Perché la sinistra deve dire no allo spin

Di Franco Motta Giovedì 01 Gennaio 2004 02:00 Stampa

Da un po’ di tempo a questa parte la sinistra italiana risente dei postumi di una ubriacatura da comunicazione o, per meglio dire, di una «sbornia» da manipolazione politica. Scrivere di spin in riferimento alla comunicazione politica è una forzatura non scevra da malafede. La triste fine del professor David Kelly, nel torrido agosto scorso, ha infatti richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su un brutto caso di manipolazione di informazioni e sullo spregiudicato uso dei media da parte di colui che è considerato il genio degli image makers contemporanei, l’ex giornalista Alastair Campbell (divenuto, in seguito, il collaborazione più fidato e indispensabile del primo ministro britannico).

Da un po’ di tempo a questa parte la sinistra italiana risente dei postumi di una ubriacatura da comunicazione o, per meglio dire, di una «sbornia» da manipolazione politica.

Scrivere di spin in riferimento alla comunicazione politica è una forzatura non scevra da malafede. La triste fine del professor David Kelly, nel torrido agosto scorso, ha infatti richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale su un brutto caso di manipolazione di informazioni e sullo spregiudicato uso dei media da parte di colui che è considerato il genio degli image makers contemporanei, l’ex giornalista Alastair Campbell (divenuto, in seguito, il collaborazione più fidato e indispensabile del primo ministro britannico). Come non di rado accade, l’eccezionale rilievo della questione in un paese che l’Europa latina e mediterranea continua a considerare un paradigma di rigore politico ha trascinato con sé, per quella forza di gravità simbolica che governa l’opinione pubblica, l’intera percezione delle tecniche di informazione politica, rubricate sempre più di frequente nella categoria del deceivment, dell’inganno volto a catturare il consenso dell’interlocutore. Per questo, nel considerare la figura dello spin doctor quale sintesi della comunicazione politica contemporanea, si compie un gesto che potrebbe essere paragonato all’analizzare le tecniche meditative dell’esicasmo (la pratica ascetica del monachesimo bizantino) in un convegno sulla spiritualità greco-ortodossa; o, con più immediata brutalità, al disquisire della macellazione del suino a un convivio di degustatori di lardo di Colonnata. Si riporta il discorso, cioè, alla parte più concretamente pragmatica del tutto, e che però rappresenta la condicio sine qua non dell’oggetto in questione.

Ciò detto, sembra appianato che le figure dei grandi guru della comunicazione pubblica nelle democrazie anglosassoni costituiscano l’incarnazione più avanzata della figura professionale del consulente d’immagine, ed è per questo che, alla fine di questa lunga perorazione, al loro modello si farà riferimento.

Le parole con cui Tony Blair ha preso le difese di Campbell dopo la bufera che ha condotto quest’ultimo alle dimissioni dall’ufficio di direttore delle comunicazioni di Downing Street hanno un che di pateticamente retró: un «coraggioso e leale servitore della causa in cui crede», un uomo «dedito alla causa e alla nazione».1

Espressioni di stampo vittoriano, moraleggiante, sideralmente distanti dalla prosa incisiva e pregnante del primo ministro inglese e che fanno pensare come, deprivato del suo consueto e studiato tono seduttivo, il linguaggio di Blair sia costretto a ricorrere alla più stantia delle retoriche del potere. Proprio quando il leader laburista ha dimostrato, assistito dai suoi consulenti, di essere un maestro dell’oratoria postmoderna, riveduta e corretta all’insegna dei canoni della politica spettacolo e dell’infotainment; ovvero i fondamenti medesimi di una strategia mediatica volta a colpire l’elettore in modo decisamente differente dalla tradizione politica occidentale, mediante pochi concetti semplici ed evocativi. E, come tali, affabulatori e per molti versi mistificatori, vocati a sostituire il potere della suggestione a quella facoltà di discernere e giudicare con riferimento al governo della cosa pubblica che, dalla polis greca in avanti, ha contraddistinto in maniera specifica l’intero filone del razionalismo politico e le sue derivazioni illuministiche, e non solo.

