Europa e riconoscimento dello Stato palestinese. Continuità o rivoluzione?

Di Danilo Di Mauro Venerdì 31 Ottobre 2014 15:38 Stampa
Europa e riconoscimento dello Stato palestinese. Continuità o rivoluzione? Foto: Mohammad Usaid Abbasi

Il recente riconoscimento dello Stato palestinese da parte di alcuni paesi europei non va interpretato tanto come un netto cambiamento di rotta da parte delle diplomazie europee, quanto come un’indicazione della volontà di rimettere la questione ai primi posti dell’agenda internazionale dell’UE.


Lo scorso 13 ottobre il Parlamento britannico ha approvato, con 274 voti a favore e 12 contrari, una mozione che chiama il governo Cameron a riconoscere lo Stato di Palestina. Dieci giorni prima, il primo ministro svedese Stefan Löfven, all’indomani della vittoria elettorale, aveva dichiarato che la Svezia sarebbe stata la prima in Europa a concretizzare tale riconoscimento. Diverse cancellerie europee si stanno muovendo nella medesima direzione. Il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha dichiarato che anche la Francia potrebbe intraprendere iniziative simili, ma solo nel caso in cui questo favorisca il processo di pace. Anche l’ex capo della diplomazia italiana Federica Mogherini – oggi Alto rappresentate per gli affari esteri dell’UE –, sebbene non abbia mostrato entusiasmo per iniziative unilaterali, ha ribadito la soluzione dei due Stati.

Qual è il significato di questi cambiamenti? Si tratta davvero di una rivoluzione nella politica estera degli Stati europei?

Solo due anni fa, alcuni paesi dell’Unione si astennero in occasione dell’attribuzione alla Palestina dello status di non-member observer state all’interno dell’ONU.[1] Le dichiarazioni delle ultime settimane rappresenterebbero, dunque, una notevole virata.

Anche l’opinione pubblica europea mostra una nuova consapevolezza rispetto al conflitto. Nel 2011 un sondaggio condotto da ICM su sette paesi, ha mostrato che in Europa il conflitto appare sbilanciato a favore del “gigante” Israele. Oltre il 30% non considera Israele una democrazia, mentre è chiara la sua posizione di “occupante”. Sulla base di queste ricerche, il libro “The Battle for Public Opinion in Europe” sostiene che un maggiore accesso all’informazione sul tema abbia generato uno spostamento dell’opinione pubblica in opposizione ai propri governi, tradizionalmente “sensibili” alle ragioni di Israele.

D’altra parte, se in settant’anni di conflitto molte cose sono cambiate, altre risultano cristallizzate da decenni. L’anatomia del conflitto, ad esempio, è del tutto differente rispetto ai primi decenni. Le modalità di scontro, i luoghi, i mezzi e soprattutto gli attori sono mutati, lasciando il campo principalmente a palestinesi e israeliani. Da diversi anni, inoltre, gli scontri sono circoscritti all’area di Gaza, dove nuove forze politiche hanno soppiantato la vecchia leadership palestinese.

Le politiche estere degli altri Stati seguono lo stesso destino: mostrano cambiamenti cruciali, accanto a linee definite e protratte. In seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ad esempio, le posizioni degli Stati si sono cristallizzate alla metà degli anni Settanta, quando il movimento dei non allineati ha, di fatto, sposato la causa palestinese, gestendo l’agenda e la produzione normativa sulla questione. Le analisi sul voto mostrano che, da quasi quarant’anni, sia gli Stati Uniti che Israele sono particolarmente isolati in Assemblea, mentre l’Europa gioca un ruolo mediano (spesso più vicino agli orientamenti della maggioranza), votando di norma in modo compatto.

In realtà, nel conflitto israelo-palestinese il vecchio e il nuovo si intrecciano continuamente, mentre il mutamento avviene spesso per gradi.

A guardare alla sostanza dei segnali dei governi e dell’opinione pubblica europea, non sembra siano intervenuti dei veri cambiamenti. L’atteggiamento dei cittadini europei, palese e sottolineato da più fonti,[2] non è tuttavia del tutto nuovo, e certamente non è cambiato negli ultimi mesi ma da oltre un decennio. Anche le posizioni dei paesi non sono cambiate nei contenuti: l’Unione e i suoi membri puntano, sin dagli accordi di Oslo, alla soluzione dei due Stati. Questo implica che, accanto a uno Stato israeliano, sono pronti a riconoscerne uno palestinese.

Sebbene i segnali del riconoscimento di uno Stato palestinese riducano la distanza con l’opinione pubblica, non comportano un sostanziale cambiamento, ma piuttosto l’intenzione di riportare il conflitto ai primi posti dell’agenda europea. Gli scontri di questa estate hanno mostrato ancora una volta che il conflitto è un vulcano sopito, pronto a esplodere periodicamente, mentre da troppi anni non ci sono progressi sul fronte del processo di pace. Gli Stati lanciano pertanto nuovi segnali a tutti gli attori internazionali e soprattutto all’Unione. Considerate le ingenti risorse spese sotto il profilo diplomatico, economico e degli aiuti, sarà l’Europa in grado di giocare un ruolo cruciale nella risoluzione del conflitto?



[1] In precedenza l’OLP godeva dello status di osservatore. La risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sebbene non riconosca ancora la Palestina come paese membro, di fatto ammette l’esistenza dello Stato palestinese e, per disposizione, gli attribuisce tale titolo (Palestinian State) nei documenti ufficiali.

[2] L’articolo di Everts, Isernia e Olmastroni conferma l’atteggiamento rivelato dallo studio ICM utilizzando altri dati. Questi autori, inoltre, sottolineano il divario tra l’opinione pubblica americana e quella europea sul tema del conflitto.

 



Foto: Mohammad Usaid Abbasi

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