Stato palestinese: l’importanza politica dei simboli

Di Clara Capelli Venerdì 24 Ottobre 2014 12:04 Stampa
Stato palestinese: l’importanza politica dei simboli Foto: Scott Tingley

Il nuovo governo svedese ha deciso di riconoscere lo Stato palestinese. E il Parlamento britannico ha chiesto al governo Cameron di fare altrettanto. Si tratta di gesti per lo più simbolici che devono essere seguiti da un maggiore impegno da parte della comunità internazionale e soprattutto dell’Unione europea.


Il 13 ottobre la Camera dei comuni britannica ha approvato, a larghissima maggioranza, una raccomandazione per il governo affinché questo riconosca lo Stato di Palestina. Dieci giorni prima il neo primo ministro svedese Stefan Lövfen aveva dichiarato nel suo discorso di insediamento che la Svezia avrebbe riconosciuto lo Stato palestinese. Si tratta di gesti dalla forte valenza simbolica che non a caso giungono dopo i mesi di grande sofferenza e tensione che hanno riportato l’attenzione di tutto il mondo sulla zona.

L’operazione Protective Edge della scorsa estate ha provocato oltre duemila morti, gran parte delle infrastrutture della Striscia di Gaza è andata distrutta nei bombardamenti, gli sfollati sarebbero più di centomila. Una crisi umanitaria di enorme portata, che – più ancora di Cast Lead nel 2008 e Pillar of Cloud nel 2012 – ha scosso nel profondo l’opinione pubblica europea e portato le cancellerie dei paesi dell’Unione a ribadire l’importanza di far ripartire i negoziati tra israeliani e palestinesi.

L’ultimo tentativo, promosso dal segretario di Stato John Kerry, è fallito nell’aprile di quest’anno a seguito delle proteste del governo guidato da Benjamin Netanyahu per l’accordo tra Fatah e Hamas sulla formazione di un governo di unità nazionale in vista di nuove elezioni. Da molto tempo l’Autorità nazionale palestinese si trova stretta in un’impasse a causa dell’antagonismo che oppone Israele e Hamas, e della consapevolezza che nessuna soluzione potrà mai essere ottenuta senza il coinvolgimento congiunto delle due organizzazioni palestinesi. Questa triangolazione ha creato di fatto una condizione di stagnazione, con il blocco della Striscia di Gaza da una parte e la costante espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania dall’altra.

Negli ultimi anni il presidente Abu Mazen ha cercato una via d’uscita aggirando i riti dei negoziati e provando unilateralmente a rafforzare la posizione della Palestina a livello internazionale, prima con l’ingresso come paese membro dell’UNESCO nel 2011 e poi con il riconoscimento di Stato osservatore non membro da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2012. In entrambi i casi, i paesi membri dell’ONU si sono espressi a favore con un’ampia maggioranza. Segnali importanti, così come quelli che vengono da Regno Unito e Svezia, perché indicano che la comunità internazionale sta prendendo coscienza dell’esistenza della Palestina come entità politica, benché la dichiarazione di uno Stato a pieno titolo sia ancora di là da venire viste difficoltà e lungaggini di una via negoziale più volte finita su un binario morto.

Israele, al contrario, continua a insistere sul fatto che la Palestina possa essere riconosciuta come Stato solo e soltanto attraverso il canale dei negoziati e non con dichiarazioni unilaterali, per quanto simboliche. Il governo israeliano ha sempre portato avanti questa linea, sostenuta anche dagli Stati Uniti, sin dall’inizio del dibattito circa il cambiamento di status della Palestina all’interno delle istituzioni dell’ONU. Anche di fronte ai recenti eventi svedesi e britannici Netanyahu si è espresso negativamente, definendo queste mosse “premature” oltre che “pericolose” per il processo di pace, perché incoraggerebbero l’Autorità Nazionale Palestinese a portare avanti la propria agenda senza alcuna trattativa né concessione.

Di fatto l’opposizione del governo israeliano nasce dalla volontà di mantenere un saldo controllo sulla situazione nell’area e sui suoi sviluppi, senza che interventi di attori esterni interferiscano con gli interessi di Israele o creino pressioni per una riformulazione degli indirizzi del processo di pace.

Riconoscere lo Stato di Palestina rappresenta dunque un passo importante nel tentativo di sbloccare la macchina diplomatica israelo-palestinese: se si ammette che uno Stato esiste, infatti, è evidente la necessità che esso sia messo nelle condizioni per operare come tale. Tuttavia, i gesti simbolici, per quanto necessari, non possono prescindere da una riflessione sulle numerose criticità che la situazione corrente pone. Innanzitutto, il ruolo di Hamas come attore politico non può essere ignorato né rifiutato. Dopo una fase di assestamento, conseguente alla caduta dei Fratelli Musulmani in Egitto, suoi sponsor, l’organizzazione pare avere recuperato almeno in parte le forze grazie al rinnovato sostegno di Iran e Qatar.

La volontà di Israele di proseguire i negoziati è un’altra variabile da tenere in considerazione. La società israeliana, fortemente composita al suo interno – divisa tra laici, religiosi e ultraortodossi, tra discendenti dei primi abitanti di Israele e immigrati provenienti dall’Europa dell’Est, tra coloni e chi sostiene che gli insediamenti siano solo un onere per il bilancio pubblico –, si sta marcatamente spingendo verso destra e Netanyahu difficilmente potrà fare concessioni che possano acuire la tensione sociale o costargli voti.

Le elezioni del 2013 sono state infatti caratterizzate dal successo dei partiti di estrema destra, Yisra’el Beiteinu (Israele Casa Nostra) del ministro degli Esteri Avigdor Liebermann e HaBayt HaYehudi (La Casa Ebraica) del ministro dell’Economia Naftali Bennett. Il Likud di Netanyahu si vede incalzato a destra da queste formazioni che stanno riscuotendo crescente consenso anche tra i coloni in Cisgiordania, un elettorato che tradizionalmente guardava proprio al Likud come punto di riferimento politico. Non è un caso infatti che poco dopo il cessate il fuoco a Gaza il governo israeliano abbia dichiarato l’acquisizione di oltre 400 ettari per ampliare gli insediamenti di Gush Etzion, a sud di Betlemme.

Avanzare ipotesi sul futuro del conflitto israelo-palestinese è inevitabilmente un’operazione complessa. Tuttavia, nessun risultato apprezzabile potrà mai essere raggiunto se alla politica dei simboli non seguirà l’elaborazione di nuovi indirizzi e strategie negoziali, anche e soprattutto da parte dell’Unione europea. Perché la pace sia raggiunta e la Palestina sia qualcosa di più di uno Stato simbolico, un confronto fra tutte la parti coinvolte è ora più che mai cruciale.

 

 


Foto: Scott Tingley

 

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