 

Il «modello Blair» e le sue applicazioni mediatiche

La prima cosa che salta all’occhio delle pratiche dello spin quali ci sono note attraverso il «modello Blair» è il loro essere conseguenza, piuttosto che causa, del détournement comunicativo instaurato dal linguaggio dei media, e in particolare della televisione, negli anni Ottanta del riflusso e della «restaurazione reaganiana e thatcheriana» (gli anni, per intenderci, nei quali l’advertising e la pubblicità si impadroniscono nell’immaginario collettivo del ruolo demiurgico che in precedenza era stato occupato dalla fiction, cinematografica e poi televisiva). I capisaldi linguistici (e semiologici) sui quali il New Labour ha costruito il proprio successo – l’incisività del messaggio, la sua assertività, la capacità di trasmettere un senso di ragione più che di articolare ragionamenti, il peso crescente e inarrestabile dell’appeal personale del leader – sono quelli che già oltre un decennio prima della vittoria di Blair avevano fatto breccia nei gusti del pubblico e ne avevano diretto il consenso: con fini commerciali nel primo caso, elettorali nel secondo. Del resto, direbbe un piazzista, si tratta sempre di reperire le «parole giuste» e le vie più idonee a vendere.

In questo senso, gli spin doctors sono fratelli minori (almeno cronologicamente) dei guru della pubblicità (dalle cui file proviene, non casualmente, lo stratega del New Labour, Philip Gould) e dei videoclips che hanno rivoluzionato la percezione dell’immagine circa vent’anni or sono: ne mutuano il linguaggio precisamente nella consapevolezza di rivolgersi al medesimo idealtipo di cliente, il quale può acquistare un’automobile piuttosto che un’altra, come può votare un candidato anziché un altro, poiché in entrambi i prodotti (si usa questo termine senza alcuna volontà di svilimento) vede proiettata una parte significativa del proprio sé e della propria autopercezione. Nel mutuare la forma, tuttavia, essi ne mutuano inevitabilmente anche il contenuto, laddove, trasformando una proposta politica in articolo commerciale, svuotano di senso la tradizionale accezione della politiké téchne, dell’arte politica, che da Aristotele in poi era stata considerata nel mondo occidentale come arte sovraordinata alle altre forme di espressione e di produzione, e dunque da esse ontologicamente distinta, proprio perché investita del compito di dirigerle e di ripartirle secondo gli indirizzi del bene collettivo.

La politica da spot, con la sua velocità e acriticità, in altri termini, rinuncia a essere politica nel momento in cui abdica alla propria preminenza sulle restanti attività umane – alla propria irriducibilità, alla secca alternativa fra assenso e rifiuto che è caratteristica della scelta che determina l’acquisto di un bene, in quanto essa riassume in sé l’assenso e il rifiuto in una superiore capacità architettonica – e si riveste degli abiti di quella seduzione immediata che è propria di ogni logica di mercato (e degli oggetti che vengono ripetutamente e continuativamente scambiati al suo interno). L’approdo inesorabile viene così a coincidere con la mercificazione della politica, che pure nel caso del blairismo, naturalmente, assume comunque connotati qualitativamente ben superiori rispetto all’offerta antipolitica delle destre (e, in primis, alla «bassa macelleria» di cui risulta portatore per eccellenza il fenomeno del berlusconismo).

 

La ragione contro il simbolo

In secondo luogo, le strategie comunicative degli spin doctors portano con sé qualcosa che va ben oltre la medesima semplice mercificazione del discorso pubblico. La grammatica frammentata, icastica e shocking del nuovo linguaggio della politica, attingendo a piene mani dalla forza vibrante e demoniaca del simbolismo (perché altro non può essere la riduzione di un programma politico a titolo di tabloid o a distintivo di coolness) determina una vigorosa inversione del significante linguistico del potere verso quella che era la sfera discorsiva della sovranità di Ancien régime.

