmente apprezzato – tanto nel discorso pubblico interno quanto nelle sedi europee e internazionali – come modello sostenibile finanziariamente ed “equo” sul piano attuariale.

Tuttavia, sul piano dell’adeguatezza delle prestazioni e dell’equità sostanziale i profili di criticità – e le conseguenti sfide per i policymakers – non mancano, se il modello pensionistico italiano viene osservato con riferimento: a) all’interazione con le dinamiche del mercato del lavoro, drammaticamente aggravatesi nell’attuale prolungata fase di Grande recessione; b) ai numerosi interventi legislativi (culminati con la riforma Monti-Fornero del 2011) che si sono succeduti dopo la cruciale riforma Dini del 1995, che introdusse, seppur con estrema gradualità, il metodo di calcolo contributivo in sostituzione di quello retributivo. Negli ultimi due decenni, infatti, tali provvedimenti hanno modificato il quadro sia del sistema pensionistico pubblico – agendo in primo luogo sui requisiti di accesso al pensionamento – sia degli schemi complementari a capitalizzazione, e non sempre, o meglio, raramente, le misure adottate si sono rivelate coerenti tra loro e con l’impianto definito nei primi anni Novanta. Una riflessione sullo stato del sistema pensionistico italiano appare perciò necessaria e deve prendere le mosse dalle regole definite dalla riforma Dini.

Mercato del lavoro e implicazioni del passaggio dal retributivo al contributivo Nel ragionamento su come si sarebbero modificate le tutele previdenziali con il passaggio alla formula contributiva, gli estensori della riforma del 1995 avevano come riferimento individui con carriere lavorative continue, salari “adeguati” e da lavoratori dipendenti, dunque con versamento di aliquota contributiva “piena”. Perciò, nella scelta dell’intervallo di età entro cui poter accedere al pensionamento (57- 5 anni) si ritenne all’epoca di offrire ai lavoratori la possibilità di ritirarsi a età più avanzate, con una limitata riduzione dell’importo della pensione rispetto al calcolo retributivo, ovvero di ritirarsi a età più precoci accettando una significativa riduzione attuariale della prestazione. Punto importante, in entrambi i casi il piano avviato con la riforma Amato del 1992 e rilanciato con la riforma Dini prevedeva il mantenimento di livelli elevati di pensione da raggiungersi tramite la combinazione di prestazioni pensionistiche pubbliche – di importo più o meno ridotto rispetto a quanto garantito dalla formula retributiva – e prestazioni complementari, erogate dai costituendi schemi a capitalizzazione, finanziati soprattutto tramite il versamento volontario del flusso (totale o parziale) annuo di TFR e una contribuzione aggiuntiva.

In realtà, il metodo contributivo non è altro che lo specchio di quello che accade ai lavoratori nel mercato del lavoro: carriere svantaggiate in termini di durata, salario e aliquote contributive implicano, proporzionalmente, una prestazione più bassa. Analogamente, in un’ottica aggregata, la riduzione del tasso di crescita economica – che influenza il tasso di rendimento applicato nel contributivo – o un più intenso invecchiamento della popolazione – che incide sul valore dei coefficienti di trasformazione per il calcolo delle pensioni – comportano una riduzione delle prestazioni per tutti i lavoratori di una determinata generazione.

Perciò, da un lato, l’introduzione del metodo contributivo può essere considerata un chiaro esempio di trasferimento dei rischi dalla collettività ai lavoratori assicurati. La formula di calcolo delle prestazioni non assicura infatti gli individui contro i rischi “economici” derivanti dall’eventuale instabilità/insuccesso dell’attività lavorativa e, a livello aggregato, contro il rischio “macroeconomico” e “demografico”.1 Dall’altro lato, in effetti, il rischio di ricevere prestazioni d’importo inadeguato non dipende dalla formula contributiva in sé, bensì dalla combinazione di regole attuariali con bassi tassi di crescita del PIL e un mercato del lavoro incapace di assicurare a molti lavoratori carriere soddisfacenti.

