Quale Stato di diritto?

Di Antonio Ingroia Lunedì 24 Gennaio 2011 13:28 Stampa
Quale Stato di diritto? Illustrazione: Umberto Mischi

In quale Stato di diritto viviamo e qual è il complessivo progetto di riforma istituzionale che si è delineato negli ultimi anni? È in atto un lucido disegno di riassetto dei poteri, accentrato nelle mani dell’esecutivo, che mira a essere un potere autonomo, affrancato dal controllo di legalità esercitato dalla magistratura e dall’opinione pubblica.

In quale Stato di diritto viviamo e qual è il complessivo progetto di riforma istituzionale che negli ultimi anni si è delineato e che costituisce la prospettiva, l’orizzonte politico-culturale dell’attuale esecutivo? È questa la domanda di fondo da porsi se si vogliono decifrare le più recenti politiche in materia di giustizia evitando le secche della polemica spicciola da bar dello sport. Certo, ci sono state le leggi ad personam finalizzate a risolvere i  roblemi giudiziari di singoli potenti sotto processo.
Certo, ci sono stati gli interventi punitivi nei confronti della magistratura.  erto, c’è la politica di rappresaglia nei confronti di chi viene percepito come un avversario politico da ridurre all’impotenza. Ma sarebbe riduttivo e quindi fuorviante leggere tutto ciò soltanto in chiave di scontro politica-magistratura: la posta in gioco è ben più alta. Il disegno politico è ben più ambizioso, parte da lontano e vuole arrivare ancora più lontano, ma per comprenderlo bisogna uscire dalla logica dell’ultimo anello, cioè quella che pretende di interpretare la realtà guardando ai singoli segmenti finali e non alla linea direttrice unitaria.
Prendiamo, ad esempio, il progetto governativo di riforma delle intercettazioni. Le intercettazioni sono una minaccia alla privacy dei cittadini o un indispensabile strumento per difendersi dalla criminalità? È soprattutto intorno a questa domanda che negli ultimi tempi sono divampate le polemiche a margine del dibattito parlamentare, accompagnato da una campagna mediatica che ha disorientato l’opinione pubblica anziché informarla. E infatti, leggendo i giornali e seguendo notiziari e dibattiti televisivi, è facile sentire dichiarazioni altisonanti di tanti opinionisti che, con l’aria di saperla lunga e di sapere tutto, propinano soltanto verità preconfezionate, luoghi comuni, pregiudizi infondati, talvolta palesi falsità. Fino a oscurare una verità elementare, e cioè che nella storia giudiziaria del nostro paese, in tantissime indagini e processi, le intercettazioni hanno avuto un ruolo decisivo; in un primo tempo  soprattutto con le intercettazioni telefoniche, in seguito anche con quelle ambientali, unitamente alle nuove opportunità consentite oggi dalla tecnologia (del tutto impensabili fino a qualche anno fa) come la localizzazione nel tempo e nello spazio delle utenze telefoniche portatili (e quindi delle persone) e l’analisi dei pregressi rapporti interpersonali di ciascuno ricostruibili mediante l’acquisizione dei dati di traffico telefonico e della posta elettronica.
Ma davvero è soltanto questo il punto? Basta controbattere evidenziando quanti criminali sono stati arrestati, quanti omicidi, stragi, sequestri di persona, rapine e delitti di tutti i tipi sono stati evitati grazie al tempestivo intervento delle forze dell’ordine in virtù del buon esito di intercettazioni? Ovvero la legge va esaminata soprattutto sotto altro profilo, da un diverso punto di  sservazione? Basta evidenziare la distanza che separa le verità ufficiali dalla realtà delle cose, i luoghi comuni imperanti dai dati concreti? Basta dimostrare come certe opinioni, spesso interessate, abbiano finito per prevalere sui fatti, come quotidianamente la realtà venga stravolta? Serve, ma non basta. Non basta smontare il falso luogo comune che tende a diffondere la paura sociale dell’intercettazione facile, come se tutti fossero intercettati (così testualmente titolò in prima pagina, qualche tempo fa, uno dei quotidiani nazionali più diffusi, vicino alla maggioranza governativa), dimostrando invece che il sistema è assai più garantista di quanto non si voglia far credere, visto che gli italiani intercettati ogni anno sono meno di diecimila, e che nel nostro paese le intercettazioni vengono autorizzate da un giudice, al contrario (ad esempio) degli Stati Uniti e del civilissimo Regno Unito, dove le intercettazioni vengono disposte direttamente da una selva di organismi pubblici (inclusa la polizia municipale e vari corpi speciali) che in molti casi operano senza alcun controllo da parte dell’autorità giudiziaria.
