L’ennesima toppa all’Unione monetaria

Di Ronny Mazzocchi Mercoledì 27 Luglio 2011 17:16 Stampa
L’ennesima toppa all’Unione monetaria Foto: Vincent de Groot

I piani di salvataggio e di gestione del debito delineati dall’ultimo Consiglio europeo sono insufficienti e, ancora una volta, fanno emergere l’immagine di un’Europa capace soltanto di mettere a punto soluzioni tampone.


L’entusiasmo che ha circondato l’accordo sul pacchetto “salva Grecia” faticosamente raggiunto a Bruxelles nel corso del Consiglio europeo straordinario del 21 luglio è rapidamente svanito. A dirlo non è soltanto l’andamento dei mercati, che dopo l’iniziale apprezzamento, sono tornati a mettere sotto pressione i titoli di debito dei paesi mediterranei, ma anche la maggior parte degli editorialisti economici dell’intero continente. Infatti una lettura più attenta e meditata del testo dell’accordo ha portato quasi tutti a concludere che, pur fra i molti elementi positivi, i governi europei siano arrivati per l’ennesima volta a prendere decisioni sull’onda dell’emergenza. C’è una diffusa consapevolezza che quella trovata sia una delle tante soluzione tampone, incapace di risolvere in modo definitivo i problemi presenti sul tavolo. L’immagine che esce da questi due anni di crisi è di una Europa che, nel suo incedere, continua a prendere a calci un barattolo per poi ritrovarselo sistematicamente fra i piedi dopo pochi passi.

Ma iniziamo da un po’ di numeri. Il pacchetto di aiuti su cui si è raggiunto un difficile accordo vale complessivamente ben 172 miliardi di euro: 57 miliardi proverranno dal vecchio pacchetto di aiuti, 55 miliardi saranno ottenuti attraverso un pacchetto addizionale il cui finanziamento sarà per due terzi a carico dell’European Financial Stability Facility (EFSF) e il restante terzo a carico del Fondo Monetario Internazionale, 30 miliardi arriveranno attraverso il coinvolgimento del settore privato e altri 30 miliardi dovranno arrivare dal pacchetto di privatizzazioni che il governo greco dovrà approvare nelle prossime settimane.

Sicuramente sono stati fatti enormi passi avanti rispetto ai giorni in cui i leader europei escludevano in modo categorico la possibilità di concedere aiuti ufficiali e una qualsiasi ristrutturazione del debito dei paesi in difficoltà. La prima importante novità riguarda indubbiamente il tentativo di provvedere, con diverse forme, a una ricontrattazione del debito, coinvolgendo – seppur in forma volontaria – il sistema finanziario privato.

Ben venticinque fra le maggiori banche europee, fra cui Deutsche Bank, BNP Paribas e Intesa San Paolo, si sono già dichiarate disposte a partecipare a un piano che preveda la conversione degli attuali prestiti obbligazionari greci in una combinazione di quattro diversi strumenti di investimento. Tuttavia restano molti dubbi sulla reale efficacia di un piano di questo tipo. Anche nello scenario più ottimista, infatti, la ricontrattazione del debito ellenico determinerebbe una riduzione del suo valore nominale di poco più del 20%, facendolo scendere dall’attuale 156% al 132% del Pil. Si tratta di un ammontare assolutamente insufficiente per garantire la sostenibilità del debito nel medio periodo, anche nell’ipotesi che il governo greco rispetti sia il pesante calendario pluriennale di consolidamento fiscale sia il piano di privatizzazioni di fatto imposto dall’Unione europea. Buona parte degli economisti, infatti, stima che sarebbe necessario un haircut sul valore nominale del debito pari a circa il 50%, un taglio difficilmente praticabile attraverso un piano di coinvolgimento “volontario” dei creditori.

La seconda novità riguarda, invece, la possibilità dell’EFSF di poter acquistare titoli del debito pubblico sul mercato secondario, un’opzione che di fatto libera la Banca Centrale Europea da alcuni dei compiti che finora ha svolto, attenuandone contemporaneamente le resistenze al finanziamento del settore bancario eventualmente coinvolto in un default. Tuttavia proprio questa nuova facoltà per l’EFSF apre un’importante questione che, più che economica, è soprattutto politica.

