Editoriale 1/2014

Di Italianieuropei Venerdì 17 Gennaio 2014 16:48 Stampa

Con l’elezione di Matteo Renzi a segretario del Partito Democratico si è aperta una stagione nuova della politica italiana. La grande partecipazione popolare alle primarie e il vasto consenso raccolto dal sindaco di Firenze offrono un’opportunità di riscatto democratico del paese, dopo un ciclo segnato dal declino economico e da una progressiva paralisi dello stesso sistema istituzionale.

Con l’elezione di Matteo Renzi a segretario del Partito Democratico si è aperta una stagione nuova della politica italiana. La grande partecipazione popolare alle primarie e il vasto consenso raccolto dal sindaco di Firenze offrono un’opportunità di riscatto democratico del paese, dopo un ciclo segnato dal declino economico e da una progressiva paralisi dello stesso sistema istituzionale.

Renzi è riuscito a intercettare e, a suo modo, a interpretare la diffusa domanda di cambiamento e la speranza di mettere finalmente alle spalle questa lunga crisi, con le sue sofferenze sociali e persino con quel senso di smarrimento, di paura, che ha fatto crescere l’insicurezza e indebolito le relazioni tra le persone. Renzi non è il solo a rappresentare questa spinta, che ha già portato nella politica un’inedita e impetuosa radicalità. I concorrenti sono forti e si esprimono, in Italia come in larga parte del continente, nelle forme di un populismo antipolitico e antieuropeo, che nessuno può permettersi di sottovalutare e che costituisce una minaccia per il futuro dell’Unione. Non è un caso che, sulla scia di Grillo, anche Berlusconi e la Lega stiano oggi cercando, dopo i clamorosi fallimenti di governo, di riconquistare consensi facendo leva su una sfiducia che si trasforma in rabbia e su parole d’ordine che evocano assai più la distruzione che l’innovazione.

Per questo la segreteria di Renzi e l’avvento di una nuova generazione alla guida del PD costituiscono una speranza, che può e deve mettersi al servizio di un rilancio dell’Italia sul piano economico, sociale, civile, democratico. L’opportunità però è legata alla responsabilità e alla capacità di affrontare a viso aperto questa sfida. È sbagliata e illusoria l’idea che, nella postmodernità, la politica si riduca a un conflitto di potere tra leader solitari, e al fondo intercambiabili. La leadership è sempre stata un valore aggiunto in una comunità politica. La sua forza comunicativa è ancor più oggi parte vitale di un progetto, oltre che condizione di efficacia. Ma il consenso verso un progetto deve poi tornare nella società in termini di fiducia, di partecipazione, di coinvolgimento nell’innovazione. Altrimenti il potere fine a se stesso diventa solo subalternità a una politica impotente, che delega fuori dalle istituzioni democratiche le scelte cruciali riguardanti la distribuzione delle ricchezze, dei diritti, delle opportunità.

Le prove del cambiamento vero per la nuova classe dirigente del PD sono allora la costruzione di una grande forza riformista radicata nel paese e, al tempo stesso, di un progetto di governo che dia all’Italia intera una prospettiva di ricostruzione e di sviluppo, in sintonia con il rilancio dell’Europa. Dalla fondazione del PD questi obiettivi sono stati, per varie ragioni, mancati. Ora tocca a Renzi mettersi al lavoro e cimentarsi nell’impresa. Anzitutto deve essere capace di unire il PD e di valorizzare questa unità tra diversi anche per rendere più credibile un’ulteriore apertura alla società e una più intensa partecipazione democratica. C’è chi lo consiglia di fare da solo, di governare per cooptazione, di dividere e marginalizzare chi non è d’accordo. Ma è una tentazione elitaria, che non ha mai ha portato bene nel campo riformista.

