Esiste una questione generazionale nell’Italia di oggi?

Di Giacomo Bottos Lunedì 03 Ottobre 2011 17:03 Stampa
Esiste una questione generazionale nell’Italia di oggi? Foto: Stefano Zuliani

Il problema dei giovani in Italia, del futuro incerto e delle poche opportunità che il nostro paese offre loro, è una questione ormai talmente tanto vecchia, da indurre a pensare che forse sarebbe opportuno cambiare prospettiva. Ovvero chiedersi se per trovare risposte, non sia meglio riflettere di più sulle domande.


Pare una domanda oziosa: la longevità stessa della discussione sulla questione sembra dimostrare a sufficienza tutta la consistenza e la gravità del problema.

Ma forse è proprio questa longevità che dovrebbe renderci perplessi. Parlare di una questione in modo fuorviante contribuisce più a occultare la soluzione del problema che a rivelarla. Se poi alle spalle di una domanda mal posta sta un intero modo di pensare e un sistema di interessi tra loro coerenti, allora si rischia di ridursi a brancolare indefinitamente in un oscuro labirinto di falsi problemi. Non è quindi forse inutile oggi, prima di cercare le risposte, prendersi un po’ di tempo per riflettere sulle domande e sulle parole.

E la prima parola di cui sospettare è proprio quella che sembra più pianamente designare l’oggetto del nostro discorso. I “giovani”, naturalmente. I giovani sono i grandi protagonisti di questa narrazione, che, per come è costruita, presenta sempre un duplice aspetto, negativo e positivo.

I giovani senza futuro, ma anche senza legami con una storia fallimentare di violenza e divisione. I giovani precari, ma dinamici e dall’identità liquida. I titolari di una laurea che vale sempre meno, ma che sono internazionali perché vanno all’estero con il progetto Erasmus.

Si potrebbe continuare, ma per quanto si aggiungano dettagli questa figura del giovane si riproduce sempre identica nella sua sostanza. Cosa indica questa persistenza, di cosa è sintomo?

Il Giovane del nostro immaginario non è, ad esempio, il giovane del romanzo di formazione ottocentesco. Le esperienze che fa non gli servono per crescere, per mettersi in discussione e alla prova, per cercare il senso della sua esistenza e la sua vocazione. Le prove che è chiamato ad affrontare, come gli esami o la laurea – quelli che un tempo erano riti di passaggio – vengono sistematicamente svalutate e ridotte a mere certificazioni burocratiche. Si crea dunque un’indefinita continuità, un ininterrotto fluire e disperdersi del tempo, un’accumulazione di conoscenze e di cose che si fanno, che non ha in linea di principio alcun limite.

Una giovinezza così concepita è per definizione senza fine. Un Dorian Gray senza tragedia, né passione, senza più il fascino del peccato e della trasgressione e soprattutto senza punizione, perché senza colpa, questo è il giovane dell’immaginario degli ultimi decenni.

E anche quando gli aspetti più attraenti del racconto rivelano la loro vacuità, travolti dal corso degli eventi, il “personaggio” del giovane non cessa di esercitare attrazione, in quanto risponde in modo illusorio a bisogni reali. Una narrazione vittimistica e consolatoria, sempre e concordemente ribadita attraverso tutti i mezzi di comunicazione crea un ruolo socialmente riconosciuto, permettendo così a molti di riconoscersi in esso, trovando più facile accettare la propria condizione. Essenziali a questo fine sono i numerosi capri espiatori e bersagli polemici da incolpare. Se è vero che spesso si attribuisce la colpa ai giovani stessi, questo discorso è in verità solidale con la sua antitesi, che rifiuta sdegnata questa attribuzione di colpa e la getta invece contro i “vecchi”, contro la casta e il sistema del privilegio che impedisce ai giovani l’accesso alle leve del potere e della responsabilità. Di fronte a questa antitesi apparente, a questo falso dibattito non bisogna scegliere l’uno o l’altro corno del dilemma, ma semplicemente rifiutare i termini della questione, dire che essa è male impostata e se si continua su questa via non si arriverà mai da nessuna parte.

È necessario denunciare la falsità di un modo di pensare che ragiona per figure piatte, macchiette e dicotomie manichee; che non a caso è stato la cifra di un'’epoca che ha fatto – e non solo in Italia, come oggi vediamo bene – della satira il suo linguaggio e del populismo la sua espressione politica. Questo linguaggio e questo modo di pensare si reggevano sul presupposto che le scelte politiche, nel senso forte del termine, non fossero più necessarie, o comunque che potessero essere ricondotte a una semplice pratica di buona e razionale amministrazione dell’esistente. Le linee generali corrispondevano a un ordine fissato ed erano, a parte marginali miglioramenti, immutabili. In definitiva, non c’era politica perché non c’era Storia.

Ma se non c’è Storia non possono esserci nemmeno veramente individui. Individuarsi significa definirsi in opposizione, ma anche in rapporto, al proprio tempo e al passato, in particolare al passato dei nostri padri, della generazione precedente alla nostra. Questo implica saper criticare e apprezzare, condannare gli errori e riconoscere le scelte che meritano di essere portate avanti, che devono avere un futuro. Implica quindi conoscenza e discernimento. Il perseguimento di tale conoscenza equanime è stato troppo a lungo trascurato nel passato recente e ora ci troviamo di fronte a fenomeni generalizzati di scarso discernimento.

Ma certo qualcosa è cambiato, e molto rapidamente. La Storia si è rimessa in moto ed è tornata prepotentemente a toccare da vicino le nostre vite, facendo giustizia di un mondo e un immaginario che si è rivelato per quello che era, una finzione. L’importanza delle questioni in gioco, la grandiosità dei processi che si dispiegano di fronte a noi, la tragicità dello spettacolo fanno risultare in viva luce la pochezza di tante idee e persone.

È da qui, dalla presa d’atto disincantata, ma non cinica della durezza della realtà, della difficoltà dei problemi in gioco e dell'insufficienza di gran parte delle soluzioni proposte, che può partire una genuina presa di coscienza di una generazione. Non è facendosi cucire addosso narrazioni autocommiseratorie e sfogando una vuota rabbia che le cose potranno essere cambiate.

Ciò avverrà solo se questa generazione sarà in grado di prendere sul serio la sfida di essere all’altezza di tempi difficili.

 


Foto di Stefano Zuliani

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