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Gaza. Una guerra, molte guerre.

di Lucio Caracciolo - 21/12/2023 

 1. La guerra di Gaza non è la guerra per Gaza. Il 7 ottobre è iniziata una nuova, decisiva fase bellica che determinerà il futuro della regione. Una guerra che potrà estendersi non solo ai territori intorno allo Stato ebraico, a cominciare dal Libano, ma coinvolgere tutta l’area tra Mediterraneo orientale, Mar Rosso Mar Nero e Oceano Indiano. Così toccando di fatto il teatro russo-ucraino. I due tronconi principali della Guerra Grande – come Limes definisce lo scontro sempre meno indiretto fra le potenze massime, Stati Uniti, Russia e Cina – verrebbero così a integrarsi.

 

Le proteste contro Netanyahu e la questione palestinese

Il 4 novembre del 1995, a Tel Aviv, l’attivista di estrema destra Yigal Amir uccideva il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, insignito l’anno precedente del Premio Nobel per la pace insieme al presidente Shimon Peres e al leader palestinese Yasser Arafat. Ma proprio il suo impegno per il dialogo con i palestinesi e in particolare la firma degli Accordi di Oslo, che gli valsero il Premio Nobel, furono il motivo che mosse la destra israeliana a scagliarsi contro Rabin e che spinse Yigar Amir ad ucciderlo al termine di una manifestazione in favore del processo di pace. Un anno dopo, nel maggio del 1996, Benjamin Netanyahu fu eletto per la prima volta premier alla guida di una coalizione formata dal Likud, da partiti religiosi e da formazioni di destra.

“Questo è apartheid”. Il regime di segregazione di Israele verso i palestinesi

Una guerra non “scaccia” le altre. L’eurocentrismo non può essere la ragione per cui sentire l’Ucraina più vicina a noi mentre la Siria, la Palestina, il Rojava curdo siriano, lo Yemen, l’Afghanistan non fanno notizia, non meritano un millesimo dello spazio mediatico dato alla guerra d’Ucraina. Gerarchizzare gli orrori e le ingiustizie che segnano il nostro tempo non dovrebbe far parte del DNA di una società democratica.
Eppure è ciò che sta accadendo. Sull’Ucraina si è imposta, è stata imposta, una narrazione dominante, deformante, totalizzante. Il dominio del pensiero unico. Vale per l’Ucraina. E per il conflitto israelo-palestinese. Ai filosofi con l’elmetto, agli strateghi della domenica, a una stampa in divisa, poco o niente interessa se la Palestina muore.

Quel che resta del giorno

La scena non può essere che l’annunciato, ma non meno sorprendente, ritorno al potere dei Taliban e quella della precipitosa e drammatica fuga occidentale dall’Afghanistan. Due decenni di conflitto, migliaia di vittime, masse di profughi, gigantesche risorse investite. Poi, quei turbanti nel palazzo presidenziale di Kabul. Come se il tempo fosse trascorso vanamente. In realtà le cose non sono così semplici, ma l’epilogo afghano produce, comunque, un effetto straniante. E suscita interrogativi che non si possono eludere.
Cosa rimane della lunga stagione iniziata con l’attacco di al Qaeda all’America, proseguita con le guerre di Bush jr. in Afghanistan e Iraq, la teorizzazione dell’esportazione della democrazia con ogni mezzo, la violenta deflagrazione siriana, l’illusoria stagione delle cosiddette “primavere arabe”, la proclamazione dello Stato islamico, la campagna terroristica in Occidente come articolazione del jihad globale, il riposizionamento dei regimi autocratici della Mezzaluna in funzione di antemurale islamista?

I movimenti islamisti tra crisi interne, pluralizzazione e tendenze post islamiste

A vent’anni dall’11 settembre 2001, dallo shock degli attacchi terroristici di matrice jihadista sul suolo americano, dall’avvio della guerra al “terrore”, dalle ultime in ordine di tempo esperienze americane di esportazione della democrazia con le armi in Afghanistan e Iraq, dall’avverarsi dello “scontro di civiltà” e dalle campagne di demonizzazione nei confronti dell’Islam ciò che sta accadendo in Afghanistan in questi mesi e settimane suona come il rintocco della campana che segna la fine di un’era. Un’era in cui gli Stati Uniti in particolare ma in generale tutto il mondo cosiddetto occidentale avevano cercato di mettere in atto quella che sembrava l’unica strategia possibile per difendersi dalla forza materiale e ideologica – penetrante, violenta e totalizzante – dell’estremismo di matrice islamista incarnato dai talebani e da al Qaeda prima e dalle varie manifestazioni dell’ISIS poi.

