Il gran rifiuto dei sauditi

Di Maria Grazia Enardu Martedì 19 Novembre 2013 18:10 Stampa
Il gran rifiuto dei sauditi Foto: unaoc

Lo scorso ottobre, a sorpresa, l’Arabia Saudita ha rifiutato il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, carica che il paese non ha mai ricoperto pur essendo un membro fondatore. Dietro il gesto plateale – che però non è stato ancora ufficializzato – potrebbe nascondersi la nuova strategia saudita, volta a reagire ai nuovi equilibri regionali e al mutato ruolo globale dell’alleato di sempre, gli Stati Uniti.


Lo scorso ottobre, nel giro di appena ventiquattro ore, l’Arabia Saudita è stata prima eletta membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e poi ha annunciato le dimissioni dal seggio.

Una situazione del tutto inedita, sintomo e simbolo di una politica estera, del regno saudita e del Medio oriente tutto, che cerca nuove strade e inciampa in vecchi grovigli.

Il 17 ottobre, infatti, i sauditi hanno raggiunto un ambito obiettivo, che era costato anni di preparazione. Un seggio non permanente, pur con tutti i limiti dovuti al peso specifico dei cinque membri permanenti, è pur sempre un notevole riconoscimento internazionale. Da parecchi decenni i paesi della Lega Araba cercano di avere un loro rappresentante in Consiglio. Il tutto richiede la ricerca di voti, lunghi negoziati dietro le quinte, promesse, impegni, destrezza. Offre opportunità ed esperienze – compresa la possibilità di presiedere il Consiglio stesso – che sono molto lontane, per prestigio e prassi, dal semplice seggio dell’Assemblea Generale.

In quella votazione sono stati eletti anche Ciad, Cile, Lituania e Nigeria. Il Consiglio rinnova i sui dieci componenti non permanenti, per una durata di due anni, in due tornate e il seggio viene poi occupato dal gennaio successivo alle votazioni. La presidenza ruota mensilmente fra i paesi membri del Consiglio in base a un ordine alfabetico, e, pur nella sua breve durata, il presidente di turno convoca e gestisce anche le riunioni di emergenza.[1]

A scorrere la lista dei paesi che non sono mai stati eletti in Consiglio, ed escludendo gli Stati minuscoli, praticamente irrilevanti, o con situazioni interne molto particolari, l’Arabia Saudita era in compagnia solo della Svizzera[2] e di Israele. In un certo senso, per essere uno dei paesi fondatori dell’ONU,[3] ci ha messo anche troppo tempo, anzi è clamorosamente l’ultimo paese arabo a raggiungere un ambito, ma anche affollato, traguardo.

Il comunicato ufficiale saudita ha definito l’elezione, senza alcuna ironia, un’impresa storica un «defining moment»[www.saudimission.org]. E l’ambasciatore all’ONU Abdallah Al-Mouallimi ha affermato, a caldo, che il suo governo prende il compito molto seriamente, come riflesso di una coerente politica in sostegno di un approccio moderato e di risoluzione dei conflitti con mezzi pacifici.

Ma qualcosa deve essere successo in quelle stesse ore, perché il ministero degli Esteri saudita ha poco dopo aspramente accusato il Consiglio di aver fallito su molti fronti: sul conflitto israelo-palestinese, sulla guerra civile siriana e soprattutto sul non riuscire a impedire che il Medio Oriente si riempisse di armi atomiche. Quindi, niente seggio.

Con un’ulteriore piroetta, e maggiore entusiasmo, l’Arabia Saudita ha poi cercato un seggio in un’agenzia ONU, lo Human Rights Council,[4] dove è stata eletta il 12 novembre, per il biennio 2014-2016. Un successo, anzi «a standing testament to its commitment to human rights issues on all fronts». Ma un obiettivo di peso assai minore rispetto al Consiglio di Sicurezza, tanto più che l’Arabia Saudita ha già fatto parte dell’HRC nelle tornate elette nel 2006 e 2009.

I sauditi si erano preparati bene, consapevoli che i loro diplomatici, pur abituati al ruolo di paese membro dell’Assemblea dal 1945, dovevano affrontare compiti ben diversi, e infatti alcuni di loro avevano addirittura frequentato corsi alla Columbia University. Sono pochissimi i precedenti di Stati con seggio nel Consiglio che si siano deliberatamente assentati o abbiano boicottato i lavori. Famoso è il caso dell’Unione Sovietica che abbandonò il Consiglio di Sicurezza nel 1950 perché voleva che anche la Cina Popolare (e non Taiwan) ne facesse parte. Ma la sua assenza permise il passaggio della risoluzione che autorizzava le Nazioni Unite ad appoggiare l’intervento americano in Corea, e fu quindi un boomerang.