Non occorrono altre dimostrazioni del fatto che la legislazione italiana, posta a confronto con le altre, risulta tutt’altro che lassista verso l’informazione o poco rigorosa nella tutela della privacy rispetto agli altri interessi pubblici. E che sono idee sempre più diffuse, che con l’ausilio di una martellante campagna di stampa hanno contagiato e condizionato l’opinione pubblica, al punto di divenire senso comune e creare così le premesse per una legislazione che, sotto vari profili, a più d’un attento osservatore appare liberticida. Ci sono ben altri rimedi, nell’ambito di un più equilibrato bilanciamento di interessi, per realizzare l’obiettivo di limitare le ingiustificate invasioni della privacy senza sacrificare l’efficienza dell’azione statale di repressione dei reati e il diritto costituzionale di informare e di essere informati; obiettivo da conseguirsi attraverso una rigorosa tutela del segreto delle investigazioni e una severa disciplina della distruzione delle intercettazioni penalmente irrilevanti.
In breve, il sospetto è che il vero obiettivo non sia abbattere gli eccessivi costi (sociali ed economici) delle intercettazioni, cosa che sembra costituire invece un pretesto, un comodo alibi, ma che si voglia artificiosamente legittimare una “spuntatina” agli strumenti investigativi a disposizione di pubblici ministeri ritenuti non “affidabili”.
La verità è che senza “voci di dentro”, senza le rivelazioni dei pentiti e senza le intercettazioni non si va lontano. Anzi, si va indietro, drasticamente. Come evitare, allora, un salto indietro di quarant’anni, ai tempi d’oro (per la mafia) delle assoluzioni di massa? Difficile rispondere. C’è chi dice che le grida d’allarme sono eccessive e derivano dalla sottovalutazione delle potenzialità delle cosiddette “indagini tradizionali”. Ma è difficilmente opinabile che con la nuova legge si correrebbe il rischio concreto di tornare ai tempi delle assoluzioni di massa, dell’impunità per tutti.

In definitiva, il futuro che questa nuova legge ci riserverebbe è assai preoccupante. Si profila un ritorno al passato: le tecnologie più sofisticate, consentendo intercettazioni telefoniche e ambientali, ricostruzione di reti relazionali mediante l’incrocio del traffico telefonico degli indagati e localizzazioni satellitari di uomini e cose, hanno permesso di sequestrare ingenti quantità di stupefacenti e di armi, di catturare latitanti, di sventare delitti e stragi, di neutralizzare assassini e organizzazioni criminali; ma da questo futuro tecnologico, che è diventato presente, si tornerebbe al lontano passato dei pedinamenti a vuoto, delle “indagini a 360 gradi”, equivalenti a buio pesto nella ricerca dei colpevoli e della verità. Le nuove norme costringeranno la polizia giudiziaria alla vecchia e incontrollabile pratica dei confidenti e degli informatori anonimi, e la magistratura a un brusco salto indietro, in un passato con poche intercettazioni e molte assoluzioni. Con la differenza che in quel lontano passato si combatteva ad armi pari, perché anche i criminali erano poco attrezzati dal punto di vista tecnologico; oggi, invece, la commissione dei reati è sempre ad alto tasso  ecnologico, e c’è da sentirsi un po’ ridicoli, nel medioevo prossimo venturo, ad affrontare con la clava una criminalità armata di laser. Sarà pure vero che qualcuno possa avere nostalgia di quel lontano passato, ma è difficile pensare che ci sia chi, all’infuori dei  riminali stessi, possa rimpiangere anche quel passato di assoluzioni e impunità. Gli spazi di impunità per i criminali e i delinquenti si dilatano, specie per quelli più danarosi, che possono consentirsi difese tecniche, mediatiche e politiche molto attrezzate, e la tutela delle vittime dei reati scema. Di conseguenza, lassismo nella tutela dei diritti fondamentali non dei cittadini-indagati (che meritano rispetto e garanzie, ma non diritto all’impunità), ma dei cittadini-vittima.
Se si vuole uscire dalla logica dell’ultimo anello non bisogna fermarsi all’attualità, ma guardarsi indietro, e allora non sarà difficile individuare il filo rosso che lega quest’ultimo progetto di (apparente) riforma alla miriade di leggi ad personam, o comunque di favore per gli indagati e di ostacolo per l’azione della magistratura. Non è in questione solo la difesa di interessi particolari e privati di singoli potenti; il progetto appare ben più ambizioso, perché tende alla trasformazione dei cardini del sistema istituzionale dentro il quale operiamo: tutta la normativa di favore per la criminalità finanziaria, fino allo scudo fiscale, gli interventi legislativi di appesantimento del processo penale e di accorciamento dei tempi dell’impunità prescrizionale, la riforma in peius dell’ordinamento giudiziario, le ripetute modifiche per ampliare i privilegi e le immunità delle più alte cariche dello Stato, non significano altro che una riscrittura dell’assetto dell’equilibrio dei poteri e di alcuni principi costituzionali, a partire dal principio di eguaglianza.
