Tragedia o libertà: una lettura della crisi europea

Di Giacomo Bottos Martedì 29 Maggio 2012 17:37 Stampa

La tragedia greca può ben rappresentare una metafora della crisi economica e politica che l’Europa sta attraversando. Come nella tragedia, infatti, anche nei paesi europei gli attori agiscono in base a leggi sovraordinate che possono condurre a un drammatico epilogo. La differenza sta nella capacità di scelta che gli Stati europei possono ancora esercitare.


In tanti, nel corso di questa crisi che ha ormai compiuto due anni, hanno paragonato il suo sviluppo a quello di una tragedia, associazione resa facile dal suo sorgere in Grecia.
Eppure si tratta di un’associazione sotto molti aspetti forse più pregnante di quanto non immaginino generalmente i suoi estensori.
Come in ogni tragedia che si rispetti c’è una sinistra profezia – quella sulla disgregazione dell’eurozona e forse della stessa Unione europea – che evoca scenari apocalittici di sofferenza e distruzione.
Inoltre, tutto ciò che i personaggi della tragedia fanno per sottrarsi a questo infausto esito, non fa altro che condurli ancora più vicino all’orlo dell’abisso. Ogni sforzo sembra essere vano, l’efficacia di qualunque sacrificio svanisce nel giro di poco tempo.
L’intero sviluppo degli eventi – e questo è il proprium della tragedia – sembra svilupparsi secondo una logica fatalistica, attuando progressivamente e ineluttabilmente un destino prefissato.
Da qui scaturisce la profonda sfiducia e depressione delle popolazioni – ridotte a coro impotente che canta la propria sventura – che non solo sono sottoposte a molteplici privazioni materiali, ma non hanno più nemmeno la speranza che quelle privazioni possano servire a immaginare un futuro migliore, o semplicemente un futuro in quanto tale

Ma c’è un altro elemento, più profondo, che accosta questo momento storico alla forma narrativa della tragedia, che costituisce il segreto e – al tempo stesso – il punto debole della logica tragica e che permetterebbe, se compreso, di rovesciarla. Nella tragedia i personaggi agiscono non tanto per decisione e volontà propria, quanto per dare attuazione a leggi confliggenti, a loro sovraordinate, di cui sono espressione, e la cui attuazione non può che dare origine all’esito tragico.
Similmente l’architettura europea – con i suoi vincoli, i suoi parametri giuridici, la sua cultura incapace di concepire le crisi – assegna ai diversi personaggi di questo dramma – capi di Stato, funzionari europei, esponenti della Banca Centrale – dei ruoli che presentano caratteristiche affini.
Si crea una sinistra scissione tra il linguaggio di questi personaggi, che parlano di stabilità, rigore, fiducia, crescita e ciò che il loro comportamento nei fatti produce e accelera: instabilità, perdita di controllo sui bilanci, pessimismo e recessione. Forse essi sono soggettivamente consapevoli di questo paradosso. Eppure, diceva Keynes discutendo un caso simile – la questione delle riparazioni di guerra imposte alla Germania dopo il primo conflitto mondiale, anch’esse economicamente dannose e inattuabili – «ciò che si dice di fronte al mondo lascia sempre un segno più profondo dei sussurri sotterranei e dei bisbigli beninformati la cui conoscenza permette all’opinione “interna” di sentirsi superiore all’opinione “esterna” anche nel momento in cui le si sottomette». Il linguaggio pubblico crea in ogni modo dei vincoli e delle obbligazioni e costringe a indicare ciò che veramente andrebbe fatto come “sforamento” e “violazione dei parametri”.
Si crea così una perversa logica per cui, mentre i paesi “forti” chiedono la rigorosa attuazione dei patti, quelli “deboli”, consapevoli della follia implicita in questi ultimi, ma obbligati ad accettarli per assenza di alternative, cercano di limitare il danno cercando scappatoie che li rendano meno vincolanti, calandosi ancora di più sul viso la maschera del “mediterraneo levantino” che è stata creata per loro. Per questo sono costretti a giocare in difesa, ponendosi come massimo obiettivo quello di ritardare, o nel migliore dei casi congelare, lo sviluppo dello scenario apocalittico. Ma chi si consegna all’empirismo è alla lunga destinato a soccombere a chi ha in mano un’interpretazione globale dei fatti, per quanto assurda e falsata. Per questo la tragedia continuerà a fare il suo corso.

Esiste però un’alternativa. Se la logica della tragedia si sviluppa in base al predominio astratto della norma, che viene fatta valere nella sua durezza e necessità contro qualsiasi considerazione, si tratta di contrapporre a essa un’altra logica, radicalmente diversa. All’idea del “vincolo esterno” e alla sfiducia in se stessi e nell’umanità che esprime, bisogna contrapporre la libertà come autodeterminazione e responsabilità. Alla paura del futuro e del cambiamento che si esprime nell’idea di vincolare giuridicamente Stati e popoli in un’architettura statica bisogna rispondere con il coraggio della politica che non si pone al di sopra delle norme, ma le interpreta e le adegua a un mondo in radicale divenire. Contro un’unione in cui il discorso pubblico si snoda tra le due possibilità del politically correct e del pregiudizio, dell’elitismo e dell’ignoranza, bisogna lavorare per una presa di coscienza collettiva che vada finalmente verso un ethos comune.

Si tratta di scegliere. Ma nella tragedia non c’è scelta. Per questo, c’è un’unica scelta possibile: quella di essere liberi.
Altrimenti questa non sarà solo la fine dell’Unione europea, dell’euro o del Mercato comune.
Sarà la fine dell’Europa.

 

 


Foto: Marco Garro

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