Presidenziali francesi: quale visione strategica per la Francia di domani?

Di Gianluca Briguglia Venerdì 04 Maggio 2012 12:05 Stampa

Durante la campagna per le elezioni presidenziali che sta per concludersi i francesi più volte sono stati messi a confronto con gli interrogativi relativi al posto della Francia nel mondo nell’immediato e nel più lontano futuro. È forse giunto il tempo, per i francesi ma non solo per loro, di darsi un nuovo progetto strategico nazionale.


Il duello televisivo tra Hollande e Sarkozy è stato ciò che doveva essere: un format televisivo che conferma la maggior parte degli elettori nelle proprie scelte e che sposta un numero di voti non così significativo in una campagna di questo tipo. I giochi, insomma, sono fatti, anche se il risultato non lo conosciamo.

Interessante è allora, a mio avviso, fare brevemente il punto su alcune idee e prospettive poste all’attenzione o affiorate nella campagna presidenziale e che potrebbero divenire centrali nei prossimi mesi o anni (o in certi casi nelle prossime scadenze elettorali di alcuni paesi europei).

Dal punto di vista strettamente politico (e politologico) importante sarà nei prossimi mesi in Francia il tema del rapporto tra le due destre, cioè la destra fino a oggi di governo (tre mandati presidenziali consecutivi) ispirata ai principi del neogollismo, e la destra estrema del Fronte Nazionale, che affonda le sue radici nel buco nero della guerra d’Algeria, vero e proprio antefatto della Quinta Repubblica.

Più in generale, a destra è emerso un tema molto interessante, rilanciato soprattutto nelle ultime settimane di campagna da Sarkozy, cioè quello del ruolo della “nazione” in un mondo globalizzato. Certo, spesso si è usato un lessico che è sembrato otto-novecentesco, ma non per questo la tematizzazione del concetto di nazione (e soprattutto dello Stato) nel processo della mondializzazione dell’economia è risultata inutile o semplicemente ideologica.

Legata in certo modo a questo orizzonte, ma forse meglio precisata, è stata la preoccupazione per la lealtà o slealtà del commercio globale. Sia a destra che a sinistra, seppure con toni anche molto differenti, è emerso l’interrogativo sulla capacità dell’Europa – che si è data una rigida dottrina di economia di mercato e insieme di salvaguardia di diritti e condizioni di lavoro – di reggere il confronto con le aree forti o emergenti del globo, che dosano con minore rigidità gli interventi statali nell’economia o che hanno bassissimi standard di tutela del lavoro e dell’ambiente. Come reagire alla slealtà commerciale? È possibile imporre la reciprocità di determinati comportamenti commerciali (perché il mercato delle forniture pubbliche in Europa è aperto a tutti mentre in Cina è chiuso?) e prendere misure unilaterali o concordate con tutti gli altri Stati europei? Sono temi urgenti, anche se il lento colosso dell’Unione europea sembra non accorgersene.

La riforma delle istituzioni finanziarie è stata al centro di molti dei programmi dei candidati del primo turno. In particolare, dal Front de Gauche sono stati costantemente sottolineati alcuni apparenti paradossi finanziari, come il flusso di denaro a tasso molto basso erogato dalla Banca centrale europea alle banche private che, con quel denaro, a tasso molto più alto, comprano il debito degli Stati nazionali. Non sarebbe il caso – si è chiesto spesso Mélenchon – di finanziare direttamente il debito? Naturalmente la BCE ha quel ruolo rispetto alle banche, ma è stato interessante rilevare questa contestazione dei dogmi della finanza, che ha aperto una discussione più ampia, fatta propria da tutti i candidati, sull’impellenza di ripensare alcune difese dal sistema finanziario e il ruolo delle banche nell’economia “reale”.

Alcune possibili riflessioni strategiche sono apparse in modo più implicito. Ad esempio, la proposta di Hollande di assumere 60.000 nuovi effettivi nella scuola (intesi in senso ampio, quindi non solo insegnanti) a scapito di altri settori dell’amministrazione pubblica ha posto l’attenzione per molte settimane, dibattito finale incluso, soprattutto sugli aspetti contabili e le conseguenze sul debito, ma avrebbe potuto contribuire maggiormente a porre una questione di ordine generale: in uno Stato che sopporta un alto debito pubblico e che attraversa un lungo periodo di crescita modesta, non è forse meglio concentrarsi su alcuni investimenti massicci in alcuni settori, sottraendo risorse a settori considerati meno importanti in quel momento? Come si determina in questo senso la strategicità delle scelte? Forse porre questo tipo di questioni, partendo dalla concreta proposta di investimento nell’educazione nazionale, avrebbe contribuito a delineare meglio un progetto e una visione del paese e avrebbe avuto una funzione di avanzamento del dibattito pubblico perché avrebbe costretto a pensare collettivamente in termini di strategia nazionale.

Il tema rimane dunque ancora tutto da esplorare e non è escluso che possa essere posto anche, come altri fra quelli qui ricordati, nel dibattito pubblico delle prossime importanti campagne elettorali europee, quella tedesca e quella italiana.

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