Una prima fonte di criticità consiste, pertanto, nell’evoluzione del mercato del lavoro italiano – di fatto imprevista nel 1995 – che ha registrato una notevole espansione della quota di lavoratori atipici a seguito di un’incisiva strategia di flessibilizzazione, avviata con la riforma Treu del 1997 e poi perseguita con maggiore decisione (legge 30/2003, riforma Fornero del 2012) fino al recente Jobs Act. A ciò si è accompagnata la sostanziale stagnazione dei livelli retributivi. Tale dinamica ha costretto sempre più individui, e specialmente i giovani, ai quali il metodo contributivo si applica integralmente, a trascorrere parte della carriera ricevendo remunerazioni modeste, sperimentando frequenti periodi di non lavoro – con nulle o limitate contribuzioni figurative per la scarsa inclusività del sistema di ammortizzatori sociali, almeno fino alle riforme più recenti – ovvero lavorando con contratti di collaborazione parasubordina- ta, caratterizzati fino ad anni recenti da aliquote contributive ridotte.2 In aggiunta alla limitata capacità del mercato del lavoro di garantire carriere stabili e remunerative, la stessa evoluzione delle regole pensionistiche con le riforme adottate dopo il 1995 si è mostrata spesso incoerente con il percorso delineato dalla riforma Dini, nonché con la traiettoria di riconfigurazione in senso multi-pilastro del sistema pensionistico nel suo complesso. Sin dalla riforma Maroni-Tremonti del 2004, infatti, si è eliminato uno dei pregi fondamentali del nuovo schema contributivo: l’età pensionabile flessibile, che comportava la libertà per i lavoratori di definire il “giusto” (a livello individuale) bilanciamento fra anni di lavoro e livello della pensione, entrando in quiescenza a età diverse. Più recentemente, la riforma del 2011 ha ripristinato l’età flessibile di pensionamento per i lavoratori integralmente soggetti al metodo contributivo. Tuttavia, tale modifica si è accompagnata a requisiti molto più stringenti di quelli originariamente previsti dalla riforma Dini e, soprattutto, alla scelta di concedere l’opportunità di accesso “anticipato” alla pensione – fino a un massimo di tre anni di anticipo rispetto all’età pensionabile “standard”– solo a quei lavoratori con prestazioni attese di livello medio-alto (superiori ad almeno 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale). Al contrario, i lavoratori che non raggiungessero un importo di pensione atteso pari ad almeno 1,5 volte l’assegno sociale saranno costretti ad attendere quattro anni oltre l’età standard di pensionamento prima di poter ricevere la pensione. Come si discuterà in seguito, requisiti di accesso al pensionamento basati sul livello della prestazione attesa sollevano alcune inedite e rilevanti criticità.

Tra l’altro, le criticità del legame fra dinamiche del mercato del lavoro e prospettive pensionistiche devono essere valutate sullo sfondo dell’attuale Grande recessione, che sta producendo gravi tensioni alle due estremità del mercato del lavoro italiano: tra i giovani, come drammaticamente noto, e con minore risonanza ma altrettanta serietà tra i lavoratori anziani. Infine, va richiamato che anche lo sviluppo della previdenza complementare è risultato meno rapido di quanto ci si attendeva all’inizio degli anni Novanta. Nonostante le misure d’incentivazione (anche fiscale) alla partecipazione ai fondi e alla devoluzione del TFR, la quota di lavoratori iscritti al complesso delle forme pensionistiche complementari è tuttora limitata – circa 7,1 milioni su oltre 23 milioni di potenziali iscritti3 – e tassi di partecipazione molto modesti si registrano fra i lavoratori giovani, che invece particolarmente necessiterebbero – secondo il piano lanciato con le riforme Amato e Dini – di un’integrazione della pensione pubblica.

Se il limitato sviluppo della previdenza complementare è imputabile a diverse ragioni che non possono essere approfondite in questa sede,4 va peraltro osservato un effetto paradossale delle riforme 2009-11, relativo al fatto che il forte innalzamento dell’età pensionabile comporta una modifica radicale delle prospettive dei lavoratori riguardo alla “necessità” della previdenza integrativa.

Infatti, in ragione dei meccanismi del metodo contributivo, chi dovesse riuscire ad avere carriere lavorative lunghe, non frammentate e con salari adeguati, raggiungerebbe tassi di sostituzione non dissimili da quelli che si potevano ottenere (pur a età pensionabili sensibilmente minori) con il metodo retributivo. Per tali individui il sistema pubblico offrirebbe dunque coperture elevate e l’integrazione privata non sarebbe più necessaria. Diverso è, invece, il caso di quegli individui che presentino, per lunga parte della vita lavorativa, carriere frammentate e poco remunerate. Tali lavoratori, anche ammesso che riescano a restare attivi fino alle età di pensionamento previste dalla riforma, rischiano di ricevere una pensione pubblica d’importo limitato, che necessiterebbe sì di un’integrazione da fonte complementare. Tuttavia, come mostrano i dati sulla partecipazione ai fondi pensione in Italia, i lavoratori con carriere intermittenti e svantaggiate tendono a non aderire alla previdenza integrativa per molteplici ragioni: la presenza di vincoli amministrativi sull’adesione ai fondi collettivi per i lavoratori atipici, l’assenza di TFR per i parasubordinati, maggiori oneri in termini di costi amministrativi e, soprattutto, l’esistenza di stringenti vincoli di liquidità per chi ha retribuzioni basse e/o contratti di durata limitata che portano a preferire avere a disposizione più risorse nell’immediato (o il “più liquido” TFR) che investirle per far fronte a esigenze future. Questo aspetto di interazione complessa tra riforme più recenti, dinamiche del mercato del lavoro, previdenza pubblica e previdenza complementare è praticamente assente nel dibattito pensionistico italiano e dovrebbe invece essere oggetto di attenta valutazione in un’ottica “sistemica”, cioè di costruzione di un sistema pensionistico sostenibile, ma anche adeguato, equo e dunque inclusivo.