L’unità del PD è peraltro condizione di un nuovo radicamento nella società e di una rivitalizzazione del circuito democratico, oggi ostruito, spezzato. La transizione incompiuta del nostro paese ci ha condotto alle soglie di una paralisi del sistema. E più di altri in Europa rischiamo una vera e propria crisi democratica come conseguenza della crisi economica che ha lacerato il tessuto produttivo e la rete delle protezioni sociali. Dare vita, vitalità, a un partito nuovo è dunque parte essenziale del progetto di cambiamento della società e dello Stato. E questa è certamente una delle priorità del nuovo segretario, un terreno sul quale si misureranno le sue qualità di leader riformista. Perché, viceversa, l’idea di una politica senza partiti e senza corpi intermedi non può appartenere al campo progressista, essendo congeniale piuttosto al consolidamento delle oligarchie e delle tecnocrazie ora egemoni.

Se il partito è lo strumento sociale necessario, la finalità del cambiamento è un progetto di governo per l’Italia. Un progetto che guardi oltre le contingenze. E che concepisca il nostro paese come vettore di un’Europa rinnovata. È questa l’altra metà della sfida di Renzi. Siamo dentro un cambio d’epoca. I ritmi della globalizzazione si accelerano sempre più. E le politiche dell’Unione ci paiono quanto mai insufficienti, inadeguate. Ma l’innovazione, anche in questo caso, non è fuggire dal campo di battaglia. Non ci sarà salvezza per noi rinunciando all’Europa o tornando indietro dalla moneta unica. Semmai, ascoltando le sirene delle destre populiste, c’è il rischio di rompere la stessa unità nazionale. Il progetto di governo riformista deve tenere insieme il cambiamento profondo negli indirizzi delle politiche europee – orientandole finalmente alla crescita e compiendo quelle scelte di integrazione che completino il percorso avviato con l’Unione monetaria e bancaria – con politiche interne segnate da una riduzione delle diseguaglianze, da investimenti nella scuola e nella ricerca, da misure per il lavoro, da uno spostamento di risorse dalle rendite alle imprese innovative e produttive, da una nuova idea di pubblico, da strategie industriali orientate alla sostenibilità.

Con questo progetto il Partito Democratico dovrà presentarsi alle prossime elezioni politiche. Ma la responsabilità del nuovo segretario del PD sarà anche scegliere i tempi giusti affinché la prova elettorale consenta un passo avanti all’intero paese. Il governo Letta è ora sorretto da una maggioranza più ristretta nei numeri, ma potenzialmente più idonea a sostenere un programma concordato. La rottura con la destra berlusconiana, avvenuta per di più attorno a principi cardine dell’ordinamento, è un risultato politico importante che sarebbe sbagliato disperdere. È possibile oggi definire un programma di lavoro di un anno per realizzare alcune essenziali riforme elettorali, costituzionali e regolamentari. E al contempo è necessario definire un’agenda che comprenda interventi di consolidamento della ripresa e di sostegno all’occupazione, visto che i primi segnali positivi sul PIL non saranno in grado da soli di produrre nuovi posti di lavoro. Negoziare e definire un programma di riforme per il 2014 può dare così forza al governo anche per condurre al meglio il semestre di presidenza italiana dell’Unione, che deve essere per noi l’occasione per indicare e sostenere la svolta politica dell’Europa. Ma può servire anche al Partito Democratico per rafforzarsi in vista di quel banco di prova che saranno le prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

Imboccare una scorciatoia che porti al voto nella primavera del 2014, anziché nel 2015, rischia di essere invece una soluzione avventuristica. Innanzitutto perché la caduta immediata del governo Letta rimetterebbe in gioco Berlusconi, il che non corrisponde agli interessi del paese e rischia di farci perdere quella credibilità internazionale che abbiamo riconquistato. Per quanto fragile sia il gruppo parlamentare nato dalla rottura con Forza Italia, è indubbio che il paese abbia bisogno di una destra costituzionale ed europea e che questa assenza abbia pesato come una zavorra nel ventennio trascorso. L’opera di ricostruzione del tessuto democratico della nazione non può uscire dalla visione del leader del PD. Perché non è un capitolo separato del programma di governo: è la condizione affinché l’ambizione di governare acquisti senso per il paese e non si riduca alla conquista di un potere.

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