E quali siano gli obiettivi politici di questo disegno diventa ancora più chiaro se si esaminano i punti qualificanti del progetto governativo di riforma del codice di procedura penale, specie laddove si intende modificare profondamente l’attuale sistema di iniziativa delle indagini e di promozione dell’azione penale. Oggi, infatti, un’indagine penale può avviarsi indifferentemente su denuncia della polizia giudiziaria al pubblico ministero, ovvero su iniziativa autonoma dell’ufficio di Procura. La riforma vorrebbe eliminare questa seconda ipotesi e affidare il compito e la responsabilità dell’avvio dell’indagine penale esclusivamente alla polizia giudiziaria,  nibendo al pubblico ministero tale facoltà. Il tutto – si dice – al fine di dare maggiori motivazioni a una polizia giudiziaria oggi avvilita da un compito esclusivamente servente rispetto alle direttive delle Procure.
Ma, al di là delle motivazioni ufficiali, la verità sembra essere un’altra. Basti pensare che le indagini penali più importanti degli ultimi anni, che hanno coinvolto uomini politici e potenti di ogni tipo, sono state tutte avviate su iniziativa del pubblico ministero e mai su input della denuncia della polizia giudiziaria. Il che avviene per una ragione molto semplice: il funzionario di polizia, al contrario del pubblico ministero, non gode di alcuna autonomia e indipendenza rispetto al potere politico. Egli è soggetto alle iniziative più discrezionali dell’esecutivo, e cioè del ministro competente, sulla sua carriera e sulla sua destinazione d’ufficio; al contrario dei magistrati, non gode del diritto all’inamovibilità dal posto ricoperto. Il che significa che in qualsiasi momento
può essere rimosso quando dovesse divenire troppo “scomodo” per l’esecutivo.
Non che la polizia giudiziaria non abbia dimostrato in tantissime occasioni il coraggio di indagare anche personaggi potenti, come dimostrano i brillanti risultati delle investigazioni svolte su direttive del pubblico ministero, ma la polizia giudiziaria, appunto, ha bisogno di avere le spalle coperte da un potere autonomo e indipendente dall’esecutivo, che non può essere altri che il potere giudiziario, cioè la Procura che conduce le indagini. Sotto questo profilo, le direttive del pubblico ministero costituiscono il migliore scudo, la migliore garanzia per il funzionario di polizia più esposto in indagini particolarmente delicate, proprio per proteggerlo dalle eventuali rappresaglie politiche che potrebbero ben scatenarsi quando, invece, la responsabilità della decisione di avviare o meno una data indagine si concentrasse solo sulla polizia giudiziaria.
Ecco, allora, che il progetto di riforma del codice di procedura penale si rivela per quel che effettivamente è: il tentativo di mettere l’esercizio dell’azione penale sotto il controllo diretto del potere esecutivo, raggiungendo così un obiettivo perseguito con ostinazione per anni senza la necessità di seguire il percorso, irto di ostacoli e difficoltà, della separazione delle carriere e di sottoposizione del pubblico ministero sotto il diretto controllo della politica. Un’operazione di ingegneria costituzionale che metterebbe a serio rischio il principio, fondamentale in uno Stato di diritto, della separazione dei poteri, perché di fatto si metterebbe sotto il controllo del potere esecutivo l’esercizio dell’azione penale, e cioè una delle principali espressioni del potere giudiziario.
In conclusione, la verità è che quello che abbiamo davanti, in parte realizzato negli ultimi anni e in parte ancora in fase di realizzazione, è un lucido disegno di riassetto dei poteri, secondo un nuovo equilibrio che li indirizza e li ricolloca in modo verticale e gerarchico, accentrato nelle mani dell’esecutivo. Un potere esecutivo che vuole le mani totalmente libere, senza vincoli, senza bilanciamenti, senza controlli di alcun tipo, affrancato dal controllo di legalità esercitato dalla magistratura e dal controllo dell’opinione pubblica svolto per mezzo della libera stampa.
Insomma, un potere esecutivo centrale libero del terzo e del quarto potere (che altro non sono che poteri di controllo), mentre non a caso la stessa istituzione parlamentare viene ridotta a mera funzione notarile di decisioni prese altrove e i progetti di riforma della Corte costituzionale (supremo organo di controllo di legittimità costituzionale) e del Consiglio superiore della magistratura (custode dell’autonomia e indipendenza di questo organo) rivelano l’ampiezza del disegno di mortificazione di ogni presidio di equilibrio istituzionale.
In definitiva, quella che si manifesta attraverso questo disegno è l’unica grande anomalia italiana, l’anomalia della sua classe dirigente, che pretende impunità e privilegi, a costo di mettere in crisi persino i fondamenti dello Stato di diritto democratico. Questa è la posta in gioco. È bene esserne consapevoli.