Mercato del lavoro, requisiti di accesso al pensionamento ed equità del metodo contributivo

Il riferimento alla relazione tra regole previdenziali e mercato del lavoro fa da sfondo anche a ulteriori considerazioni che si concentrano su: a) il rapporto tra le nuove condizioni di accesso al pensionamento e le dinamiche occupazionali; b) l’equità del metodo contributivo, se osservata nella prospettiva di lavoratori con diversi profili di carriera e differenti aspettative di vita.

Sul primo versante, l’introduzione delle soglie d’importo della prestazione attesa per l’accesso al pensionamento appare problematica da due punti di vista. In primo luogo, perché comporta una violazione della logica del contributivo, metodo che ben si accompagna a requisiti di pensionamento flessibili, senza vincoli rispetto all’importo della prestazione, in ragione dei disincentivi al pensionamento precoce impliciti nell’applicazione di coefficienti di trasformazione variabili con l’età di quiescenza. In secondo luogo, perché le soglie d’importo producono un effetto regressivo. Sono infatti i lavoratori a reddito medio-alto, generalmente impiegati in lavori meno gravosi, con minor rischio di disoccupazione in età avanzata e caratterizzati, in media, da un miglior stato di salute, quelli che potrebbero effettivamente usufruire del pensionamento anticipato. Al contrario, la riforma Fornero vincolerà proprio gli individui caratterizzati da carriere meno favorevoli – e, dunque, più a rischio di disoccupazione da anziani, solitamente occupati in attività più faticose e, in media, con minore vita attesa5 – a posporre il ritiro non avendo raggiunto un importo di pensione tale da consentire il ritiro anticipato.

Più in generale, il cospicuo innalzamento dell’età pensionabile nel breve periodo, nonché l’aggancio automatico dei requisiti anagrafici e contributivi all’aumento dell’aspettativa di vita, entrambi previsti dalle riforme del 2009-11, stanno modificando radicalmente la relazione tra mercato del lavoro e sistema previdenziale, determinando una serie di sfide di fatto inedite. Una valutazione della coerenza complessiva del sistema pensio- nistico non può infatti prescindere da una riflessione approfondita su come il sistema produttivo italiano sarà in grado di offrire occupazione a una sempre crescente quota di lavoratori anziani. I dati più recenti mostrano alcune luci, come il continuo incremento del tasso di occupazione per i lavoratori nella fascia 55- 4 anni – dal 31,4% nel 2005 al 34,3% nel 2008, al 4 ,2% nel 2014 – accanto ad altrettante ombre, tra cui in particolare il repentino aumento del numero di disoccupati over 50, che dopo essere rimasto stabile e contenuto per circa quattro decenni è cresciuto da 130.000 a circa 4 .000 unità tra il 2007 e il 2014. Un fenomeno nuovo, quello dei disoccupati in età anziana, che richiede un’attenzione particolare e l’approfondimento del dibattito circa l’introduzione di forme più flessibili di pensionamento e di uno schema di reddito minimo per gli over 55, come suggerito dal presidente dell’INPS Boeri. Infine, gli esiti attesi dell’introduzione del metodo contributivo vanno necessariamente valutati rispetto al rapporto tra adeguatezza delle prestazioni, neutralità in senso attuariale ed equità. Il contributivo è infatti da molti ritenuto un sistema “equo”, poiché applica uno stesso tasso di rendimento per tutti gli appartenenti a una determinata coorte. Tuttavia, il concetto di equità attuariale – o, per meglio dire, neutralità attuariale – non va confuso con concetti di più sostanziale giustizia distributiva: chi ritiene che la tutela della vecchiaia debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo di contro-prestazione attuariale (senza nessuna forma, neppure minima, di redistribuzione o di tutele in qualche modo garantite) sta implicitamente accettando come “giusta” e immodificabile qualsiasi situazione critica o diseguaglianza che si crea nel mercato del lavoro. In realtà, le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, specialmente le molteplici e immotivate forme di diseguaglianza salariale e contrattuale fra i lavoratori, inducono a ritenere che molte delle differenze nelle storie lavorative individuali non siano il risultato di un “giusto” processo di mercato che debba necessariamente riflettersi anche negli importi pensionistici. Appare dunque opportuno soffermarsi sull’introduzione di strumenti che – senza stravolgere la logica contributiva, i cui pregi micro e macroeconomici non vanno trascurati – garantiscano tutela a chi, maggiormente esposto ai rischi di flessibilità e instabilità della relazione contrattuale e a livelli retributivi particolarmente modesti, rischia di ritrovarsi da anziano in condizioni di forte disagio economico pur essendo stato a lungo sul mercato del lavoro.6

