Per un Italicum più rosa

Di Fabrizia Giuliani Martedì 04 Febbraio 2014 14:31 Stampa

Smentendo le attese, l’Italicum rischia di non consentire la parità di genere tra gli eletti della prossima legislatura. Tre diversi emendamenti sono stati presentati da parlamentari unite oltre le apparenze di partito per modificare la proposta di legge e rafforzare, garantendo una adeguata presenza femminile, la rappresentatività del Parlamento.


Contrariamente a quanto annunciato, la riforma della legge elettorale che il Parlamento si appresta a discutere rischia di mancare l’obiettivo del “50 e 50”, ossia di non consentire una presenza paritaria di donne e di uomini tra gli eletti nella prossima legislatura.

L’Italicum non prevede norme di alternanza all’interno delle liste, pone solo il limite della presenza consecutiva di due candidati dello stesso genere, e anche per quanto attiene ai capilista, ad oggi non vi sono disposizioni che tutelino una presenza equa di donne e uomini.

Dato il sistema di liste bloccate corte, su cui fa perno la riforma, non è difficile comprendere come l’obiettivo del riequilibrio di genere tra i candidati e soprattutto tra gli eletti, rischi di essere mancato, a dispetto delle dichiarazioni paritarie che hanno accompagnato l’annuncio dell’accordo. È grave che si corra questo rischio, e ancora più grave è la sottovalutazione che lo accompagna.

La prima, e più ovvia, considerazione è che se nella prossima legislatura si abbasserà il numero delle elette sarà l’intero Parlamento a perdere forza rappresentativa. Per capirci, non sarà un danno per le donne, ma per l’istituzione tutta. Non occorre scomodare studi internazionali per ricordare come il superamento del gender gap sia un elemento chiave per sanare la crisi della rappresentanza: il disegno di una architettura istituzionale nuova non può prescindere dalla presenza delle donne se ambisce a superare la forbice tra governanti e governati che attraversa il paese.

C’è un nesso forte tra il declino italiano e l’incompiutezza del percorso verso la pari cittadinanza previsto dai costituenti. Il 71° posto cui ci relega il “Global Gender Gap Report 2013” – dietro Romania, Senegal e Tanzania secondo parametri come la partecipazione e le opportunità economiche, l’educazione e l’istruzione, la salute e le aspettative di vita e la presenza nei luoghi della politica – è lo specchio del declino italiano. Un paese che oppone tanta resistenza alla partecipazione della donne alla vita democratica, all’accesso al lavoro, al loro coinvolgimento nei circuiti economici e politici, non cresce, arretra. E non arretra solo nella competizione internazionale, regredisce negli equilibri civili e politici interni, nella tenuta delle relazioni che sono alla base di ogni forma di vita associata. Quanto è accaduto negli ultimi giorni e nella scorsa settimana non consente sottovalutazioni. Se il confronto degenera fino a far apparire ordinaria l’ingiuria, l’incitazione all’abuso, vuol dire che si sono rotti gli argini, e soprattutto che occorre dare una risposta adeguata.

Se non ora quando? Occorre tornare ad affermarlo alla vigilia di una riforma elettorale che rappresenta un vero e proprio spartiacque politico carico di aspettative. I mutamenti introdotti sul piano ordinamentale sulla spinta delle mobilitazioni delle donne degli ultimi anni – a partire dalla modifica degli articoli 51 e 117/7 della Costituzione sulle pari opportunità di accesso alle cariche pubbliche, passando per la legge 120/2011 sulle quota rosa nei Cda delle società – hanno posto accanto alla richiesta di uguaglianza il riconoscimento delle differenze, in assonanza, va sottolineato, con quanto la nostra Costituzione afferma sin dalla Prima parte. E su questa strada occorre continuare.

Sono in Aula tre emendamenti trasversali che uniscono le donne oltre le appartenenze. Con l’eccezione del Movimento 5 Stelle e del gruppo Fratelli d’Italia, le parlamentari che li hanno sottoscritti chiedono il 50% di capilista donne, un rapporto 40-60% tra i generi, sempre per i capilista, l’alternanza uomo-donna nell’ambito della stessa lista. Sarebbe dunque davvero grave e miope leggere le norme del riequilibrio che questi emendamenti pongono in chiave di quote o rivendicazioni. Non è in gioco la tutela di soggetti deboli, ma la capacità, propria di ogni democrazia matura, di rappresentare l’interesse generale superando resistenze antiche e, come vediamo, nuovissime. I margini per farcela ci sono: come in altri momenti della storia repubblicana l’accordo trasversale tra le donne ha consentito al paese di fare passi avanti impensati, anche questa volta occorre scommettere sulla capacità di superare steccati e appartenenze per voltare pagina e ripartire davvero. Perché se l’Italia riesce a diventare un paese per donne sarà un paese migliore, per tutti.

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