Superare la politica della paura

Di Andrea Peruzy Giovedì 23 Dicembre 2010 19:01 Stampa

La crisi alimenta nei cittadini-elettori paure che la destra ha saputo intercettare e utilizzare a proprio vantaggio mentre la sinistra progressista non ha saputo darvi risposta. Fin quando la sinistra non si doterà di una nuova strategia per la ripresa che consenta di uscire dalle secche della crisi e di porre le basi per una fase di ripresa sostenuta non potrà ritornare ad essere vincente.

Riunire nella stessa sala per due giorni Bill Clinton, Tony Blair, Felipe Gonzales, Michelle Bachelet e le migliori promesse del progressismo occidentale (Carme Chacón, Matt Browne, James Purnell, solo per citarne alcuni) come ha fatto il Progressive Leaders Meeting che si è tenuto a New York il 13 e 14 dicembre significa non tanto abbandonarsi alla nostalgia di uno dei momenti migliori della storia della sinistra progressista mondiale o assistere ad un virtuale “passaggio di testimone” fra generazioni, quanto soprattutto riflettere su come sia cambiato il modo stesso di governare le economie avanzate all’inizio del nuovo millennio. Una riflessione che continuerà nei prossimi mesi con la Parliamentary Leaders Conference organizzata a Roma dal Partito Democratico per il prossimo gennaio e con la Global Progress Conference che si terrà a Madrid in primavera.
Se gli anni Novanta sono stati l’epoca in cui una globalizzazione agli albori alimentava speranze e fiducia nel futuro, il nuovo secolo della globalizzazione matura sta alimentando nelle società avanzate un sentimento di paura: paura del proprio declino di fronte alla crescita delle cosiddette economie emergenti, paura di non riuscire a contrastare la crisi economica e i suoi effetti, paura degli immigrati e della minaccia terroristica, paura di perdere il benessere e le tutele conquistate nel secondo dopoguerra.
Per la destra conservatrice, che ha saputo intercettare queste paure e offrire loro una risposta, si è aperta una fase di successo elettorale. Per le forze riformiste, invece, è iniziata la convivenza con un fenomeno nuovo: la compresenza, nella maggior parte degli individui-elettori, di due atteggiamenti apparentemente in contraddizione tra loro; da un lato la condivisione di valori tipicamente progressisti per quanto riguarda i diritti umani, civili e delle minoranze, dall’altro un atteggiamento conservatore rispetto alle piccole-grandi conquiste raggiunte magari faticosamente (un salario dignitoso, una casa di proprietà, una piccola rendita).
Riteniamo che, quando si parla di valori, le differenze fra destra e sinistra esistano ancora e auspichiamo che i valori a cui la sinistra si ispira e che segnano la sua diversità dalla destra non solo confermino la loro forza ma vedano aumentare il consenso sociale intorno alla necessità di ampliare la loro sfera d’azione e consolidare la loro efficacia.
Per questo, oggi, non è tanto sui valori (o almeno non solo su di essi) che occorre ragionare, quanto sulle policies che a questi principi si ispirano e che sono indispensabili per affrontare le nuove sfide del nostro tempo.
Le esperienze del New Deal e della Terza Via ci insegnano che quando le forze progressiste sono riuscite ad elaborare e a comunicare strategie innovative di sviluppo economico e sociale hanno sperimentato anche cicli politici ed elettorali positivi. Fin quando, quindi, la sinistra non si doterà di una nuova strategia per la ripresa che consenta non solo di uscire dalle secche della crisi ma, soprattutto, di porre le basi per una fase di ripresa sostenuta, non potrà ritornare ad essere vincente.
Un imprescindibile punto di riferimento in tal senso è rappresentato, per il progressismo europeo, dalla Strategia di Lisbona. Solo puntando sulla qualità del capitale umano e sulla valorizzazione di una crescita basata sulla conoscenza, e quindi sull’innovazione, sulla ricerca scientifica e sulla cultura, si può pensare di dotare l’Europa degli strumenti per rimanere competitiva nell’economia globalizzata e creare i presupposti per la ripresa.
La ripresa, però, da sola non basta: è necessario anche che dei suoi effetti benefici possano godere quanti più soggetti possibile. La prospettiva di una jobless o wageless recovery, delineata da numerosi studiosi, non farebbe che accrescere le disuguaglianze sociali e aumentare il diffuso sentimento di insicurezza. Ma segnerebbe, soprattutto, un’ulteriore sconfitta della speranza nel futuro per i più giovani.
Ogni strategia di fuoriuscita dalla crisi pensata “da sinistra” dovrebbe avere quindi non solo l’obiettivo di generare una crescita sostenibile sul piano macroeconomico e ambientale ma, in primo luogo, quello di fare della creazione di buona occupazione il suo perno centrale.
Riteniamo che restituire centralità politica al lavoro debba essere un compito essenziale della sinistra progressista italiana ed europea, ed è per questo che la Fondazione Italianieuropei ha scelto di farne un cardine della sua attività editoriale e di approfondimento. E conforta vedere come, fra i temi dell’agenda progressista globale discussi a New York, a fianco di “sicurezza”, “energia e ambiente”, disuguaglianze/uguaglianze” e “immigrazione” compaia anche il tema del lavoro.
Nel 2011, insieme al Dipartimento economia e lavoro del PD, avvieremo un progetto di ricerca finalizzato a definire un Piano europeo per il lavoro, ossia un ventaglio di politiche coordinate che, anche sotto il vincolo del risanamento della finanza pubblica, possano concretamente operare per creare occupazione stabile e di qualità in un contesto di crescita sostenibile.
È una sfida difficile e ambiziosa, ma a cui non può sottrarsi una sinistra che vuole tornare a vincere.

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