Il simbolo, feticcio supremo dei reazionari di ogni estrazione ed epoca, è la massima espressione della comunicazione politica preilluminista, laddove taglia alla radice la possibilità di una discussione pubblica dei parametri della legittimità e concentra la totalità del messaggio in un segno archetipico che, proprio perché immediatamente riconoscibile, è un «già dato», ossia è svincolato da quella necessità di giustificazione pubblica che è il criterio minimo della democrazia formale.

Dietro la ritualità ieratica del basilèus di Bisanzio, o le liturgie complesse della corte pontificia del tardo Medioevo, o lo scintillante cerimoniale di Versailles si celavano programmi politici precisi e chiarissimi allo sguardo di quanti erano in grado di intendere. Ma si trattava di programmi legittimati teologicamente, e dunque di per sé affrancati dall’esigenza dell’autogiustificazione. Al capo opposto, la trasparenza didascalica delle tavole e degli articoli dell’Encyclopédie (testo in cui ogni attività umana è implicitamente caricata di significato politico) è una manifestazione estrema ed epocale dell’apertura dello «spazio pubblico» degli illuministi qual è stata analizzata da Habermas. La modernità politica nasce, non a caso, in quei luoghi della sociabilità settecentesca (i salotti, le accademie, i circoli di lettura) dedicati alla discussione e alla divulgazione delle idee della grande riforma della società propagata da Voltaire, da Diderot, da Condorcet: e il luogo in cui il simbolismo è investito di una nuova funzione pedagogica, cioè la loggia massonica, è uno spazio elitario radicalmente distante dall’idea di fascinazione pervasiva della middle mass che oggi domina le strategie del marketing politico blairiano. Per demistificare sotto il profilo intellettuale l’apparato simbolico messo in essere dallo spin del New Labour si può, dunque, cominciare già facendo ricorso agli arnesi concettuali di lunga data predisposti dall’illuminismo, sino ad arrivare alla più contemporanea filosofia postsessantottina e decostruzionista di Foucault piuttosto che di Derida e, ancor prima, alle mirabili intuizioni del Guy Debord della «Società dello spettacolo». In altre parole, tutto il bagaglio del pensiero critico mirante a evidenziare i dispositivi, appunto, simbolici del potere e degli strumenti di cui si serve, in sfregio all’esercizio delle facoltà di libero giudizio e disamina degli individui.

Gli spin doctors, «apprendisti stregoni» della manipolazione dell’opinione pubblica, nel momento in cui demandano al simbolo la veicolazione del messaggio politico, senza porsi il problema di spiegarlo, evidenziano tutta la loro carica fondamentalmente «eversiva» e antidemocratica. Si pongono come mediatori stregoneschi tra il leader (con le sue tesi «non verificate empiricamente», né falsificate alla prova dei fatti della discussione politica democratica) e la popolazione/corpo elettorale. Oppure tra il leader e i delegati del partito, come nel caso dell’ultimo congresso del Labour (nel settembre del 2003, a Bournemouth), dove nello scontro «all’ultimo sangue» con il rivale di sempre, il cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown, Blair ha finito per prevalere grazie a un’abile mozione degli affetti e a un appello ai sentimenti (che lo ha visto, dicono i numeri e i giornali inglesi, raccogliere in primo luogo i consensi della componente femminile della platea), orchestrato dai suoi image makers in servizio permanente. Antagonista un Gordon Brown, a onor del vero, che non si differenzia particolarmente dal gemello/avversario delle lotte di potere, con il quale fondò, infatti, il New Labour e diede vita, nel 1994, a un «patto» di spartizione e di non belligeranza, nel corso di una celeberrima cena presso il ristorante Granita,2 nel quartiere londinese di Islington, in cambio della promessa di ricoprire in futuro l’incarico di premier. E Brown, per l’appunto, non esita neppure lui, pur presentandosi, nel gioco delle parti, come quello più leftist (ed essendolo anche, tutto sommato), a ricorrere al proprio battaglione di spin doctors.

