Caucaso: il grande gioco, ancora

Di Stefano Rizzo Martedì 12 Giugno 2012 16:00 Stampa
Caucaso: il grande gioco, ancora Foto: U.S. Department of State

Oggi come nell’Ottocento i paesi del Caucaso ritornano al centro di un “grande gioco” diplomatico fra le potenze per esercitare influenza su una regione strategicamente importante. A essere cambiati sono, in parte, i protagonisti del gioco. Scomparsa da tempo la Gran Bretagna, sono gli USA, la Russia, la Cina, l’Iran e, ultimo arrivato, Israele a contendersi l’amicizia dei paesi della regione.


Per tutto l’Ottocento i diplomatici chiamarono “grande gioco” il conflitto tra i due maggiori imperi dell’epoca, quello russo e quello britannico, per il controllo del Caucaso e dell’Asia centrale. Per la Gran Bretagna il Caucaso era essenziale come via di accesso verso l’India, e per la Russia si trattava del suo “vicino esterno”, che tendeva a incorporare progressivamente nell’impero. Fu un conflitto diplomatico e militare, contrassegnato da almeno due guerre sanguinose (prima e seconda guerra anglo-afgana), che alla fine vide la Gran Bretagna – fortemente indebolita dopo la prima guerra mondiale – soccombere a vantaggio dell’Unione Sovietica erede della Russia zarista.

Dopo la seconda guerra mondiale, che catapultò gli Stati Uniti sulla scena mondiale come grande potenza, il Caucaso venne tacitamente considerato zona di influenza sovietica (del resto molti dei suoi Stati erano parte integrante dell’URSS). Dopo il 1989, con la fine della guerra fredda e la scomparsa dell’Unione Sovietica, si riaprirono i giochi. A quel punto gli Stati Uniti erano l’unica superpotenza mondiale, e interessi militari ed economici spingevano per la sua espansione nella regione. Il grande gioco, questa volta fortunatamente solo sotto forma di schermaglie diplomatiche, riprese tra Russia e Stati Uniti che si combatterono a colpi di miliardi di dollari per influenzare i diversi regimi della regione, di qua e di là dal Mar Caspio, stringere alleanze militari, ottenere concessioni di sfruttamento petrolifero e basi militari.

La situazione si era già complicata a partire dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e soprattutto dopo la fine della guerra fra Iraq e Iran (1980-88), che avevano trasformato quest’ultimo in una potenza regionale ostile agli Stati Uniti (che ricambiava e ricambia l’ostilità) e alleato della Russia.

Lo scenario regionale è reso ancora più complesso dall’estrema frammentazione e dalla conflittualità etnica e religiosa, al cui confronto i Balcani sembrano un territorio omogeneo e privo di conflitti. In un’area di un milione di chilometri quadrati convivono (e spesso si combattono) almeno venti etnie diverse sparpagliate in sette paesi: curdi, turchi, daghestani, turkmeni, armeni, azeri, russi, georgiani, persiani, arabi; molti altri gruppi minori sono presenti nei diversi paesi della regione come maggioranze o cospicue minoranze.

In Iran circa il 20% della popolazione è costituito da azeri, concentrati nelle province settentrionali al confine con l’Azerbaigian. All’interno dell’Azerbaigian la regione del Nagorno-Karabak, contesa con l’Armenia e teatro di conflitti armati ancora non risolti tra i due paesi, è popolata a larghissima maggioranza da armeni. Al di là del confine, a occidente, stretta tra Iran e Armenia, c’è la regione chiusa (exclave) del Nakhichevan, un tempo popolata in ugual misura da armeni e azeri, e ora quasi soltanto da azeri, che fa parte integrante dello stato azerbaigiano.

Per gli Stati Uniti la regione riveste un’importanza strategica analoga a quella che ebbe per la Gran Bretagna, ma per ragioni diverse: non solo i rifornimenti petroliferi e il controllo di gasdotti e oleodotti, ma – ora che le difficili relazioni con il Pakistan hanno chiuso le vie di transito verso l’Afghanistan – anche come testa di ponte per i rifornimenti militari alle truppe americane ed europee. Di qui l’alleanza sempre più stretta tra Stati Uniti e Azerbaigian, in nome della quale si chiude volentieri un occhio sulle violazioni dei diritti umani da parte del regime. Difficilmente il segretario di Stato Hillary Clinton, in visita la scorsa settimana a Baku ne avrà parlato con il presidente Ilham Aliyev. Gli Stati Uniti giocano anche sull’ostilità tra Azerbaigian e Iran, alimentata dalla forte minoranza di azeri presenti oltre confine, con rivendicazioni territoriali che potrebbero esplodere in conflitti aperti. Allo stesso tempo le possibilità di manovra degli Stati Uniti sono limitate dalla politica interna, vale a dire dalla presenza di una forte comunità di armeni-americani (arrivati nel paese dopo il genocidio degli armeni compiuto dalla Turchia all’inizio del secolo scorso), che – in analogia con le pressioni esercitate dai cubano-americani o dagli ebrei americani – influenzano la politica estera americana a favore dell’Armenia e contro l’Azerbaigian. A titolo di esempio: la comunità armena è riuscita a bloccare la nomina ad ambasciatore americano a Baku di uno stimato diplomatico perché ritenuto troppo filo-azero.

