Dopo il Congresso del PCC

Di Romeo Orlandi Lunedì 03 Dicembre 2012 17:19 Stampa
Dopo il Congresso del PCC Foto: Bert van Dijk

Le conclusioni del XVIII Congresso del PCC hanno deluso quanti si illudevano che esso costituisse un’occasione per avviare la Cina sulla via di riforme democratiche. Tuttavia, proprio quelle caratteristiche di coesione, disciplina e rispetto delle gerarchie che all’osservatore occidentale potrebbero apparire come il sintomo della rigidità del regime, potrebbero rappresentare la condizione essenziale per avviare il cambiamento. Purché la nuova leadership cinese riconosca che esso sia funzionale al benessere del paese. E del partito.


Si è depositata un po’ di polvere sulla spasmodica attenzione mediatica riservata al XVIII Congresso del Partito comunista cinese. A poche settimane dalla conclusione dell’assise è dunque possibile tracciare un’analisi ponderata sugli esiti e sugli scenari, diversa dalla contrapposizione tra riformisti e conservatori che ha modellato le valutazioni in Italia. Ha finora prevalso un’opinione negativa sull’eccessiva prudenza del PCC, sulla prevalenza della vecchia guardia al vertice, sull’assenza di segnali innovativi. La nuova leadership di Xi Jinping e la composizione dell’Ufficio politico (nei suoi sette membri permanenti) è espressione dell’apparato, della tradizione, senza elementi di discontinuità e senza che sia stata data rappresentanza alla società civile o all’universo femminile. Gli osservatori e la stampa internazionale hanno espresso disappunto per la conclusione del Congresso: un’occasione perduta per avviare in maniera concreta la Cina sulla strada di una società più aperta e maggiormente inserita nel contesto internazionale

Queste valutazioni peccano probabilmente di superficialità. Confondono inoltre le aspirazioni con la realtà. Ne deriva una generale disillusione, che è tuttavia figlia di un’ingenua illusione. In realtà, il Congresso si è chiuso nell’unico modo possibile: una maggioranza coesa, temprata nella disciplina, rispettosa delle gerarchie e modellata sull’esercizio del potere. La storia del PCC – in questo non dissimile da quella dell’intero paese – ha insegnato che una tale composizione non è antagonista delle novità. La premessa indispensabile per affermare delle riforme è avere un partito forte, che le consenta e non le subisca. Per questo un politburo scevro da componenti eccentriche è la migliore garanzia per procedere verso le riforme. Il discrimine analitico autentico è capire se il cambiamento sia utile al partito e al paese. Solo successivamente si potrà metterlo in atto e per farlo non c’è bisogno di una maggioranza riformista.

La biografia politica dei protagonisti non aiuta a prevedere le loro mosse. Tutti i componenti dell’ufficio politico hanno lo stesso pedigree, un cursus honorum che li ha condotti nelle scuole di partito, nei meandri dell’amministrazione, nelle difficoltà dei governi locali, nei canali opachi delle banche e delle aziende di Stato. Soprattutto, ognuno di loro ha dimostrato di essere duttile, di saper applicare metodi alternativi ma tutti convergenti su un unico obiettivo: far coincidere gli interessi della Cina con quelli del partito. Hanno studiato nelle migliori università cinesi, sono quasi tutti ingegneri, sono intrisi di storia e di cultura cinese. Nessuno di loro è famoso per singolarità, studi all’estero, vita personale fuori dai binari. Per quanto possa apparire inconsueto, è proprio questa regolarità che può condurre alle riforme. La vita politica cinese è piena di queste contraddizioni apparenti. Mao Ze Dong era il leader supremo del partito, la sua direzione era incontestata, ma non esitò a scatenare le Guardie rosse all’attacco del quartier generale del suo stesso partito. Lin Biao era esponente della frazione più radicale del PCC, eppure fu accusato di essere erede di Confucio e di «ammantarsi di sinistra per fare una politica di destra». Deng Xiao Ping è stato infine sempre stalinista, in prima fila nel reprimere gli studenti a Tienanmen, ma passerà alla storia come l’architetto della nuova Cina, prospera e riformata.

Non sarà dunque il rigore dell’ideologia ma il pragmatismo delle scelte che deciderà il destino di eventuali riforme. La procedura del Congresso conferma la necessità della coesione. La scelta del nuovo leader è una conciliazione tra i vari interessi del paese, specchio di una situazione molto più complessa che in passato. La liturgia solenne è rimasta, così come è stato confermato il lessico ottocentesco: plenum, comitato centrale, segretario generale. Eppure una Cina diversa ha imposto una scelta collegiale. Xi è la sintesi della complessità. Più che imporre la propria linea, gestirà un percorso già stabilito. È stato scelto come segretario di unità e progresso. Il miglior modo di procedere è rimanere coesi. Sono consegnati alla storia i tempi della conquista della maggioranza congressuale per le poltrone più ambite e potenti. Oggi non ci sono minoranze da punire o blandire: la linea è unica e condivisa. Le riforme avranno luogo se saranno funzionali.

Se questa è la speranza della Cina, il percorso si presenta invece molto più accidentato. Innovare potrebbe essere una necessità prima ancora che una scelta. Le enormi contraddizioni del paese non renderanno possibile perseverare su un modello di sviluppo che si è rivelato di successo ma che rischia ora di diventare asfittico. Il paese deve uscire da uno schema economico prevalentemente quantitativo, basato su una titanica produzione di merci destinata all’esportazione. Ha il compito di ridurre il risparmio, trasformandolo in consumi per troppo tempo repressi. La Cina non può continuare a basarsi, soprattutto nella crisi, sull’export verso i mercati più ricchi e sull’attrazione degli investimenti delle multinazionali. Deve coltivare l’ambizione di privilegiare industrie tecnologicamente avanzate e poco inquinanti, dopo essere stata per decenni la fabbrica del mondo. La tensione tra Pechino e le Province rischia di esacerbarsi, a causa dell’accesso al credito e della bolla immobiliare che finanzia i governi locali ma rischia di innescare una crisi incontrollabile. Su tutto aleggia la questione sociale, dove le disparità di reddito, di accesso al welfare, di opportunità concesse stanno uscendo dai limiti fisiologici, provocando diffuse manifestazioni di protesta.

Non sarà dunque la genesi dell’Ufficio politico a lasciar prevedere il destino del paese. Sarà invece importante come le contraddizioni generate saranno comprese e gestite. La Cina presa in consegna da Xi è potente ma paradossalmente più fragile. È esposta ai venti della crisi e alle incertezze della globalizzazione. Ha migliorato le condizioni di vita della popolazione ma deve fronteggiare richieste sociali sempre più pressanti. Ha sviluppato una ricchezza invidiabile ma non controlla più pienamente l’informazione a causa dei nuovi mezzi di comunicazione ora disponibili. Deve gestire una situazione nuova, dove l’alternarsi di apertura e censura è essenziale ma difficile. Bisognerà calibrare l’intervento, senza rimanere intrappolati nella sterilità del contrasto tra riformatori e conservatori. Si avvicina un periodo articolato, insidioso e inedito. Grande sarà il disordine sotto il cielo. Ma la situazione non sarà automaticamente eccellente.

 


Foto: Bert van Dijk

le Pubblicazioni


copertina_1_2024_smallPuoi acquistare il numero 1/2024
Dove va l'Europa? | L'approssimarsi del voto per il rinnovo del Parlamento europeo impone una riflessione sulle proposte su cui i partiti e le famiglie politiche europee si confronteranno | Leggi tutto