La pressione della classe dirigente tedesca per evitare che la BCE si dichiarasse disposta a monetizzare il debito dei paesi in difficoltà – allontanandosi quindi da quello che era il suo modello di riferimento, cioè la Bundesbank – ha finito paradossalmente per trasformare la Germania nell’ultimo paracadute del rischio dell’intera Unione monetaria. L’annunciato raddoppio dell’attuale dotazione del fondo di salvataggio, da 400 a 800 miliardi di euro, rischia di non essere sufficiente a mettere in sicurezza l’area euro. Un allargamento efficace dell’EFSF, capace di coprire anche l’Italia e il Belgio, richiederebbe infatti l’innalzamento delle sue potenzialità almeno fino a 1450 miliardi di euro, sostenute da un totale di 1700 miliardi di garanzie. Ma è davvero difficile pensare che a questi conferimenti possano provvedere quei paesi già pesantemente provati da mesi di strette fiscali, per giunta attuate in un contesto di bassa crescita ed elevata disoccupazione.

Il rischio è che in presenza di ulteriori pressioni dei mercati sui titoli del debito dei cosiddetti PIIGS le garanzie da essi fornite possano perdere completamente valore, costringendo quindi i paesi sani a farsene carico al posto loro. Si calcola che nel caso di un pesante declassamento del debito pubblico italiano, le garanzie fornite dalla Germania dovrebbero salire addirittura fino a 790 miliardi di euro, ovvero un terzo del suo PIL, una cifra difficilmente sostenibile anche per il gigante tedesco.

L’unica soluzione praticabile – come ormai stanno suggerendo in molti – sembra essere quindi quella di provvedere all’emissione di Eurobond per permettere all’EFSF di finanziarsi direttamente sul mercato e spegnere sul nascere gli incendi nella foresta dei debiti sovrani. Ma le resistenza su questo punto sono molto forti: la Bundesbank, appoggiata da buona parte del fronte liberalconservatore tedesco, ha già lanciato l’allarme sottolineando come una comunione dei rischi fra i vari paesi della zona euro potrebbe incentivare comportamenti opportunistici da parte dei singoli governi nazionali che renderebbe ancora più difficile una gestione ordinata della finanza pubblica continentale. La paura non dichiarata è che l’approccio solidaristico che sta dietro l’introduzione degli Eurobond, proprio per evitare l’azzardo morale dei singoli paesi, possa spingere verso una modifica dell’assetto istituzionale europeo e la creazione di un Tesoro unificato a livello comunitario, che finirebbe però per vincolare le scelte di politica economica anche dei paesi forti, in primis la Germania.

Ma a gettare i dubbi più grossi sull’accordo europeo è il fatto che, anche questa volta, sembra ci si sia limitati ad intervenire sugli effetti, trascurando invece le cause di una crisi che viene da lontano. L’esplosione dei debiti pubblici dei PIIGS è infatti la conseguenza, diretta o indiretta, di una costruzione europea che sin dall’inizio ha mostrato pesanti limiti e forti rischi.

La costituzione dell’Unione monetaria ha infatti favorito un enorme flusso di capitale dai paesi centrali dell’Europa a quelli periferici che – al contrario di quanto veniva sostenuto a gran voce da molti economisti – invece di finanziare l’industria manifatturiera e colmare il gap di competitività con i paesi più avanzati, ha finito per determinare una gigantesca bolla speculativa immobiliare e un pesante indebitamento privato o pubblico.

La crescita della produttività, che pure c’è stata in questi paesi, è stata più che compensata dall’aumento dei salari nominali (causati da una dinamica più vivace dell’inflazione), determinando così una perdita di competitività e un peggioramento delle partite correnti. Basti pensare che nel 2010, pur in presenza di pesanti tagli a salari e prestazioni sociali, il consumo aggregato della Grecia superava del 16,5% il reddito nazionale e che il deficit commerciale aveva ormai toccato il 10,5% del PIL.

Per colmare il gap di competitività rispetto agli altri paesi europei e tornare quindi ad avere una crescita economica apprezzabile, capace di sostenere anche l’enorme indebitamento accumulato, la Grecia dovrebbe procedere a un taglio dei costi di produzione – e quindi dei salari – di un ulteriore 25-30%. Una cura da cavallo che ricorda quella che il cancelliere Heinrich Brüning fu costretto ad adottare in Germania fra il 1929 e il 1933 e di cui conosciamo tristemente gli esiti economici e politici.

Piani di salvataggio e di gestione del debito, quindi, non sono sufficienti. È necessario rivedere profondamente anche le politiche economiche deflattive e prendere di petto i problemi legati agli squilibri infraeuropei. Due cose che, purtroppo, non sembrano rientrare nell’agenda dei governi a guida conservatrice, impedendo così all’Europa di calciare definitivamente lontano quel fastidioso barattolo che continua a tornarle fra i piedi.

 

 


Foto di Vincent de Groot

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