Il rifiuto dell’Arabia Saudita è il primo caso in assoluto di rinuncia prima della reale assunzione del seggio, che dovrebbe avvenire nel gennaio 2014. Il rifiuto, però, non è stato ufficializzato, potrebbe quindi rientrare, e comunque porrebbe una serie di problemi interni al blocco dei paesi che hanno votato per il paese arabo. Ogni decisione, tuttavia, è rimandata al prossimo anno. L’annuncio ha sorpreso anche parecchi sauditi. Esso è stato immediatamente considerato come una reazione alla politica americana, in Siria e altrove, ma costituisce anche l’elemento più visibile di una globale revisione politica, centrata sui cambiamenti regionali, che Riyad legge in termini nettamente negativi, e sui nuovi equilibri mondiali, anch’essi percepiti come riduzione del ruolo dell’alleato classico, Washington. E i sauditi non gradiscono questi mutamenti.

Tutto ruota intorno alla questione Iran, che a sua volta condiziona altri aspetti regionali: armamenti, Golfo Persico, Siria, ruolo crescente degli sciiti, rivoluzioni arabe assortite, soprattutto in Egitto.

Dal 1975, il ministro degli Esteri saudita è il principe Saud bin Faisal. Ma da un anno la politica estera non ufficiale del regno è guidata da una personalità forte e abituata a muoversi con disinvoltura all’estero, il principe Bandar bin Sultan, ambasciatore negli Stati Uniti dal 1983 al 2006, dove ha attraversato le presidenze di Reagan, dei due Bush (11 settembre compreso) e di Clinton. Con i Bush era in termini così familiari da essere da loro chiamato Bandar Bush. Ora è il capo dell’intelligence saudita, attenta di sicuro ai nemici interni ma soprattutto concentrata sul grande gioco internazionale, fatto di amici veri e finti e nemici a volte di incerta definizione.

Se si guardano i principali riquadri della scacchiera saudita, l’Iran in versione Rouhani, al tavolo di negoziato con gli occidentali e la Russia, occupa un posto centrale. Un accordo limiterebbe in modo significativo le ambizioni nucleari dell’Iran ma ridurrebbe prima e smonterebbe poi il sistema delle sanzioni, determinando una ripresa dell’economia che porterebbe Teheran a un più significativo ruolo, economico e politico, nella regione. Al di là delle iniziative che Teheran potrebbe prendere, la fine delle sanzioni trasformerebbe l’Iran da paria a Stato forte e capace di esercitare una maggiore attrazione sugli altri paesi della regione, principalmente nella sfera sciita ma con ripercussioni in ogni angolo del Grande Medio Oriente.

Per quanto concerne la Siria, l’appoggio saudita ad alcuni gruppi ribelli è dettato non solo dall’ostilità ad Assad e al suo alleato iraniano, ma anche dalla volontà di rafforzare la componente sunnita e legarla a Riyad, al fine di creare un fronte sunnita che copra anche parti dell’Iraq, la Giordania, i piccoli regni del Golfo, una sorta di area di influenza che i sauditi vogliono considerare propria. Il rifiuto occidentale – e le lunghe incertezze americane – di intervenire militarmente rafforzano Assad, indeboliscono i ribelli tutti e preoccupano i sauditi, anche perché leggono in questo la decisione di Obama di ridurre gradualmente gli impegni militari. Mentre i sauditi sono sempre più convinti che l’unica influenza che conti sia quella economica ma accompagnata da una visibile manus militare.

La vicenda egiziana è quella che riassume meglio l’irritazione saudita: prima una primavera che ha spazzato via Mubarak, poi il potere passato ai Fratelli Musulmani – che saranno anche buoni sunniti ma non sono certo di obbedienza saudita, anzi sono elemento di disordine nel mondo visto da Riyad. Con il paradossale risultato che i sauditi appoggiano la presa del potere da parte di militari e la finanziano pesantemente. L’Egitto è, nel mondo arabo, tradizionalmente ostile all’Arabia Saudita e – pur con le sue enormi difficoltà economiche – l’unico in grado di esercitare, se vuole, un ruolo di leadership che Riyad ovviamente non intende permettere. I militari egiziani, impegnati a dimostrare la loro legittimità e a riavviare l’economia, daranno pochi fastidi.

Il paese che suscita le maggiori contraddizioni saudite è certamente Israele. I governi di Gerusalemme hanno sempre rifiutato il piano di pace proposto dal regno – al summit di Beirut del 2002 e poi riproposto nel 2007 – che prevede non solo la creazione di uno Stato palestinese ma soprattutto il ritorno alla linea ante 1967. Però Israele e Arabia Saudita furono (molto) involontari alleati nella guerra del Golfo del 1991, quando Saddam Hussein tentò più volte con il lancio di missili su Israele di provocare la rottura del fronte anti-Iraq: se Israele avesse risposto, l’Arabia Saudita sarebbe stata costretta a uscire dalla guerra. Per aggirare questo tranello e rassicurare il quasi ostile governo Shamir, il presidente Bush e il segretario di Stato Baker diedero a Israele batterie antimissile di ultimo modello, con equipaggi americani.

