Il futuro dei giovani: diritto oltre la crisi e poi svoltare a sinistra

Di Alessandro Rosina Lunedì 16 Gennaio 2012 12:39 Stampa

Oggi più che mai l’Italia deve puntare sulle nuove generazioni, vera risorsa strategica per la crescita. Nessun cambiamento è realizzabile senza il loro contributo, e del resto le cronache recenti ne testimoniano il ritrovato desiderio di partecipazione. Il paese ha bisogno di politiche coraggiose e obiettivi misurabili, perché le radici del futuro stanno nel presente.


Crisi di fiducia

Si sente spesso dire che i giovani italiani sono senza futuro. Non è del tutto esatto: il futuro c’è, prima o poi implacabilmente arriva. La questione vera è semmai la qualità del futuro. Domani possiamo star peggio di oggi, non c’è nessuna legge di natura che lo impedisca, c’è solo l’azione politica e sociale che può rendere più o meno probabile un generale scadimento del benessere e delle opportunità. Le radici del futuro stanno nel presente; chi non prepara bene il terreno oggi e non semina con cura non può pretendere di raccogliere buoni frutti domani. Questo vale sia per i singoli che per il sistema paese.

È allora un dato di fatto che da troppo tempo in Italia non si semini bene, non si investa come si dovrebbe sulle nuove generazioni. L’Italia malata di bassa mobilità sociale e scarsa crescita economica del primo decennio del XXI secolo è infatti il coerente ritratto di un paese che non è stato in grado di predisporre e offrire adeguati strumenti di protezione, promozione e partecipazione per i giovani. La crisi economica è poi arrivata come pioggia, anzi tempesta, che cade sul bagnato. Non bastava essere uno dei paesi europei con la più bassa occupazione degli under trenta, abbiamo anche fatto in modo che la recessione colpisse maggiormente le opportunità delle nuove generazioni.

I giovani hanno quindi oggi buoni motivi per indignarsi, ci si è anzi chiesti perché le nuove generazioni siano rimaste remissive così a lungo, accettando una innaturale subalternità politica e culturale. In una prima fase, il progressivo deteriorarsi delle proprie condizioni e delle opportunità ha prodotto, prima ancora che istanze di protesta, una erosione del credito di fiducia verso il sistema dei partiti. Chi ora ha tra i trenta e i quarant’anni appartiene a una generazione, indicata non a caso con la lettera “X”, adolescente negli anni Ottanta, convinta che l’Italia facesse parte delle economie più avanzate, con un solido processo di crescita e in grado di offrire ampie prospettive a chi arrivava ai livelli più elevati della formazione. Quando tale generazione si è affacciata al mercato del lavoro, dalla seconda metà degli anni Novanta in poi, ha trovato uno scenario completamente diverso.

Nel corso degli ultimi anni l’insoddisfazione si è trasformata via via in insofferenza. Sempre più giovani laureati hanno preso la via dell’estero, vivendo spesso tale scelta proprio come protesta nei confronti di un paese che, dopo averli formati, non risulta in grado di valorizzare adeguatamente il loro capitale umano. I dati Eurostat dicono che presentiamo oggi tra i più bassi tassi di occupazione in Europa degli under trenta, ma a essere bassa è soprattutto la partecipazione dei laureati, inferiore di venti punti rispetto alla media europea nella classe di età venticinque-ventinove anni.

Ma se la situazione degli attuali under trenta è ulteriormente peggiorata, è anche vero che nel frattempo si è prodotta una mutazione antropologica nelle nuove generazioni. I ventenni di oggi non fanno più parte della “generazione X”. Negli ultimi anni un numero crescente di ricerche internazionali ha messo in evidenza come si stia affacciando all’età adulta una nuova coorte che ha caratteristiche di discontinuità con le precedenti. Sono gli attuali under trenta, indicati come “generazione Y” o “Millennials”. Si tratta di coloro che non avevano ancora la maggiore età quando è iniziato il XXI secolo. Essi non hanno diretta memoria di com’era il mondo prima della caduta del muro di Berlino, di come si viveva senza cellulari, senza internet, senza voli low cost. È cambiato il modo di vivere, informarsi e relazionarsi e i Millennials sono consapevoli di essere i più diretti interpreti di questi mutamenti, i più attrezzati per incarnare il nuovo spirito dei tempi.

