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La responsabilità di protezione dell'ONU

Di Lunedì 02 Maggio 2005 02:00 Stampa

«Riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza di diritti di uomini e donne e delle nazioni piccole e grandi». A qualcuno forse queste parole non suonano familiari; ma figurano nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite. Si tratta di un testo che non si limita a formulare una missione, ma è legge internazionale, un trattato internazionale, autenticamente inteso a essere universalmente applicabile. Ma ad un’osservazione più attenta emerge una contraddizione in queste parole. La Carta specifica infatti i diritti dell’individuo, citando però al tempo stesso anche quelli delle nazioni.

«Riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza di diritti di uomini e donne e delle nazioni piccole e grandi».

A qualcuno forse queste parole non suonano familiari; ma figurano nel preambolo della Carta delle Nazioni Unite. Si tratta di un testo che non si limita a formulare una missione, ma è legge internazionale, un trattato internazionale, autenticamente inteso a essere universalmente applicabile.

Ma ad un’osservazione più attenta emerge una contraddizione in queste parole. La Carta specifica infatti i diritti dell’individuo, citando però al tempo stesso anche quelli delle nazioni.

Ed è per l’appunto l’antinomia esistente tra diritti umani e la sovranità nazionale a rivestire un ruolo centrale nel dibattito sulla responsabilità di protezione mondiale, quando un dato governo non può o non vuole salvaguardare la vita dei propri cittadini.

Nel VII Capitolo, la Carta delle Nazioni Unite autorizza il Consiglio di Sicurezza ad accertare l’esistenza di una minaccia alla pace, e a decidere se sia il caso di entrare in azione, e in che modo, per il ripristino della pace e della sicurezza. Oggi è più agevole richiamarsi a questo testo per affrontare uno spettro di situazioni di crisi più ampio che ai tempi dell’istituzione dell’ONU. Ma gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno dimostrato finora scarsa volontà di invocare la sua autorità e di reperire le risorse necessarie per porre fine a situazioni di genocidio che non avessero un impatto diretto sui loro interessi di sicurezza, intesi nel senso più ristretto del termine. E a causa di questa reticenza, milioni di uomini, donne e bambini hanno perso la vita.

È accaduto in Cambogia, in Nigeria, in Etipia, in Somalia, in Bosnia-Erzegovina. E solo dieci anni fa è accaduto in Ruanda – l’esempio forse più sconvolgente di latitanza della comunità internazionale da una generazione.

Eppure, circa 45 anni fa gli Stati membri dell’ONU diedero la loro specifica approvazione a una Convenzione per la prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio L’aspetto più importante di questa Convenzione è l’obbligo, per tutti gli Stati firmatari, di prevenire atti di genocidio, così come di punire i responsabili delle stragi.

Tutto ciò è ammirevole sul piano dei sentimenti. Purtroppo, a fronte dello sforzo richiesto da un’azione efficace per fermare un genocidio o reprimere altre violazioni di massa dei diritti umani, spesso gli interessi nazionali continuano a prevalere.

Alcuni Stati – quali la Cina, che non ha certo le carte in regola in fatto di diritti umani – temono ad esempio che un’azione vigorosa della comunità mondiale in Sudan possa costituire un precedente per altri interventi negli affari interni di uno Stato in difesa dei diritti umani.

I governi di altri Stati (tracci quello americano) si sono mostrati riluttanti a impegnare le considerevoli risorse e i contingenti di truppe necessari per porre fine ai massacri.

Troppe volte l’azione dell’ONU contro il crimine di genocidio è stata frenata da questa mancanza di coerenza politica, assai più che da incertezze di tipo giuridico.

Ed è per questo che non un solo individuo – neppure uno – è mai stato perseguito per il genocidio degli anni 1970, che ha causato la morte di 1.700.000 cambogiani.

Con un simile precedente, come stupirsi che la Convenzione non abbia il minimo effetto deterrente sul governo sudanese, che persiste nella sua azione genocida a Darfur?

