Transizione, storia, individui, partiti

Di Giacomo Bottos Martedì 24 Luglio 2012 10:27 Stampa
Transizione, storia, individui, partiti Foto: Francesco Pallante

Il dibattito politico in corso è dominato da temi relativi all’organizzazione interna dei partiti. Eppure in questo proliferare di opinioni e polemiche, sembra che alla questione cruciale della funzione dei partiti, della loro rappresentatività e al ruolo stesso della politica non sia data la dovuta importanza. Bisogna dunque dare atto a tutti quei movimenti che se da un lato propongono soluzioni demagogiche, dall’altro pongono delle domande che richiedono risposte urgenti.


Ci si lamenta spesso del fatto che, in un momento di crisi tanto grave per il paese, i partiti si chiudano in discussioni autoreferenziali sulla propria organizzazione (la questione delle primarie, della scelta della leadership, le discussioni tra correnti).

Eppure paradossalmente il problema non è che se ne discuta, ma che, al contrario, non se ne discuta abbastanza, o non abbastanza radicalmente.

È ormai opinione comune che stiamo vivendo un’epocale fase di transizione. Ma non è altrettanto diffusa la consapevolezza che cambiamenti di questo tipo coinvolgono in genere le stesse forme di organizzazione politica. In generale la questione della forma (o non forma: della solidità o liquidità) del partito era tradizionalmente qualcosa di intimamente legato all’analisi della realtà a cui si aderiva. Dall’identificazione dei tratti fondamentali della situazione internazionale, della visione del mondo che si riteneva valida, delle scelte strategiche fondamentali, discendeva come conseguenza necessaria una determinata idea dell’organizzazione del partito.

Ora, di un dibattito del genere, a parte lodevoli eccezioni, al netto del gran polverone di polemiche che si alzano ogni giorno, non si vede traccia.

Da questo punto di vista bisogna, per una volta, dare atto ai molti movimenti di protesta che, pur ponendo problemi fuorvianti, proponendo soluzioni demagogiche e usando toni che non spingono certo alla discussione, effettivamente pongono l’accento su una serie di temi fondamentali: lo statuto della democrazia rappresentativa, la funzione dei partiti, il rapporto tra popolazione ed élite, il ruolo della politica, le modificazioni apportate da internet al vivere sociale. Queste questioni sono fondamentali e solo una risposta teorica forte, che affronti questi nodi in un modo adeguato alla fase storica che stiamo vivendo, in funzione di un progetto politico avanzato, può restituire alla politica quel ruolo che oggi stenta a trovare.

Il processo storico di svuotamento della politica è stato in Italia parzialmente oscurato dal vistoso fenomeno del berlusconismo.

La crisi ha dimostrato che l’anomalia italiana, pur presentando come sempre caratteristiche a sé, si inscrive in un processo storico che ovunque nel mondo ha indebolito il ruolo della politica. Aver trascurato il compito di analizzare questi fenomeni e di inquadrare lo stesso Berlusconi all’interno di essi, preferendo la chiave della facile contrapposizione estero/Italia non solo ha contribuito a fornire il materiale per quella rappresentazione macchiettistica che ora ci viene ritorta contro nell’ambito della crisi, ma – cosa ben più grave – ha anche gradualmente impoverito la politica e la sua capacità di analizzare e influenzare la realtà.

Le cause di questo processo chiaramente vengono da lontano e, benché disponiamo di una vasta fenomenologia di esso (le trasformazioni economiche seguite alla crisi petrolifera degli anni Settanta, la finanziarizzazione dell’economia, il venir meno o la rinuncia alle leve della politica economica, la globalizzazione, l’individualismo, l’ascesa della televisione commerciale, la crisi dei partiti tradizionali, il populismo e via dicendo), una chiara comprensione della natura ultima del processo non è ancora disponibile.

Si trattava di un decorso necessario? In quali forme la politica poteva modificarlo e assicurarsi uno spazio d’azione? Il compromesso socialdemocratico messo in atto nei paesi nordici, che rappresenta un possibile esito alternativo della crisi degli anni Settanta, fu una felice eccezione o avrebbe potuto affermarsi anche altrove? Gli errori fatti nella costruzione dell’Unione europea, che per la sua architettura ha potentemente contribuito a fiaccare le possibilità d’azione della politica e a rendere necessario un indebolimento o una limitazione delle garanzie dello Stato sociale, erano evitabili? Poteva invece l’Unione europea diventare il più potente strumento per l’affermazione di quelle garanzie e di quei valori propri della sinistra? È questo un esito possibile ancora oggi?