Studi condotti in vari paesi indicano inoltre come possiedano una spiccata identità generazionale, su livelli analoghi ai baby boomers. I giovani attuali riconoscono il loro tratto comune soprattutto nell’uso delle nuove tecnologie, che considerano vitali come l’aria che respirano. Domina inoltre una visione positiva del proprio ruolo: la grande maggioranza è convinta infatti che potrebbe dare un contributo attivo per migliorare il paese se potesse avere spazio e opportunità adeguati. Ma come costruire tali condizioni?


Conoscere davvero la realtà dei giovani

Un paese che vuole promuovere le competenze e le capacità delle giovani generazioni – al fine di metterle al servizio di un solido modello di crescita e sviluppo – ha bisogno prima di tutto di conoscerne specificità e caratteristiche.

In Italia abbiamo una inflazione di piccole indagini occasionalmente condotte sui giovani dai più disparati centri o istituti, spesso finalizzate soprattutto a trovare spazio sui media sfruttando un tema di moda, ma incapaci di produrre solida conoscenza sulla realtà delle nuove generazioni. In gran parte dei paesi più avanzati a questa esigenza si risponde con vaste indagini longitudinali che permettono di seguire nel tempo i percorsi di vita delle persone, rilevando in modo dinamico aspettative, intenzioni e comportamenti. Che consentono di capire come cambia il sistema di vincoli e opportunità nella transizione alla vita adulta, come i giovani orientano le proprie scelte e con quali esiti. Questi stessi dati sono inoltre cruciali per valutare l’effetto delle policies e decidere se e come ricalibrare l’azione. In assenza di essi ci si muove sostanzialmente alla cieca. Si rischia in particolare di non comprendere quali siano i reali bisogni e i nuovi rischi, di sottostimarne l’importanza e, nel caso si decida di agire, di mancare il bersaglio con interventi poco efficaci e scarsamente incisivi.

Tutto questo è oggi sempre meno accettabile, perché i ritardi accumulati impongono ora di intervenire; perché in regime di risorse limitate è necessario spendere bene; perché la fiducia nella classe dirigente è scesa sotto i livelli di guardia e le promesse non incantano più nessuno, contano ora solo i risultati tangibili. L’esigenza di vedere azioni concrete vale ancor di più per le nuove generazioni. Con i Millennials l’insoddisfazione dei giovani è uscita dalla fase latente ed è diventata esigenza forte di cambiamento. Dopo un lungo periodo di passività siamo entrati nella stagione della consapevolezza e della critica, dell’insofferenza verso una società squilibrata che si trasforma in manifestazione aperta del dissenso. Troppo a lungo si è detto che bisognava cambiare senza mai far seguire vere discontinuità. Che l’ex governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, ora a capo della BCE, e il nuovo capo del governo Mario Monti dicano che lo spreco del capitale umano dei giovani è uno dei principali mali dell’Italia e dei maggiori freni al suo sviluppo, oramai non fa più effetto. Indignados e movimenti che ricalcano Occupy Wall Street non si sono lasciati convincere e anzi li hanno clamorosamente contestati in varie occasioni nel caldo e drammatico autunno del 2011. Segno che l’insoddisfazione ha rotto gli argini, che ora le parole non contano più e si guarda solo ai fatti.