La questione di fondo riguarda indubbiamente la volontà della comunità mondiale di intervenire militarmente per tutelare la popolazione civile, che rappresenta l’elemento determinante per poter fermare un’azione genocida.

Ma conta anche l’aspetto giuridico: lo sviluppo di una normativa che dia piena attuazione al Capitolo VII della Carta dell’ONU, incoraggiando o anche obbligando la comunità internazionale a intervenire per salvare vite umane, non solo faciliterebbe l’azione degli Stati correttamente orientati, ma costituirebbe inoltre un mezzo di pressione, in ragione dell’aspettativa di un’azione di forza.

Nello sviluppo di una tale normativa, a volte fattori quali l’opinione pubblica, la politica, così come il nostro concetto di etica in costante evoluzione, possono avere un ruolo non meno importante delle opinioni dei giuristi, e più in generale delle basi tradizionali del diritto consuetudinario internazionale. Viviamo in un’era fortemente influenzata dalle tecnologie, che oltre a contribuire alla globalizzazione dell’economia mondiale hanno influito sulla nostra sensibilità a fronte delle iniquità.

Tutto ciò contribuisce a creare un nuovo paradigma in ordine alla responsabilità mondiale di salvare vite umane fermando i massacri. E comporta un nuovo impegno: quello di stabilire la possibilità di un intervento in una serie di circostanze, da definirsi in termini molto restrittivi.

Gli interventi dell’ONU in Sierra Leone e a Timor Est, per quanto tardivi e pianificati in modo inadeguato – con il dispiegamento di truppe nel giro di qualche giorno o di qualche settimana – costituiscono comunque un passo di grande rilievo rispetto all’indifferenza dimostrata invece nel caso del Ruanda.

Il fattore primario che ha consentito questi interventi non è l’esistenza di un testo giuridico scritto (infatti, sulla legalità dell’azione della Nato in Kossovo si era sviluppato un aspro dibattito); a renderli possibili è stato soprattutto il nostro fondamentale senso etico che ha legittimato l’azione dell’ONU.

Si pone comunque il problema di come sviluppare ulteriormente la normativa in proposito, portando avanti il discorso della responsabilità di protezione nell’alveo del diritto internazionale. La Commissione speciale HLP TCC, High Level Panel on Threats, Challenges and Change (Commissione ad alto livello sulle minacce, le sfide e il cambiamento), istituita da Kofi Annan, ha reso noto il suo rapporto sulla necessità di riformare le Nazioni Unite. I media hanno focalizzato la loro attenzione soprattutto sulla proposta di allargamento del Consiglio di Sicurezza. Ma un altro aspetto del rapporto della Commissione, di rilievo non minore, è l’invito all’ONU e ai suoi Stati membri ad accettare le rispettive responsabilità in ordine alla protezione dei civili esposti al rischio di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale.

In larga misura, le proposte avanzate si fondano sullo sforzo realmente innovatore compiuto dalla Commissione internazionale sugli Interventi e la Sovranità degli Stati. Si tratta di un organismo istituito nel 2000 dal governo del Canada in risposta a un appello del segretario generale dell’ONU, presieduto da Gareth Evans, già ministro degli Esteri e Ministro della giustizia australiano, e dal diplomatico algerino Mohamed Sahnoun, che ha al suo attivo una lunga esperienza di lavoro all’ONU.

Questa Commissione si è sforzata di conciliare il rispetto dei diritti sovrani degli Stati con la responsabilità della comunità internazionale ad agire in caso di violazioni massicce delle norme umanitarie. I suoi membri hanno scelto di non focalizzarsi unicamente sulla questione del diritto o delle prerogative di un’ingerenza dall’esterno, ma di riformulare l’intero problema sottolineando anche le responsabilità inerenti alla sovranità, così come i diritti dei governati. Hanno osservato in particolare che la sovranità di uno Stato comporta non solo il diritto di non subire interferenze, ma anche una serie di responsabilità: prima tra tutte quella di salvaguardare la vita dei propri cittadini. La definizione di queste responsabilità fa riferimento al testo della Carta dell’ONU sui diritti umani, alla responsabilità del Consiglio di Sicurezza in ordine al mantenimento della pace e della sicurezza, nonché all’insieme degli strumenti creati nel campo dei diritti umani dalla fine della seconda guerra mondiale, le cui norme fondamentali sono accettate come diritto consuetudinario internazionale.