Ennesima dimostrazione della «politica senza falsificazione» veicolata dallo spin è poi la campagna ossessiva, una sorta di «creazione artificiale della realtà», in materia di sicurezza, coincidente con uno dei temi fondamentali del Labour Party «nuova maniera», quello della Zero Tolerance. A partire da una indubbia situazione di crescente diffusione della criminalità (specialmente giovanile), la propaganda blairista animata dai suoi efficientissimi image makers ha attirato l’attenzione collettiva sulla dimensione allarmistica e di terrore per l’opinione pubblica del fenomeno, sottovalutando, se non sottacendo, l’aspetto sociale che ne fa l’esito di oltre un decennio di indiscriminate politiche neoliberiste e antisolidaristiche, le quali hanno disintegrato via via l’eredità del glorioso Welfare State inventato da Lord Beveridge, da J. M. Keynes e dal liberalismo illuminato inglese.3

Si tratta, dunque, in tutti i casi, proprio di quella «postpolitica», nutrita di tecniche hollywoodiane e di ossessione per il potere e «puro politicismo» che costituisce l’oggetto degli strali del sociologo Slavoj Žižek, alfiere di un ritorno a Lenin, intelligente e antidogmatico, e detrattore feroce della Terza via, figura di grande interesse intellettuale per una sinistra da rifondare e reinventare.4

Un’ultima notazione, per concludere; nonché un’occasione di speranza. Da qualche tempo esiste e si sta organizzando in seno alla stessa sinistra britannica un’autentica e innegabile forma di resistenza alle derive del blairismo (una sorta di «thatcherismo dal volto umano», come sostengono gli avversari più inflessibili) e al suo ricorso spregiudicato e discutibile alla «cassetta degli attrezzi» dello spin. Si badi bene, non siamo in presenza di nostalgie passatiste o di reminiscenze trozkiste, emanazioni di componenti retrive dell’Old Labour, bensì di un mix di personaggi provenienti dal mondo sindacale (come John Edmonds, segretario generale della GMB Union, una delle principali organizzazioni sindacali del settore pubblico) e intellettuali sì «modernizzatori» (come si dice nel gergo del dibattito politico britannico più recente), ma ancorati a sinistra (come Michael Jacobs, segretario generale della gloriosa Fabian Society e specialista di questioni ambientali), i quali richiedono a Blair un motivato e circospetto mea culpa, condannando la politica marcatamente neoliberista effettuata dal suo governo nella direzione delle privatizzazioni, della riduzione dello Stato sociale e dei sistemi di protezione welfaristici (senza alcuna contropartita), e respingono l’ottimismo a senso unico di Anthony Giddens, suo cantore primario e intellettuale di riferimento della Terza via. Come, del resto, non certamente tacciabile di estremismo è Sir Ralph Dahrendorf, da sempre estremamente scettico e duro nei confronti delle ipotesi di Third way, e protagonista di una lunga polemica con il sociologo ex rettore della London School of Economics (a partire da un suo famoso saggio uscito nel settembre del 1999 sulla rivista «Foreign Affaire»), il quale legge nella Terza via, troppo impregnata di economicismo, un’involuzione sociale alla volta del «modello Singapore», opponendogli una riscoperta delle politiche keynesiane e di intervento pubblico.

Se anche gli esponenti di spicco di una sinistra intelligentemente moderata si ribellano alla dittatura dello spin, allora rimane più di una speranza.

 

 

Bibliografia

1 «The Alastair Campbell I know is an immensely able, fearless, loyal servant of the cause he believes in, who was dedicated not only to that cause but to his country», International CNN.com, 29 agosto 2003.

2 Come ha documentato lo sceneggiato televisivo The Deal – ancora una volta la politica che incrocia i propri passi con la tv – seguitissimo ed estremamente foriero di polemiche, andato in onda durante il congresso laburista di Bournemouth.

3 G. Aldobrandini, Il Welfare inglese dai Webbs a Tony, in «Reset», 70/2002.

4 S. Žižek, Tredici volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, Feltrinelli, Milano 2003.

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