Politiche che migliorino il contributo alla crescita

Chi si assumerà responsabilità di governo nei prossimi anni dovrà dunque riuscire nella complicata impresa di dare risposte con risultati immediati in grado di migliorare da subito le condizioni dei giovani e porre le premesse per un solido modello di crescita i cui frutti si potranno apprezzare solo nel medio e lungo periodo. La combinazione di questi due obiettivi ha implicitamente alla base anche l’idea che il problema non sono i giovani, ma l’incapacità del sistema paese di metterli nella condizione di contribuire appieno alla crescita valorizzando al meglio le loro capacità e competenze. Alla prima esigenza può rispondere l’azione sulle carenze del welfare e sui rischi della precarietà. La riduzione dell’abuso a cui si prestano molti contratti ai quali i nuovi entranti vengono assoggettati – più coerenti con lo sfruttamento che con l’investimento sulle risorse umane – va sicuramente in questa direzione. Dato che si tratta di misure in grado fin da subito di sanare alcune inefficienze del mercato, è auspicabile che già il governo Monti possa iniziare a metterle in atto. Molto sentita è soprattutto la necessità di combinare meglio flessibilità e sicurezza. Attualmente il maggiore ammortizzatore sociale per i giovani italiani è, come ben noto, la famiglia. Chi ha contratti atipici si trova con carriere più discontinue, con remunerazioni più basse, con meno politiche attive, rispetto agli altri paesi, in grado di sostenere il passaggio tra la fine di un rapporto di lavoro e un nuovo inizio. A causa di queste carenze molti si perdono e vanno a ingrossare le già troppo ampie file dei NEET (Not in Education, Employment or Training), ovvero dei troppi che non studiano e non lavorano, fenomeno negativo rispetto al quale eccelliamo in Europa.

Quello che hanno in comune la gran parte dei lavoratori precari e degli inoccupati è l’essere schiacciati nella condizione di figli e di dipendere a lungo dalla famiglia di origine. La metà dei giovani italiani tra i sedici e i trent’anni vive a carico dei genitori: è il dato più elevato in Europa. I dati Istat ci dicono che la lunga permanenza nella casa paterna è sempre meno legata a fattori culturali e sempre di più a quelli economici. Le ridotte opportunità per i figli e la carenza di welfare pubblico producono costi particolarmente elevati per le famiglie di status sociale medio-basso, accentuando quindi anche le disuguaglianze sociali. Ne risulta compressa, inoltre, la mobilità sociale, forzando così i figli a non volare più in alto dei padri. Rimuovere questi ostacoli consente quindi sia di incentivare la crescita attraverso migliori possibilità di impiego dei giovani, sia di ridurre squilibri generazionali e sociali. Un compito che soprattutto le forze politiche progressiste dovrebbero considerare prioritario.

Ma a frenare il contributo attivo delle nuove generazioni non è solo l’inadeguatezza del sistema di welfare; la valorizzazione del capitale umano dei giovani è fortemente legata all’espansione delle opportunità che si possono trovare, o contribuire a creare, nel mondo del lavoro. Proprio per questo, tra le priorità indicate dalla Strategia Europa 2020 c’è, in particolare, l’incentivo agli investimenti in ricerca e sviluppo. L’espansione dei settori più innovativi e tecnologicamente avanzati è parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo ricerca e lavoro, generando quindi dinamismo economico e ricchezza; qui le nuove generazioni possono avere un ruolo da protagonista e diventare una risorsa strategica per la crescita. Azioni in questa direzione, come quelle sulla formazione, richiedono investimenti i cui benefici si ottengono soprattutto nel medio-lungo periodo. A causa della persistente denatalità l’Italia si troverà con una riduzione consistente del numero di persone giovani-adulte. Compensare la riduzione quantitativa con un miglioramento qualitativo nella formazione del capitale umano e nelle opportunità sul mercato del lavoro deve diventare un obiettivo prioritario per un paese che vuole continuare a crescere ed essere competitivo. Senza un cambiamento culturale che porti a una consapevolezza diffusa e a una condivisione ampia dell’importanza di investire sulle nuove generazioni (e non solo di ottenere il meglio per i propri figli contro tutto e tutti) diventa difficile trovare il consenso per politiche che tolgono qualcosa a tutti oggi per dare di più a chi ci sarà domani.