Ma come comportarsi qualora uno Stato non possa o non voglia impedire che i suoi cittadini siano vittime di uccisioni di massa? In tal caso – argomenta la Commissione – il resto del mondo, ossia la cosiddetta comunità internazionale, ha la responsabilità di agire.

Per vari membri della Commissione, la questione dell’autorità di intervenire riveste un’importanza cruciale, in quanto è legata al problema chiave della legittimità. Ma qualora si creda necessario intervenire, in che modo l’intervento dovrebbe essere autorizzato?

La forma principale di legittimazione è data dall’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza: su questo non sussistono dubbi. Qualcuno potrebbe anzi leggere la recente relazione della Commissione dell’ONU come un appello a non intervenire senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza. Di fatto però un intervento potrebbe raggiungere un grado relativamente elevato di legittimazione anche per vie diverse, quando ad esempio il Consiglio di Sicurezza si dimostri incline ad accettare l’azione e altri fattori denotino l’esistenza di un forte sostegno internazionale.

In Liberia ad esempio, la legalità dell’intervento organizzato e guidato dall’ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), e approvato dal Consiglio di Sicurezza solo a cose fatte, non è stata messa in discussione. Per quanto riguarda il Kossovo, tutti gli Stati della NATO hanno appoggiato l’intervento autorizzato dal voto del Consiglio Atlantico.

Chiaramente, il Consiglio di Sicurezza non aveva avallato quest’azione, ma non l’ha contrastata; e quel che forse più conta, i suoi membri non hanno voluto forzare un confronto in sede di Consiglio.

La Commissione ha inoltre prospettato possibilità di suffragare la legittimità di un intervento finalizzato a porre fine a un massacro o a prevenirlo – con l’approvazione del Consiglio di Sicurezza o su una base diversa – improntando l’azione a una serie di criteri «cautelativi» che dovrebbero caratterizzare questi interventi. Il loro obiettivo primario deve essere quello di far cessare o di evitare sofferenze umane.

L’intervento militare andrebbe preso in considerazione come ultima risorsa; dovrebbero esistere ragionevoli motivi per concludere che interventi più blandi sarebbero destinati a fallire; l’uso della forza dovrebbe essere limitato al minimo necessario per assicurare il conseguimento dell’obiettivo; e infine dovrebbero esistere ragionevoli prospettive di raggiungere lo scopo perseguito.

Come accennato, la Commissione ha concentrato la propria attenzione sulle questioni dell’autorità e dei principi cautelativi per stabilire la legittimità internazionale di un intervento finalizzato a salvare vite umane. A chi sospetta che questa nuova dottrina possa essere utilizzata dagli Stati più potenti come pretesto per giustificare qualunque tipo di intervento militare, la Commissione può rispondere che per essere legittimato, un intervento dovrebbe corrispondere in ogni caso ai criteri di senso comune sopra elencati.

A questo proposito è opportuno introdurre una digressione per sottolineare che molto probabilmente il comportamento degli USA in Iraq ha pregiudicato gli sforzi in direzione di una normativa a fondamento della responsabilità di protezione.

Come si ricorderà, in alcune fasi – in particolare quando è venuta a meno la motivazione della necessità di eliminare le armi di distruzione di massa irachene – il presidente Bush e altri esponenti della sua amministrazione hanno addotto ragioni umanitarie per giustificare la guerra in Iraq.

Ora, comunque si giudichi la decisione di impegnarsi in questa guerra, è chiaro che nel caso dell’invasione dell’Iraq non può essere invocato né il principio della «giusta autorità», né la serie dei principi «cautelativi» indicati dalla Commissione.

