I repubblicani hanno perso la battaglia, ma il Tea Party potrebbe vincere la guerra per il partito

Di Martino Mazzonis Venerdì 18 Ottobre 2013 17:00 Stampa
I repubblicani hanno perso la battaglia, ma il Tea Party potrebbe vincere la guerra per il partito Foto: USCapitol

La battaglia interna al Congresso americano, al quale abbiamo assistito nelle ultime settimane conclusasi in extremis con un accordo lo scorso 16 ottobre che ha messo fine allo shutdown, è un ulteriore sintomo dell’estrema polarizzazione che caratterizza il panorama politico statunitense. Polarizzazione che è in gran parte causata dall’azione dell’area più estremista del Partito repubblicano: il Tea Party.


Per cosa si è combattuto e chi ha vinto la battaglia sull’innalzamento del tetto debito pubblico che si è svolta nelle aule del Congresso degli Stati Uniti? Potremmo dire che si è lottato per mantenere salda l’idea che lo Stato esercita un ruolo fondamentale, specie in tempi difficili, e che, quindi, deve anche essere messo in grado di accumulare deficit – per quanto responsabilmente – al fine di mantenere vive alcune delle funzioni determinanti che svolge. Questo è quanto ha detto il presidente Obama il giorno dopo la fine della battaglia politica e riferendosi allo shutdown, cioè i giorni durante i quali lo Stato americano è rimasto chiuso a causa dell’inazione della politica. Obama ha ricordato che lo Stato non è sempre il problema – come diceva Ronald Reagan – ma è anche cure, aiuto, parchi pubblici, scuole, vigili del fuoco, controlli sulla qualità di aria e cibo.

Se lo scontro fosse stato solo su questo, la questione sarebbe relativamente semplice da spiegare. Da un lato i repubblicani, stufi del deficit, convinti che occorra operare tagli e diminuire le tasse per assicurare un futuro agli Stati Uniti, e dall’altro i democratici che intendono continuare a investire in alcune cose che ritengono importanti. In parte questo è quanto è successo. In fondo i due partiti si dividono proprio su temi classici come Stato, tasse e welfare. Almeno in teoria, visto che il presidente che più volte ha chiesto al Congresso di alzare il tetto del deficit (diciassette) è quello stesso Ronald Reagan a cui i repubblicani fanno riferimento per spiegare la loro visione.

Se questa fosse stata l’unica partita, si sarebbe svolta su un campo di gioco normale. Si sarebbe discusso, negoziato e poi, come è stata la norma per decenni al Congresso, i moderati di un partito avrebbero portato una legge moderata presentata dalla maggioranza. Da quando è stato eletto Obama non va più così: la polarizzazione fra i due partiti, causata soprattutto da uno spostamento a destra del Partito repubblicano, impedisce il corretto funzionamento del sistema istituzionale americano.

Per due volte negli anni passati il presidente Obama ha scelto di trattare. Il presidente non può e non deve essere la causa della polarizzazione, si è detto. E per due volte lo psicodramma è andato più o meno come stavolta. Obama ha però scelto in quest’ultima occasione di non stare al gioco: il bilancio dello Stato è una materia troppo seria per fare guerriglia politica. Rimanendo fermo e ribadendo di essere pronto a discutere un accordo quadro sul bilancio, la spesa e le tasse, Obama ha guardato i repubblicani mettersi nell’angolo da soli.

E qui viene il punto cruciale di questa partita. In questi giorni abbiamo osservato l’inizio della lunga guerra interna al Grand Old Party. Oggetto dello scontro è la natura del partito, la data in cui esso si concluderà è il 2016. Il Tea Party, l’ala destra del Partito repubblicano, che ha consentito la vittoria del GOP nel 2010, ritiene che le sconfitte di questi anni siano dovute all’eccessiva moderazione del loro partito. Che ora vuole prendersi. Solo così si spiega l’atteggiamento apparentemente suicida e contraddittorio del senatore texano Ted Cruz, che prima si è prodigato in un’inutile maratona oratoria per rinviare il voto in aula, e poi ha votato a favore della stessa legge contro la quale si era battuto. Così facendo Cruz ha guadagnato punti fra i sostenitori del Tea Party, che potrebbe organizzarsi attorno alla sua candidatura.

L’altro elemento determinante di questa battaglia, i fanti, sono i rappresentanti eletti nei distretti conservatori e quelli dove la base repubblicana tende a essere di destra. I primi non temono di non essere rieletti, qualsiasi cosa facciano. I secondi evitano scelte moderate per paura di essere mandati a casa con le primarie, incalzati dai candidati del Tea Party capaci di portare al voto la base più militante.

Nonostante il modo in cui si è conclusa la battaglia, il Tea Party è uno dei vincitori di queste settimane. Lo scontro politico si è fatto sulla musica che suonavano Cruz e l’ala dura e maggioritaria del gruppo alla Camera dei rappresentanti. I moderati repubblicani hanno fatto la scelta responsabile, ma dopo tanto battagliare la loro è apparsa come una resa. I conservatori sono convinti di avere la storia dalla loro parte e pensano che, portando la battaglia fino in fondo, cambieranno finalmente un paese nel quale non si riconoscono.

Difficile dire ora se l’establishment moderato saprà trovare una linea condivisa e un candidato buono per il 2016. Certo è che, come suggeriscono alcuni commentatori, è ora che i moderati del GOP si dotino di una macchina politica, di strutture di finanziamento e comincino anche loro la guerra interna. Il rischio, infatti, è che nel 2016 il centro non riesca a imporre il candidato moderato. Le due figure credibili per contrastare l’avanzata del Tea Party sono il senatore Marco Rubio – a metà strada tra la destra e il centro – e il governatore del New Jersey Chris Christie. Non a caso, in questi giorni, il secondo ha preso le distanze dalla sua gente in Congresso.

Ma il 2016 è ancora lontano. L’altro evento degli ultimi giorni – che gioca a favore della destra del partito – è un drammatico calo di consensi per il Partito repubblicano. La scelta di trattare è stata fatta anche guardando ai sondaggi. Ma per ricostruire l’idea di partito responsabile che si oppone all’estremismo del presidente Obama ci vorrà parecchio tempo. Non è detto che i repubblicani ci riescano entro novembre del prossimo anno, quando si voterà per le elezioni di midterm.

 

 


Foto: USCapitol

 

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