Tra l’altro, si consideri che pensioni contributive d’importo molto limitato comporterebbero, per chi fosse costretto a integrarle con l’assegno sociale, modesti tassi di rendimento sui contributi versati (essendo l’erogazione dell’assegno sociale indipendente dalla storia contributiva degli individui), inficiando così gli stessi pregi del contributivo riguardo l’omogeneità dei rendimenti sui contributi versati e all’incentivo al versamento degli stessi.7

Infine, va ricordato che nel sistema contributivo, significativi flussi redistributivi impliciti, connessi alla differente mortalità dei sottogruppi della popolazione, sono inevitabilmente legati al meccanismo di calcolo dei coefficienti di trasformazione, basati sull’aspettativa di vita media della popolazione italiana.8 Tenuto conto che la letteratura è concorde nell’evidenziare come la longevità sia nettamente minore per gli individui con status socioeconomico più svantaggiato, il contributivo non solo riflette le differenze che si determinano nelle storie lavorative, ma finisce per amplificarle comportando ingenti flussi redistributivi regressivi. E, si noti, la regressività di questi flussi potrebbe risultare ulteriormente aggravata dal continuo irrigidimento dei requisiti per accedere al pensionamento, laddove l’aumento forzoso dell’età pensionabile svantaggiasse, in termini di condizioni di salute, soprattutto i lavoratori più fragili.

Alla luce delle considerazioni presentate in questo saggio appare, dunque, necessario continuare a interrogarsi sulle profonde interazioni fra sistema economico, mercato del lavoro e sistema previdenziale, dal momento che l’ottimalità di qualsiasi schema pensionistico va valutata necessariamente in risposta ai rischi che emergono nei mercati, anziché in astratto.9


[1] Si noti che anche gli schemi complementari delineati dalla riforma del 1993, basati anch’essi su formule “a contribuzione definita” attuarialmente neutrali, non prevedono alcuna condivisione del rischio fra gli iscritti e i gestori (o gli sponsor) dei fondi pensione.

[2] Sulle prospettive salariali e di carriera delle prime coorti di appartenenti al contributivo si veda M. Raitano, I primi anni di carriera: lavoro atipico, povero e bassa accumulazione contributiva. L’evidenza di un panel di lavoratori italiani, in “La rivista delle politiche sociali”, 2/2012.

[3] COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), La previdenza complementare. Principali dati statistici. Aggiornamento settembre 2015, Roma, dicembre 2015.

[4] A tale proposito si veda M. Jessoula, La politica pensionistica, il Mulino, Bologna 2009.

[5] R. Leombruni, A. d’Errico, M. Stroscia, N. Zengarini, G. Costa, Non tutti uguali al pensionamento: variazione nell’aspettativa di vita e implicazioni per le politiche previdenziali, in “Politiche Sociali”, 3/2015.

[6] M. Raitano, Criticità e problemi irrisolti della riforma previdenziale, in “La rivista delle politiche sociali”, 1-2/2013.

[7] A. Marano, Equità e adeguatezza del sistema contributivo. Problemi e possibili soluzioni, in “Politiche Sociali”, 3/2015.

[8] M. Raitano, I rischi dell’invecchiamento diseguale, in “Italianieuropei”, 5/2013.

[9] Questo articolo sintetizza alcune considerazioni contenute nel saggio M. Jessoula, M. Raitano, La Riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy. Un’introduzione, in M. Jessoula, M. Raitano (a cura di), La riforma Dini vent’anni dopo: promesse, miti, prospettive di policy, in “Politiche Sociali”, 3/2015.