Basti un solo esempio chiave: neppure il Segretario di Stato Powell, nel suo discorso del 2003 all’ONU, ha cercato di sostenere che lo scopo principale dell’intervento fosse quello di far cessare sofferenze umane o di prevenirle.

Il problema è che ovviamente, usando a posteriori il linguaggio dei diritti umani e dell’intervento umanitario per giustificare un’azione non rispondente ai criteri della Commissione, l’amministrazione Bush convalida la posizione di chi si oppone alle nuove norme, per il timore di offrire agli Stati più forti un pretesto per rovesciare qualunque regime che non abbia il loro gradimento.

Ecco perché i tentativi di giustificare la guerra in Iraq in termini umanitari hanno forti probabilità di pregiudicare gli sforzi in atto per dotare di una valida base normativa i futuri interventi volti a salvare vite umane.

Tuttavia, a mio parere, anziché limitarci a deplorare quanto è avvenuto in Iraq, dovremmo chiederci cos’altro si possa fare per promuovere le nuove norme destinate a incoraggiare gli Stati ad agire per fermare le stragi.

A Kofi Annan va riconosciuto il merito di essersi fortemente impegnato a promuovere gli sforzi per accertare a livello mondiale la capacità e la volontà degli Stati di dare una risposta alle crisi umanitarie.

Questi sforzi sono stati portati avanti con la costituzione, nel 2000, di un gruppo di esperti di peacekeeping al massimo livello, così come attraverso una serie di dibattiti all’Assemblea generale, in particolare nel 1999 e nel 2000, e infine con la presentazione del rapporto della Commissione HLP TCC. Anche gli Stati membri si sono impegnati in questo dibattito, e le risposte più vigorose – seppure tardive – alle crisi nei Balcani, nell’Africa occidentale e a Timor Est testimoniano di un certo progresso.

A questo riguardo, gli Stati membri dell’ONU hanno avviato, quanto meno, alcune riforme nell’attuazione del peacekeeping, anche per quanto attiene alla capacità dell’ONU di dare una risposta alle situazioni di crisi.

Ma c’è ancora molta strada da fare. Il Segretario Generale ha designato un nuovo Consulente Speciale per i casi di genocidio, che può avere accesso diretto al Consiglio di Sicurezza e far sì che davanti alle crisi gli Stati membri non possano defilarsi con troppa facilità. Persino l’Amministrazione Bush si sta muovendo in questo senso: ha creato infatti un nuovo ufficio del Dipartimento di Stato per la gestione della politica di ricostruzione e stabilizzazione degli Stati Uniti.

Si registra, insomma, qualche progresso. Ma c’è ancora moltissimo da fare.

Sappiamo ad esempio che quanto più il principio acquisterà carattere di norma, tanto più facilmente il Consiglio di Sicurezza e gli Stati membri dell’ONU potranno essere convinti ad agire per bloccare una strage o per prevenirla.

Inoltre, qualora la norma fosse largamente accettata, l’inazione del Consiglio di Sicurezza sarebbe di minore ostacolo all’iniziativa degli Stati disposti ad agire per salvare vite umane. Non si tratta solo di una teoria: al momento attuale non ci si aspetta che il Consiglio di Sicurezza autorizzi un’azione in Sudan, benché probabilmente in questo caso sarebbe necessario intervenire.

Se il principio della responsabilità di protezione fosse largamente accettato, alcuni Stati – ad esempio la Cina – avrebbero maggiori difficoltà a opporsi al consenso del Consiglio di Sicurezza; e se anche lo facessero, probabilmente la loro opposizione non inciderebbe sulla legittimità dell’intervento.

Qual è dunque la strategia migliore per promuovere il sostegno a questo principio? Servono pressioni per far accettare al Consiglio di Sicurezza, all’Assemblea generale e in altre sedi – eventualmente anche nel quadro di una nuova Convenzione – il principio della responsabilità di protezione. Qualcuno potrebbe sicuramente obiettare che il mancato successo di un’iniziativa lanciata in questa direzione pregiudicherebbe tutto il processo di elaborazione normativa.