Negli ultimi anni, e grazie al comune nemico Iran, Israele e Arabia Saudita si sono scoperti ancora una volta sodali per caso. È di poche settimane fa la notizia che i sauditi hanno puntato i missili sia sull’Iran sia su Israele, ma puntare un missile non equivale certo a lanciarlo e anzi costituisce un messaggio di interessante decifrazione. Molto più recente è la notizia che l’intelligence israeliana, il Mossad, e quella saudita stanno collaborando, non si sa a che grado, contro l’Iran.

Tutto questo costituisce un ulteriore indizio che la politica estera saudita è sempre più nelle mani del principe Bandar che non del titolare ufficiale degli Esteri, e che Bandar opera a tutto campo, dalla diplomazia aperta alla modalità più grigie. Visto da Washington è un amico più che temibile, poiché conosce benissimo persone, meccanismi, debolezze e può operare con la spregiudicatezza che solo il suo ruolo rende possibile. Se ne è avuto un singolare esempio lo scorso agosto. Bandar è stato a Mosca, ha incontrato Putin e, secondo indiscrezioni di stampa, gli avrebbe proposto un vantaggioso accordo sul petrolio (la Russia è uno dei principali produttori) in cambio della cessazione dei rifornimenti di armi russe ad Assad. La proposta sarebbe stata però accompagnata dalla minaccia di far partecipare i ceceni alle Olimpiadi invernali di Soči l’anno prossimo. Putin ha rifiutato, pare, almeno per il momento.

Non c’è dubbio, comunque, che nell’improvvisa rinuncia al seggio in Consiglio c’entri soprattutto la Siria, ovvero gli Stati Uniti, accusati di indecisione e marcia indietro nell’appoggio militare ai ribelli. Poco dopo il ritiro, Bandar avrebbe detto a un diplomatico occidentale che il gesto era «un messaggio per gli Stati Uniti, non per l’ONU»; mentre da parte americana un’autorevole fonte anonima ha ammesso che «da tempo, i nostri interessi non sono più allineati».

Così l’alleato di sempre ha voluto dare un segnale forte, anche in parte autolesionista, ed è chiaro che i sauditi hanno avuto tempo per pensarci, non le sole ventiquattro ore passate tra il voto e l’annuncio della rinuncia, ma i parecchi giorni precedenti, quando il blocco dei votanti a favore diveniva visibile e misurabile. I sauditi devono averci pensato bene, era l’occasione per uno scossone che tutti potessero percepire. La fine del lungo gelo tra Stati Uniti e Iran è infatti come un cedimento, una minaccia, l’abbandono di alleati fedeli. Non può essere stata una “protesta infantile”, anzi il chiudersi in un angolo «mentre si immaginano sogni grandiosi che eccedono e di molto le sue capacità».

Però rimane da vedere in che modo la monarchia saudita renderà concreta la sua decisione, in gennaio, e soprattutto quali altri manovre e sorprese può riservare la sua politica estera, così annodata a quella interna. Perché da secoli l’immensa famiglia reale saudita si regge su un patto con gli elementi religiosi più tradizionalisti che la appoggiano. Tranquillità interna, occhiuto controllo di ogni rivolgimento sociale che possa toccare gli assetti di base; lo strumento di tutto questo è però anche l’esportazione di un modello islamico proprio, per nulla condiviso da altri stati musulmani. Un’«arma letale (...) efficacemente usata, la capacità di produrre generazioni che davvero credono nell’obbedienza in casa e nel jihad all’estero». Giudizio assai severo ma con un netto fondo di verità, nonostante i molti scricchiolii, soprattutto tecnologici, come l’ampio uso di social media in protesta virtuale.

L’aver annunciato il rifiuto del seggio poche ore dopo il voto permette all’Arabia Saudita di avere un periodo relativamente lungo per osservare le immediate conseguenze, valutare i progressi – per così dire – dei negoziati sull’Iran, osservare se ci sono mosse su Siria e questione palestinese che li riassicurino. A gennaio poi potranno modulare il gran rifiuto o formulare una linea più morbida, anzi più prudente e consona alle tradizioni del regno. Potrebbe essere anche una forma estrema di dialogo diplomatico, sul molto spinoso tema dell’uso del veto in Consiglio, e sicuramente la forma dell’obiezione saudita si presta ad un ascolto – presso orecchie americane in particolare – altrimenti non ottenibile. Comunque sia, è una manovra con rischi immediati e risultati assai incerti. Tra alcuni anni potrebbe essere vista come l’avvio di una politica estera nuova, con il nome di “linea Bandar”.



[1] L’Italia è stata eletta in Consiglio sei volte e ha avuto la presidenza dieci volte.

[2] La Svizzera, però, è entrata a far parte delle Nazioni Unite soltanto nel settembre 2002.

[3] L’Arabia Saudita ha aderito all’ONU il 24 ottobre 1945 ed è quindi uno dei 51 membri fondatori.

[4] Lo HRC conta 47 stati, eletti con ripartizione geografica. Oltre all’Arabia Saudita, sono stati eletti Algeria e Marocco, in sostituzione di Liia, Mauritania e Qatar. Tra i seggi che non sono stati rinnovati ci sono quelli di Kuwait e UAR.

 


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