Cosa cambia dopo la morte di Osama

Di Giuliano Francesco Mercoledì 04 Maggio 2011 17:56 Stampa
Cosa cambia dopo la morte di Osama Foto: The White House

Il blitz dei Navy Seals che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden ha ancora diversi punti oscuri. In particolare rimane incerto il ruolo giocato dal governo e dalle forze armate pakistane. Chiarire questo punto non costituisce un dettaglio secondario, in quanto aiuterebbe a capire qual è, in ultima analisi, la strategia statunitense nella regione.


L’uccisione di Osama Bin Laden nel corso di un raid condotto dalle forze speciali della Marina americana nel cuore del Pakistan ha offerto il pretesto ad una serie di riflessioni nel nostro paese non sempre particolarmente centrate.

Come capita sempre più spesso, anche questa volta i giudizi morali si sono sovrapposti alla fredda valutazione delle cause e delle conseguenze di questa operazione militare, che meriterebbe invece un’analisi più approfondita. Sono in effetti molti i punti oscuri delle varie ricostruzioni degli eventi finora fornite dalle autorità coinvolte negli avvenimenti.

Si sono registrate evidenti contraddizioni tanto da parte americana quanto dal lato pakistano. L’Amministrazione Obama ha rivendicato senza esitazioni il blitz, ad esempio, smentendo però se stessa almeno una volta in relazione all’obiettivo assegnato ai Navy Seals, che per alcuni avrebbero avuto sin dall’inizio l’ordine di eliminare fisicamente il leader storico di Al Qaeda, mentre secondo altri su questa soluzione avrebbero dovuto ripiegare solo nell’impossibilità di procedere in sicurezza alla sua cattura.

Rimangono inoltre interamente da spiegare il giallo relativo alla divulgazione di una fotografia falsificata del terrorista scomparso e le circostanze che hanno dettato la decisione di abbandonarne in mare il cadavere. Un gesto, quest’ultimo, che sembra fatto apposta per alimentare nuove teorie cospiratorie e che comunque ha privato Washington di una prova importante dei risultati ottenuti dal colpo.

Può darsi che non si volesse esporre un corpo testimone di una quantità di violenza esorbitante, ma le cautele sono apparse comunque eccessive, specialmente in rapporto a quanto accaduto in altre occasioni, ad esempio con le spoglie dei figli di Saddam Hussein. Si tratta però di dettagli.

L’incognita vera riguarda infatti altri due dati fondamentali, che sono di particolare rilevanza ai fini delle prospettive di soluzione del conflitto in corso in Afghanistan.

Il primo è rappresentato dal ruolo che in tutta questa vicenda avrebbe avuto lo Stato pakistano. Tanto le fonti riconducibili ad Islamabad quanto quelle statunitensi, infatti, si sono divise in merito al presunto carattere unilaterale dell’azione realizzata dagli incursori della U.S. Navy e all’eventuale collaborazione prestata da Islamabad. Prevalgono al momento le voci di coloro che insistono nel presentare l’incursione come un atto di forza deciso dalla Casa Bianca ed eseguito di sorpresa contro la volontà delle Forze armate pakistane. Ma non manca chi invece sostiene che almeno una parte dell’intelligence di Islamabad abbia collaborato alla preparazione dell’attacco.

Non è un fatto di poco conto, perché da come sono andate le cose dipendono sviluppi del tutto differenti. Un atto di guerra condotto da commandos americani nel cuore del Pakistan, in prossimità di una delle più prestigiose accademie militari locali, per uccidere una personalità straniera di fatto sotto la protezione dei servizi segreti di Islamabad implicherebbe infatti la rottura di qualsiasi parvenza di collaborazione tra americani e pakistani.

Mentre lo scenario opposto, di un assalto in qualche modo autorizzato, dischiuderebbe le porte ad un’accentuazione della cooperazione tra Washington e le autorità politico-militari del Pakistan. Si rileva per inciso che in queste ore nessuno degli esercizi bilaterali o trilaterali che coinvolgono i due paesi è stato annullato. Proprio per questo motivo, è altamente probabile che un’intesa sia stata raggiunta preventivamente all’effettuazione del raid.

Il pakistano maggiormente indiziato di esser stato l’interlocutore dell’Amministrazione Obama in questa circostanza – e questa è la seconda incognita - è il generale Ahfaq Pervez Kayani, capo di Stato maggiore dell’Esercito e quindi vero uomo forte di Islamabad. Anche se da qualche tempo i militari pakistani si muovono insieme al premier civile Gilani, sembra invece da escludere che in questa partita sia entrato il presidente Asif Ali Zardari, i cui poteri sono notoriamente assai limitati.

Gli americani diffidano di Kayani da quando hanno acquisito intercettazioni comprovanti il suo sostegno al network degli Haqqani che insanguina l’Afghanistan orientale, dove è schierata una parte importante del contingente a stelle e strisce alla dipendenze dell’ISAF o inquadrato in Enduring Freedom. Ma a Washington è conosciuto anche l’estremo realismo al quale i vertici delle Forze armate pakistane improntano solitamente le loro decisioni. E su questo fattore debbono aver scommesso per convincere il generale ad accettare l’operazione.

Le contropartite ipotizzabili che Washington può aver agitato sono molto numerose, essendo parte del ventaglio delle possibilità tanto concessioni relativamente soft, come l’attenuazione della pressione militare esercitata dai droni sulle zone tribali a ridosso della linea Durand, quanto grandi scelte strategiche sui futuri equilibri regionali.

Quest’ultima è di gran lunga l’ipotesi più affascinante, e in un certo senso anche quella maggiormente credibile. Perché tanto l’Amministrazione Obama quanto le Forze armate pakistane desiderano ridurre la presenza militare statunitense in Afghanistan.

La soppressione di Osama rende oggi più facile alla Casa Bianca la deliberazione di un ritiro più consistente e rapido delle truppe dislocate sul suolo afghano, che accrescerebbe significativamente l’influenza di Islamabad sul processo di pace che s’intende promuovere a Kabul. Ovviamente, nelle prossime settimane si moltiplicheranno le dichiarazioni tese a smentire questo scenario, che ha però una sua incontrovertibile razionalità geopolitica.

Gli Stati Uniti considerano ormai la guerra in Afghanistan una diversione strategica rispetto alle grandi priorità della loro politica di sicurezza nazionale, che si deve adesso occupare del mantenimento della supremazia planetaria americana in un contesto caratterizzato dall’ascesa delle potenze emergenti. Con Osama alla macchia, non era possibile porvi fine senza scontare un insopportabile danno al prestigio nazionale degli Stati Uniti. Ora che Washington ha ottenuto quella che il suo stesso Presidente ha definito giustizia per le vittime dell’11 settembre, l’exit strategy sembra invece maggiormente a portata di mano.

Ecco perché Kayani potrebbe aver dato il suo assenso. E rafforza questo convincimento anche la considerazione del fatto che la morte di Bin Laden indebolisce la fronda islamista che ha destabilizzato in questi anni lo stesso Pakistan.

Naturalmente, non è affatto detto che le cose siano andate effettivamente in questo modo: ma questa pare la ricostruzione logicamente più probabile degli avvenimenti di Abbottabad.

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