La Birmania guarda al futuro

Di Ugo Papi Martedì 18 Giugno 2013 16:38 Stampa
La Birmania guarda al futuro Foto: World Economic Forum

Nei giorni scorsi si è tenuto in Birmania il World Economic Forum sull’Asia dell’Est. Si è trattato di un segnale inequivocabile del nuovo corso politico ed economico intrapreso dal paese del Sud-Est asiatico a partire dal 2010, anno dell’elezione alla Presidenza di Thein Sein e della liberazione di Aung San Suu Kyi.

In Birmania si è concluso da qualche giorno il World Economic Forum sull’Asia dell’Est. Il parere unanime dei partecipanti e degli osservatori è che il paese delle pagode ha imboccato una strada di apertura politica ed economica senza ritorno. Per questo il mondo degli affari era qui in forze e ha iniziato a investire. Per fare solo un esempio, Visa e MasterCard sono decisi a trasformare velocemente un paese dove fino a poco tempo fa non esisteva un bancomat, in un’area dove il credito elettronico permetterà di cambiare stili di vita e trasformerà l’economia. Fino a questo momento solo il 10% della popolazione ha accesso a un conto in banca.

A essere ottimisti non sono solo gli investitori stranieri ma soprattutto gli imprenditori birmani. La ragione di tanta positività è la situazione politica. Al governo così come all’opposizione, le forze preponderanti sono quelle che spingono per le riforme. Il capo di Stato Thein Sein è stato il catalizzatore delle forze del cambiamento interne al regime. Solo un ex generale come lui avrebbe potuto aprire le porte del paese alla democrazia e al libero mercato in soli due anni. In pochi, anche tra i più ottimisti, potevano credere che dal momento della sua contestata elezione, nel novembre del 2010, la situazione sarebbe cambiata così rapidamente. Da allora abbiamo assistito a cambiamenti repentini e inaspettati: prima la liberazione dell’eroina dell’opposizione democratica Aung San Suu Kyi e la legalizzazione del suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia; poi la scarcerazione dei prigionieri politici e l’abolizione della censura sui media. Successivamente è stato anche approvato un primo diritto di sciopero e sono stati avviati colloqui formali con le minoranze etniche. Ma soprattutto stanno cambiando rapidamente le leggi che rendevano difficili gli investimenti economici dall’estero e all’interno del paese.

All’interno della coalizione al potere i falchi sono stati emarginati e il potente esercito ha ricevuto abbondanti assicurazioni sulla posizione e sui privilegi che le forze armate dovrebbero mantenere anche in futuro. Il governo ha conquistato la fiducia della comunità internazionale e la maggior parte delle sanzioni economiche imposte dai paesi occidentali sono state abolite.

Da parte sua Aung San Suu Kyi è entrata velocemente nell’arena politica, forte di una grande popolarità. La Lady si è mossa con una certa comprensibile prudenza, soprattutto nel primo periodo seguito alla sua liberazione. Troppe volte, nei suoi venti anni di lotta politica, era stata liberata per poi essere di nuovo costretta agli arresti domiciliari. Ma il dialogo con il presidente Thein Sein si è intensificato e la fiducia reciproca sembra aumentata. Obiettivo del Premio Nobel per la pace sono le elezioni presidenziali del 2015. L’annuncio è arrivato qualche giorno fa. Per candidarsi la leader birmana deve ancora affrontare una battaglia: la riforma costituzionale che renda possibile la sua candidatura – esclusa nel 2010 con un articolo ad personam che impedisce di concorrere alla presidenza a chi sia sposato, come lei, a uno straniero o abbia dei figli di diversa cittadinanza, come è appunto il caso dei figli di Suu Kyi. Altre riforme della Costituzione, approvata dai vecchi dittatori, saranno poi necessarie per ridurre la quota di militari che di diritto siedono in Parlamento, oggi pari al 25 %.

Scesa dal piedistallo dell’eroica lotta per la libertà, anche Aung San Suu Kyi si è dovuta districare fra le difficoltà della politica. Non mancano elementi critici nella sua condotta e qualche mugugno si registra tra la vecchia guardia del suo partito, o tra qualcuno dei leader della “rivoluzione zafferano” del 2007. C’è chi rimprovera alla “Signora” il dialogo troppo stretto con il governo, i toni amichevoli verso l’esercito e il piglio autoritario nelle decisioni. All’estero i media si aspettavano posizioni più chiare sulla repressione delle minoranze etniche mussulmane. Ma nel complesso la sua popolarità resta alta e questo fa ben sperare per il futuro del Myanmar.

Il paese deve affrontare problemi enormi. La crescita economica ora si vede, ma la povertà perdura. Solo il 16% della popolazione ha l’elettricità, i bambini sono malnutriti e in media frequentano la scuola per non più di quattro anni. L’assistenza medica fuori Yangon è pressoché inesistente. I conflitti etnici persistono e le sommosse antimussulmane hanno fatto emergere gruppi buddhisti estremisti, inediti per la Birmania di oggi. Ci vorrà molta saggezza e una lotta determinata alla corruzione, anche per evitare che gli investimenti internazionali portino benefici solo all’estero, concentrandosi esclusivamente sull’estrazione delle materie prime di cui il paese è ricco.

La Birmania ce la può fare, il cammino è segnato, ma gli ostacoli sul percorso sono ancora molti.

 

 


Foto: World Economic Forum

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