La vittoria di Netanyahu e l’oscuro futuro di Israele

Di Maria Grazia Enardu Lunedì 23 Marzo 2015 17:40 Stampa

Dopo la chiara vittoria ottenuta alle elezioni della Knesset della scorsa settimana, Netanyahu si appresta a formare un nuovo governo. Le dichiarazioni che hanno preceduto il voto fanno però temere che le prospettive per una soluzione del conflitto israelo-palestinese siano sempre più cupe.


Le elezioni in Israele della scorsa settimana hanno avuto risultati chiari. A cominciare dall’affluenza alle urne: 72%, la più alta da dieci anni. Ha vinto il Likud, che ha conquistato 30 seggi, seguito dall’Unione Sionista (coalizione formata da HaTnuah di Tzipi Livni e dai laburisti di Yitzhak Herzog) con 23 seggi. Una nuova formazione di centro, Kulanu, guidata da un ex uomo del Likud, Moshe Kahlon, ha avuto 10 seggi. I religiosi aschenaziti hanno ottenuto 6 seggi, uno in meno rispetto alle elezioni precedenti, mentre i sefarditi, che si sono presentati alle elezioni divisi in due partiti, hanno conquistato solo i 7 seggi di Shas, non avendo l’altro gruppo raggiunto il quorum necessario. Anche i partiti arabi, per la prima volta insieme in uno schieramento elettorale, hanno ottenuto un buon risultato assicurandosi 13 seggi, due in più rispetto alla precedente tornata elettorale. La sinistra di Meretz ha avuto 5 seggi, uno in meno rispetto al 2013. Infine il partito centrista di Yair Lapid, Yesh Atid – rivelazione delle elezioni di due anni fa con 19 seggi –, è sceso a 11.

Netanyahu ha chiuso la campagna elettorale con una raffica di interviste e incontri e con un obiettivo preciso: far votare quanti più possibile e soprattutto cannibalizzare i partiti di estrema destra, come l’ex alleato Yisrael Beitenu, guidato da Avigdor Lieberman e con elettori di origine russa, che ha avuto solo 6 seggi, e Habayit Hayehudi, di Nafyali Bennett, sceso da 12 a 8 seggi.

Il leader del Likud non mirava semplicemente alla formazione di una coalizione di destra ma sorpassare con un certo margine l’Unione Sionista, per evitare la situazione del 2009, quando Livni lo aveva battuto per un seggio creando settimane di incertezza. Ci è riuscito, numeri alla mano. Assieme ai religiosi, a Bennett e a Lieberman arriva a 57 seggi. La Knesset ha 120 seggi, e quindi Netanyahu deve convincere Moshe Kahlon per aggiungere alla coalizione i 10 seggi di Kulanu. Kahlon, come detto, uomo era membro del Likud, famoso per aver fatto abbassare le tariffe telefoniche e non solo, è uscito dal partito alcuni anni fa per forti contrasti con il suo leader. Kahlon punta in alto, al dopo Bibi, come anche Bennett, e dovrà quindi manovrare con abilità.

Minori sono invece le chance governative, e politiche, di Lapid, che sembra essere in fase calante ma potrebbe essere entrare a far parte della maggioranza, nel caso in cui Kahlon ne rimanesse fuori.

Uno dei paradossi di questa tornata elettorale è stato l’indebolimento della destra tutta: nazionalisti e religiosi sono infatti scesi da 61 a 57 deputati. Il centro, con denominazioni diverse, è rimasto a 21. Lo schieramento opposto è salito da 38 a 42, ma include gli intoccabili della Knesset, i partiti arabi, che non solo non hanno mai fatto parte di un governo, escluso un sottosegretario al turismo, ma non hanno mai fatto parte determinante di una maggioranza. Il governo Rabin del 1992, la cui maggioranza comprendeva appena 62 deputati, cui a volte si aggiungevano quelli dei partiti arabi, era attentissimo nelle questioni rilevanti ad assicurarsi comunque una maggioranza “ebraica”, per evitare l’accusa di non essere più sionista.

La formazione di una grande coalizione tra Unione Sionista e Likud, con altri partiti minori, era considerata l’unica possibilità nella fase finale della campagna, quando addirittura pareva che il centrosinistra fosse in vantaggio, e si sapeva che il presidente Rivlin la considerava con favore. Ora, dal momento in cui Rivlin attribuirà l’incarico ci saranno tre settimane, rinnovabili, per formare un governo, e tutto lascia pensare che si tornerà a un governo di destra, stavolta con i religiosi, lasciati fuori nel governo precedente.

Alla prima valutazione dei risultati si è aggiunta, come una slavina, la reazione alle interviste elettorali di Netanyahu, considerate assai gravi, soprattutto all’estero. Ha dichiarato che non avrebbe accettato uno Stato palestinese, rinnegando cioè la sua unica affermazione in favore, il discorso all’Università Bar Ilan del 2009. Poi, mentre si votava, ha lamentato che gli arabi israeliani andavano alle urne numerosi e che bisognava fare qualcosa, ovvero portare quanti più israeliani ebrei a votare, e soprattutto votare Likud. Questo ha suscitato critiche in Israele e gravi imbarazzi all’estero, da dove le congratulazioni di rito sono arrivate lente e cariche di ammonizioni. La telefonata di Obama a Netanyahu è stata, dicono, soprattutto l’occasione di criticare quelle affermazioni e di dichiarare che la politica americana verso Israele sarà rivista. Il leader del Likud ha cercato di correggere il tiro su quanto aveva detto, ma con il risultato di accrescere la sua fama di bugiardo.

Così Netanyahu, per vincere e anzi stravincere in casa, ha perso fuori, dimenticando che Israele, già molto isolato durante i suoi precedenti governi, rischia col “Netanyahu quater” di dover rendersi conto che una democrazia è tale non solo a parole, le proprie, ma quando lo dimostra con le sue politiche. La quasi cinquantennale occupazione ha avuto gravi e forse irreversibili effetti, e queste elezioni hanno dimostrato che il paese intende proseguire per quella strada. Ora tutti gli altri soggetti coinvolti, dentro e fuori il Medio Oriente, avranno modo di rivedere orientamenti e politiche.