Il governo dell’immigrazione: carta blu e cittadinanza

Di Anton Giulio Lana Venerdì 15 Ottobre 2010 14:42 Stampa


In base ai dati del Global Migration Barometer dell’Economist Intelligent Unit del settembre 2008, l’Italia è il secondo paese al mondo per necessità strutturale di immigrazione, dopo il Giappone e prima di Portogallo, Finlandia e Repubblica Ceca. Tuttavia è solo al 17° posto per capacità di attrazione. Ciò significa che tendiamo ad allontanare proprio le persone di cui abbiamo più bisogno. A causa della cattiva fama in termini di accoglienza che ci siamo costruiti negli anni, i migranti più qualificati difficilmente arrivano nel nostro paese. Una prospettiva negativa giustificata anche dalla scarsa capacità di integrazione che l’Italia mette in gioco e che la colloca solo al 29° posto della scala mondiale. Siamo molto meno accoglienti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Norvegia e Francia che sono le principali destinazioni dei migranti qualificati che provengono da tutto il mondo: professionisti, intellettuali, scienziati, studenti o semplici lavoratori. Una contorta normativa sull’immigrazione, gli accordi con la Libia e i respingimenti in mare, la politica verso i rom e la poca libertà religiosa, sono tutti aspetti che contribuiscono a dare un volto dell’Italia caratterizzato dal poco rispetto dei diritti umani.
Si tratta di intervenire sulla qualità dell’immigrazione, cercando di attirare sempre più immigrati qualificati. In questa direzione va la Direttiva 2009/50/CE del luglio 2009 che istituisce in Europa la Carta Blu sull’esempio della Green Card degli Stati Uniti. Con essa si stabilisce di accelerare la procedura di rilascio di un permesso speciale di soggiorno e di lavoro per gli stranieri più qualificati. Questo consentirà ai titolari della Carta Blu di accedere più facilmente al mercato del lavoro, di beneficiare dei diritti socioeconomici previsti e di particolari condizioni per il ricongiungimento familiare e gli spostamenti all’interno dell’UE. In un mondo globale, la UE vuole essere più attrattiva nei confronti delle persone in grado di dare un apporto sempre più significativo allo sviluppo. Per quanto riguarda l’Italia, si tratta di mettere in pratica al più presto e in maniera lungimirante le direttive comunitarie, comprendendone l’importanza anche nella competizione con gli altri Stati europei, che stanno rivedendo radicalmente le loro politiche immigratorie.
Il passo successivo, infatti, è quello della cittadinanza. Si tratta di un aspetto fondamentale per realizzare l’integrazione e per superare una visione dell’immigrazione come mera emergenza, dando vita a una prospettiva di più ampio respiro: l’immigrazione come risorsa. La Germania ha temperato la propria legislazione che prevedeva solo lo jus sanguinis, la cittadinanza per nascita e non per luogo di residenza. In Francia più della metà della popolazione maghrebina è ormai cittadina della Repubblica. Affinché l’immigrazione si armonizzi il meglio possibile nella struttura sociale italiana, sono urgenti misure per favorire l’integrazione di lungo periodo. L’adozione della cittadinanza rappresenta un elemento importante di coesione sociale, di integrazione e di fidelizzazione con i principi costituzionali della Repubblica italiana. L’attuale legge nazionale (5 febbraio 1992, n. 92) è ancora ispirata prevalentemente a criteri di polizia e considera l’acquisizione della cittadinanza essenzialmente un procedimento burocratico decennale, penalizzando fortemente i figli di cittadini stranieri che nascono in Italia, i quali possono fare richiesta di cittadinanza solo al compimento del diciottesimo anno d’età o all’atto dell’acquisizione dei loro genitori, dovendo però dimostrare d’essere conviventi (art. 14). Si tratta di una normativa ancora più riduttiva di quella precedente, che risaliva al 1912. In quest’ultima, infatti, erano sufficienti 5 anni per la naturalizzazione, in linea con l’attuale media dei paesi europei, mentre a partire dal 1992, il tempo medio in Italia, procedure burocratiche comprese, si attesta intorno ai 14 anni.
Non è necessario, forse, procedere a drastiche revisioni della legge 1992/91. Sarebbe sufficiente, per dare un segnale forte in favore di una ragionevole integrazione, la modifica del secondo comma dell’articolo 4 della suddetta legge. Attualmente infatti, lo straniero nato in Italia, può chiedere la cittadinanza solo al raggiungimento della maggiore età e solo entro un anno da quella data. In tal modo si crea una discrepanza tra gli stranieri in genere, che possono chiedere la cittadinanza dopo 10 anni di regolare residenza, e i minori nati in Italia, che devono attendere i 18 anni. Portare a 10 anni il termine per poter chiedere la cittadinanza, nel caso dei ragazzi stranieri nati nel nostro paese, sarebbe un importante elemento di giustizia e di eguaglianza, oltre a rappresentare un concreto elemento utile a favorire il pieno inserimento scolastico e sociale delle nuove generazioni, proprio di quelle su cui si basa sempre più il futuro civile ed economico del nostro paese.



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