Nel grande gioco è entrato di recente anche Israele, alla ricerca di alleati nel Caucaso dopo la rottura con la Turchia avvenuta in seguito a una serie di gravi incidenti diplomatici, tra cui l’uccisione nel maggio 2010 di nove turchi da parte delle forze israeliane nel corso dell’attacco alla flottiglia diretta verso Gaza (le relazioni diplomatiche tra i due paesi sono attualmente interrotte). È, infatti, di qualche giorno fa la notizia che il governo israeliano ha concluso con quello azerbaigiano un accordo per la vendita di armamenti del valore di 1,6 miliardi di dollari I due paesi hanno però smentito altri accordi per la concessione di basi militari che Israele potrebbe utilizzare per colpire, da distanza ravvicinata, gli impianti nucleari iraniani.

La Russia per parte sua si barcamena tra Iran e Azerbaigian: sostiene il primo sulla scena internazionale opponendosi alle sanzioni contro di esso, e sta rinegoziando con il secondo la concessione della base aerea di Gabala (come di altre basi militari nel Caucaso e in Siria), per rinnovare la quale l’Azerbaigian ha chiesto – sembra su indicazione degli Stati Uniti – condizioni estremamente onerose. Anche la Cina ha una partita da giocare nella regione, sia in quanto alleato e importante partner commerciale dell’Iran, sia perché condivide con la Russia l’obbiettivo di estromettere gli Stati Uniti e la NATO dall’Afghanistan e in generale dall’Asia centrale (Caucaso ed ex “stan” sovietici – Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan – con i quali la Cina ha stretto rapporti di collaborazione, anche militare, attraverso l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione).

Di fronte all’intensificarsi dei rapporti di collaborazione militare tra Israele e Azerbaigian, l’Iran ha da un lato minacciato ritorsioni, chiudendo come primo gesto la frontiera che consente alle merci azere di raggiungere l’exclave del Nakhichevan, e dall’altro – in perfetto stile da aspirante potenza egemone – ha promesso incentivi economici e culturali alla minoranza azera sul suo territorio, cercando così di conquistare il favore degli azeri oltre confine. Anche l’Iran, infatti, è alla ricerca di nuove alleanze per contrastare il suo crescente isolamento internazionale, tanto più ora che la posizione del suo alleato storico nel mondo arabo, la Siria, si sta facendo sempre più pericolante. Ad esempio, ha intensificato le profferte di collaborazione economica con il Libano, anche al di là della relazione speciale che ha da sempre con Hezbollah, finanziando la ricostruzione delle zone meridionali del paese bombardate da Israele nella guerra del 2006 e progettando una grande diga nel nord per la produzione di energia elettrica.

Si tratta di mosse e contromosse condotte da tutti i giocatori della regione – potenze grandi, medie e piccole – esclusivamente secondo una logica di potenza e con le regole classiche della diplomazia, dell’egemonia e delle pressioni economico-militari. Questa volta i conflitti etnici e religiosi c’entrano poco o nulla: l’Iran sciita e integralista è pronto ad allearsi con l’Azerbaigian che si proclama allo stesso tempo laico e musulmano. Gli ebrei israeliani sono pronti ad armare un paese musulmano (l’Azerbaigian) per avere carte migliori da giocare contro un altro (l’Iran). L’Armenia cristiana cerca il sostegno dell’Iran musulmano contro la Turchia e l’Azerbaigian, entrambi musulmani. “Scontri di civiltà” (come li chiamava il politologo Samuel P. Huntington) o di etnie o di religioni, se ci saranno, saranno soltanto un pretesto.

Le vere ragioni dello scontro sono l’esercizio del potere nudo e crudo da parte degli Stati, così come successe nel corso del Novecento in Europa dando luogo ai due devastanti conflitti mondiali. Speriamo che il Caucaso non sia l’incunabolo del terzo, come i Balcani lo furono del primo e l’Europa centrale (i Sudeti, Danzica) del secondo.


Foto: U.S. Department of State

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