Le domande si accumulano, per ora senza una risposta certa, ma è significativo anche solo il fatto che ora queste domande possano essere poste. Significa che ora è possibile pensare nuovamente il compito della politica in maniera più allargata, non come amministrazione dell’esistente, ma come progettazione di un mondo possibile. Non si tratta però di un altro mondo, come pensavano i movimenti no-global. Si tratta di pensare questo mondo, ma non più come qualcosa di fisso e immodificabile, ma come un qualcosa che contiene in sé virtualità e possibilità differenti, che possono o meno realizzarsi a seconda del pensiero e dell’agire degli uomini.

Ma è la stessa individualità umana che va ripensata. Il rapporto tra individuo e società, che aveva certe configurazioni nelle società tradizionali, è andato incontro a profonde modificazioni dovute all’affermarsi della società dei consumi e anche dei movimenti riconducibili al Sessantotto. Se da un lato, indubbiamente, alcuni degli esiti delle battaglie portati avanti da questi movimenti sono stati positivi, dall’altro non si può non osservare come le rivendicazioni si siano progressivamente concentrate sempre di più sui diritti dell’individuo, distogliendo l’attenzione da quelle condizioni sociali (e dunque inevitabilmente anche economiche) all’interno delle quali l’individualità si sviluppa. Non si tratta di contrapporre individuo e società e di privilegiare la seconda a scapito del primo, ma di concepire una relazione positiva tra i due termini, di pensare un individuo che si realizza nella società e attraverso la società e non contro di essa.

È solo pensando così l’individualità che le organizzazioni collettive possono funzionare e avere un senso. In questo cambiamento, che potrebbe essere uno degli effetti possibili (virtuoso) della crisi, potrebbe radicarsi una ripresa di significato dei partiti, dei sindacati e degli altri corpi intermedi. Questo potrebbe essere particolarmente vero per la generazione che studia in questi anni e che è naturalmente portata dal contesto a porsi domande su questioni in precedenza date per scontato.

Naturalmente, perché questo possa avvenire, i partiti e le organizzazioni stesse devono rinnovarsi. Chiedersi in che modo debba avvenire questo rinnovamento e con che mezzi rappresenta la questione più urgente, che deve avere priorità logica (anche se non necessariamente temporale) rispetto al rinnovamento delle persone.

L’attenzione a determinati strumenti procedurali (come le primarie o la legge elettorale) ha veicolato l’illusione che tali mezzi potessero sostituire il contenuto, che bastasse che il partito si facesse passivo veicolo e recipiente degli stimoli provenienti dalla società, concepita come un serbatoio di infinito “pluralismo” e ricchezza di idee. Ma, una volta che si concepisce tale “pluralismo” come infinita varietà di opinioni e si considera la stessa presenza di questa molteplicità di opinioni come un qualcosa da tutelare, come se si trattasse di “specie protette”, si rende impossibile per principio la sintesi politica, facendo sì che il contenuto reale della politica non sia altro che un equilibrio nella spartizione del potere tra “correnti” e “sensibilità” diverse.

Questa retorica del “pluralismo” non è un fenomeno slegato dai processi storici accennati. Nel momento in cui l’individuo viene considerato isolatamente, staccato dal suo contesto sociale, è chiaro che diventa della massima importanza tutelarne le specificità e le differenze, nei confronti delle quali le strutture sociali non possono che apparire minacciosi e oppressivi mostri burocratici omologanti. Ma se invece si passa a una concezione per cui la società rappresenta un’occasione di crescita e di arricchimento per il singolo ecco che le diverse posizioni smettono di essere rigidamente opposte, ma diventano i presupposti per un dialogo e gli elementi per la costruzione di idee e di pratiche comuni, per un’unità di azione che sottragga il singolo alla sua impotenza e che gli dia gli strumenti per un agire realmente efficace e una comprensione attiva della realtà in cui vive.

Come questo possa avvenire dovrebbe essere esattamente il tema della discussione. Discussione che dovrebbe rifuggire da due estremi segretamente concordi. Il primo è che il passato possa essere restaurato tour-court, chiudendo i trent’anni passati come una infelice parentesi. Il secondo consiste nell’affidarsi ancora una volta a speranze palingenetiche riposte in nuovi strumenti come internet.

Anche qui, l’analisi dei cambiamenti avvenuti nelle modalità di interazione sociale non dovrebbe essere oggetto né di esecrazione né di esaltazione, ma di una valutazione e di una previsione spassionata, che valuti se e come nuove modalità possano essere integrate (e non sostituire) ad altre forme tradizionali che il mutamento storico potrebbe rendere nuovamente attuali.

Si tratta di attuare una sintesi culturale e pratica al tempo stesso, in cui comprensione e creazione di forme nuove vadano di pari passo. Non era del resto questo quello a cui pensava Gramsci quando parlava di intellettuale collettivo?

 


Foto: Francesco Pallante

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