Esiste però un altro argomento, che a mio parere è il più forte di tutti: chi crede in un principio deve cercare di portarlo avanti con il massimo impegno possibile, in tutte le possibili sedi. È questo il modo per creare un vero consenso. E visto che si tratterà di stabilire in quali casi si debba ritenere legittimo l’intervento della comunità internazionale negli affari interni di uno Stato, avremo bisogno di costruire su questo tema un consenso quanto più duraturo possibile.

Come arrivare a questo consenso globale sul principio della responsabilità di protezione? Come costruire questo consenso, per poter dare risposte efficaci alle crisi umanitarie, e non permettere nuovamente agli Stati del mondo di alzare le spalle e trovare facili scappatoie?

A iniziare deve essere il paese guida, che è l’America.

In primo luogo, e in collaborazione con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) gli Stati Uniti devono sostenere – e ottenere – una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che riconosca chiaramente non solo la responsabilità di ogni nazione di proteggere i propri cittadini, ma anche quella di prevenire qualsiasi atto di genocidio ai loro danni. E che affermi – in caso di inadempienza – la responsabilità di altri Stati di passare all’azione. Una risoluzione nel senso sopra descritto accrescerebbe le probabilità che in futuro il Consiglio di Sicurezza autorizzi gli interventi.

Inoltre, l’esistenza di questa convalida a priori conferirebbe maggiore legittimità anche agli interventi non specificamente autorizzati dal Consiglio di Sicurezza.

In secondo luogo, è necessaria una risoluzione nello stesso senso in sede di Assemblea generale. Il Canada ha suggerito una risoluzione che ridefinisca le responsabilità degli Stati sovrani – sulla falsariga delle proposte della Commissione internazionale sugli Interventi e la Sovranità degli Stati – ponendo l’accento non solo i diritti, ma anche sulle responsabilità inerenti alla sovranità. In terzo luogo, è tempo di prendere in considerazione una nuova Convenzione, a completamento del contributo dato dalla Conferenza sul Genocidio, che verta su una gamma più ampia di temi – non solo gli eccidi ma anche altri abusi di massa contro i civili – e prenda in considerazione un raggio non limitato dell’azione penale a posteriori, ma complessiva e preventiva.

Quarto: dobbiamo riconoscere che in pratica e a lungo andare, saranno le organizzazioni regionali ad avere più capacità e disponibilità a porre in atto interventi collettivi per salvare vite umane.

Ma non possiamo limitarci a delegare la responsabilità agli attori regionali. Dobbiamo fare di più, in particolare in un continente come l’Africa, che è anche l’area più colpita da questo tipo di crisi. Alle organizzazioni regionali dobbiamo fornire il sostegno politico, l’addestramento, l’equipaggiamento, le strutture logistiche, e assicurare finanziamenti sostenibili, nella misura richiesta dai compiti che dovranno affrontare.

Quinto ed ultimo: a settembre gli Stati membri dell’ONU si riuniranno a New York per un incontro al vertice, finalizzato all’esame di alcune questioni cruciali che i governi del mondo si trovano ad affrontare. E prenderanno in considerazione, tra l’altro, i risultati del lavoro della Commissione HLP TCC. Per gli Stati membri favorevoli al principio della responsabilità di protezione, sarà l’occasione ideale per arrivare alla convalida e all’attuazione di questi obiettivi.

Nel caso del Darfur, quale utilità avrebbero avuto queste riforme per evitare sofferenze agli uomini, alle donne e ai bambini? Esse sarebbero state d’aiuto essenzialmente in tre modi: Primo: molto probabilmente la prospettiva di un intervento armato, autorizzato dell’ONU, volto a per prevenire il genocidio, avrebbe convinto il governo di Karthoum a desistere dalla sua attuale politica. Secondo: l’esistenza di una norma a fondamento della responsabilità di protezione, codificata nel diritto internazionale, avrebbe accelerato l’esame dell’opportunità di un intervento autorizzato dal Consiglio di Sicurezza e dagli organismi regionali. Terzo: un meccanismo di finanziamento, con la mediazione dell’ONU, avrebbe consentito all’Unione africana di agire più rapidamente e a più ampio raggio di quanto abbia fatto finora.