Il ritorno dei talebani a Kabul

Nel febbraio del 1989 gli ultimi soldati sovietici attraversarono l’Amu Darya, lasciandosi alle spalle un Afghanistan distrutto da dieci anni di guerra. Il ritiro, pur segnando una pesante sconfitta, era stato organizzato meticolosamente e avvenne in modo ordinato. È un ritiro molto diverso quello delle forze statunitensi e alleate al quale abbiamo assistito nei mesi scorsi, al termine di una guerra – la più lunga della storia americana – costata molte vite umane ed enormi risorse, e finita in una disfatta dell’Occidente tutto, e degli Stati Uniti in particolare che questa guerra l’hanno voluta e di cui hanno dettato tempistiche e strategie.

 

Siria e Iraq, tra fine del comunitarismo confessionale e nuove influenze

Sono passati vent’anni dagli attacchi dell’11 settembre, uno degli atti terroristici più significativi della storia moderna e probabilmente il singolo avvenimento che più ha inciso sulla storia del XXI secolo. All’alba del nuovo millennio, gli Stati Uniti potevano vantare lo status di unica superpotenza a livello mondiale, con una conseguente ineguagliabile portata a livello internazionale di hard e soft power. In questo frangente, gli attacchi compiuti da al Qaeda, oltre a influenzare in misura profonda le scelte statunitensi in ambito di politica estera e ridefinire gli interessi strategici di Washington, hanno idealmente segnato l’epilogo del momento unipolare a guida statunitense originato dalla fine della guerra fredda e posto le basi per un assetto internazionale che vede oggi la costante ascesa di un numero crescente di medie e grandi potenze.

Gli alleati scomodi: Egitto e Arabia Saudita nella prospettiva statunitense

Da tempo opinione pubblica, think tank e parte delle istituzioni statunitensi si interrogano su quali siano le basi fondamentali dei rapporti di cooperazione costruiti a tutti i livelli dagli Stati Uniti con le principali leadership mediorientali. Una riflessione resa ancor più impellente dall’insediamento di una nuova Amministrazione come quella Biden, poco incline agli autoritarismi e mostratasi più sensibile a una rinnovata attenzione verso principi etici e morali quali la difesa dei diritti umani e il sostegno alla democrazia. Al contempo, la stessa Amministrazione ha pubblicato lo scorso 3 marzo una “Interim National Security Strategic Guidance”1 in cui si sottolinea la necessità di rinvigorire e di modernizzare le alleanze e le partnership statunitensi in tutto il mondo, in particolar modo quelle in Medio Oriente.

Ascesa e declino del modello turco

«Perché la gente mi paragona a Bin Laden o a Khomeini quando io sono più vicino a Erdoğan?».1
Rashid Ghannushi, leader del partito tunisino Ennahdha, si rivolse in questo modo ai giornalisti che lo attendevano all’aeroporto di Tunisi per il suo ritorno in patria, dopo vent’anni di esilio. Quasi a indicare quella vicinanza ideologica al leader turco come motivo di rassicurazione per l’Occidente. Una prova delle credenziali democratiche degli islamisti tunisini. Questo succedeva più di dieci anni fa. Il vento della Primavera araba aveva già spazzato il regime di Ben Ali in Tunisia, e presto avrebbe raggiunto, tra gli altri, l’Egitto di Mubarak e la Libia di Gheddafi. E nel processo di democratizzazione iniziato dalle ceneri di queste dittature nazionaliste e laiche, i partiti di ispirazione religiosa, legati alla Fratellanza musulmana, emergevano come futuri protagonisti.

Il caos libico e l’esportazione della democrazia

Nel febbraio del 2011 l’onda lunga delle rivolte arabe, partite come manifestazioni giovanili e di piazza in molti paesi della regione mediterranea, si infrangeva anche sulle coste libiche. La nostra “sponda Sud”, come molti dei suoi vicini nordafricani e mediorientali, si apprestava a vivere uno dei più grandi cambiamenti della sua storia recente. A ben guardare, però, fin dall’inizio nell’ex Jamahiriya le proteste hanno assunto una connotazione peculiare che poco aveva a che vedere con le proteste di piazza Tahrir in Egitto o di avenue Bourguiba in Tunisia. In Libia si trattava, per lo più, di rivolte di imprinting tribale e localistico che avevano il loro epicentro a Bengasi, la “capitale” della Cirenaica, regione storicamente avversa allo strapotere del rais. Ben presto le sollevazioni hanno dato vita a milizie e gruppi combattenti.

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