Più peso alle scelte che impegnano verso il futuro

Politiche di questo tipo non si possono fare ai margini, con le risorse che si riescono a recuperare senza scontentare nessuno. Per investire quanto serve in funzione di obiettivi ambiziosi occorre una politica che abbia coraggio e non insegua invece il consenso del crescente peso dell’elettorato più anziano, come avvenuto troppe volte negli ultimi decenni. L’obiettivo deve essere semmai quello di avvicinare i figli senza perdere i padri e le madri, non viceversa. Anche perché la capacità di mobilitazione delle nuove generazioni sta crescendo. Da un lato, nessun vero cambiamento è davvero realizzabile senza un ampio e solido contributo delle nuove generazioni; dall’altro, l’offerta stessa di cambiamento non è credibile e convincente se non ha la capacità di appassionare e coinvolgere fattivamente le nuove generazioni.

Sia i movimenti degli Indignados che la partecipazione attiva alle campagne elettorali nelle quali c’era da sostenere un’offerta credibile di cambiamento o erano in gioco principi da salvaguardare hanno evidenziato una crescente voglia di partecipare, di emergere e mettersi in gioco dei giovani Millennials. Sarà sempre più difficile poter fare e decidere senza di loro. Questa voglia di contare e di contribuire al cambiamento delle nuove generazioni deve allora essere inclusa come energia positiva, anche se scomoda per gli equilibri di potere attuali, nei partiti che più virtuosamente vogliono rappresentare l’Italia che cresce e guarda al futuro. Ma oltre a coinvolgere i giovani stessi, sono anche le scelte politiche che devono sempre più essere incentivate a inglobare il benessere futuro o quantomeno vincolate a non impoverire la possibilità di creare ricchezza domani per salvaguardare gli interessi di oggi. Dato che troppo spesso questo è successo nel recente passato è necessario sperimentare nuovi strumenti che rispondano a tale obiettivo. Gli ultimi due governi, Prodi e Berlusconi, hanno previsto un apposito ministero per le Politiche giovanili, che però non è stato oggettivamente in grado di mettere in atto azioni davvero incisive. Tanta buona volontà sorretta da interventi occasionali e di impatto limitato. In questa situazione, va riconosciuto che un dicastero per le politiche giovanili serve davvero a poco e può anzi essere controproducente; non solo ha poche risorse ma rinforza anche il malinteso che i giovani siano una riserva indiana da tutelare. Al contrario, le riforme che servono alle nuove generazioni sono le stesse necessarie per lo sviluppo del paese, che lo rendono più dinamico e competitivo. Molto più utile sarebbe istituire una sorta di “autorità garante” indipendente, che possa misurare e valutare l’impatto che le scelte pubbliche hanno sulle generazioni future. Senza informazioni autorevoli e trasparenti – non solo su quanto sia positiva oggi una determinata scelta, ma anche sul costo o beneficio che può produrre domani – il rischio di continuare a pensare solo al presente rimane elevato.

Infine, le politiche devono avere obiettivi chiari e misurabili. Questo significa che vanno esplicitamente definiti gli indicatori sui quali le misure pubbliche cercano di incidere e i livelli da raggiungere in tempi prefissati, altrimenti nessuna azione è seriamente valutabile e la politica rimane solo fumo.

Un indicatore che dovrebbe preoccuparci e dovrebbe divenire la cartina al tornasole della nostra capacità di rimuove gli ostacoli che frenano i giovani è la percentuale di under trenta che dipendono economicamente dai genitori. Ridurre la quantità di giovani che si trova in tale condizione non solo implica aver agito con successo sugli strumenti di welfare attivo e sulle opportunità nel mercato del lavoro, ma produce in sé implicazioni positive. Essere indipendenti responsabilizza, incentiva a contare più sulle proprie capacità che sulle risorse dei genitori, mette nelle condizioni di realizzare autonome scelte di vita.

Dalla dipendenza dal passato, che pesa su chi si affida alla prolungata protezione dei genitori, ci si proietta verso il futuro, con la trasformazione piena da figli assistiti a cittadini attivi. La costruzione di basi solide per una società che vuole crescere non può che partire da qui.

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