Questo è quanto possiamo e dobbiamo fare.

Ciò che invece non dovremo fare mai più è comportarci come hanno fatto recentemente gli Stati Uniti: all’inizio dello scorso autunno il Segretario di Stato Colin Powell ha denunciato davanti al Congresso il genocidio in atto e le colpe del governo di Darfur, salvo poi non fare niente per fermarlo. Ciò che va fatto – a livello sia nazionale che globale – è dare un chiaro avvertimento: in altri termini, far sapere che in caso di genocidio saremo pronti a intervenire.

Se la legge conferisce dei diritti, comporta anche alcune responsabilità.

In passato si riteneva generalmente che gli USA, al pari di altre nazioni, avessero l’obbligo di intervenire soltanto quando fossero in gioco i loro interessi strategici, nel senso più restrittivo del termine.

L’Amministrazione Clinton aveva attuato, a Haiti, nei Balcani, a Timor Est e altrove, alcune iniziative pilota improntate a principi umanitari. Ma in quelle aree, e soprattutto in Ruanda, quegli sforzi si sono dimostrati insufficienti. Quanto all’Amministrazione Bush, il più delle volte il richiamo a preoccupazioni umanitarie è apparso come un pretesto, e non come il vero obiettivo degli interventi. Lo dimostra chiaramente la scelta di intervenire in Iraq, ma non in Sudan.

Sappiamo bene che nulla garantisce il buon esito di un intervento, per quanto guidato dalle migliori intenzioni. E sarebbe superfluo ricordarci l’entità dei rischi. Basti citare l’esempio della Somalia, dove diciotto marines sono stati uccisi, e i loro corpi trascinati per le strade.

Sappiamo anche che altri ostacoli possono rendere estremamente difficile un’azione efficace e tempestiva. Ad esempio, all’epoca del genocidio in Ruanda, nell’aprile e nel maggio 1994, l’attenzione dei responsabili della sicurezza a livello di governo era concentrata sulla crisi di Haiti e su quella dei Balcani. Non ci si è resi subito conto delle dimensioni del genocidio ruandese. Per di più, all’indomani dell’esperienza negativa in Somalia, le difficoltà politiche e logistiche di un’operazione di soccorso apparivano insormontabili.

Al momento attuale, dato l’impegno del nostro apparato militare su vasta scala in Afghanistan e in Iraq, qualunque presidente avrebbe un margine di opzioni molto ristretto per l’eventualità di un supporto USA a un’operazione in Sudan. Ma nel caso del Ruanda, gli Stati Uniti e il mondo intero sono rimasti con le mani in mano d a vanti all’eccidio di quasi un milione di persone.

Probabilmente la nostra Sicurezza nazionale non era messa in pericolo da quella strage. Ma lo era la nostra umanità.

Qualche tempo fa da un ruandese, Anastase Ndagijumana, incontrò un ospite venuto a visitare una fossa comune scavata accanto alle rovine di una scuola, ove erano sepolti 15 suoi familiari. Dopo aver sostato a capo chino davanti alla fossa, Anastase disse al visitatore: «Capisco perché non siete venuti in nostro aiuto. Il Ruanda è molto lontano». Anche il Sudan è molto lontano. Ma la crisi di Darfur si aggrava sempre più, e il mondo deve fare una scelta.

Possiamo scegliere di stare a guardare, o di minacciare a vuoto un governo che rifiuta di porre fine alle violenze. Oppure possiamo agire oggi in Sudan per salvare vite umane, corroborando al tempo stesso un precedente che potrebbe salvare altre vite in futuro.1

 

 

Note

1 L’articolo è tratto dalla conferenza che l’autore ha tenuto il 6 dicembre 2004 alla facoltà di legge di Yale, nell’ambito dello «Yale Harper Fowler Fellow Lecture».

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