Colombia: quale prospettiva di pace?

Di Gianandrea Rossi Venerdì 25 Ottobre 2013 09:49 Stampa
Colombia: quale prospettiva di pace? Foto: SIG

Da quasi un anno vanno avanti in Colombia i negoziati di pace per porre fine al conflitto fra il governo di Bogotà e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC). Nonostante le molte difficoltà e i momenti di stallo, le trattative in corso hanno possibilità di successo, purché esse siano concluse in fretta e non diventino argomento delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo maggio.


Con un’enfasi che non ha precedenti, il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos Calderón, intervenendo alla 68° Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, ha dichiarato di fronte alla comunità internazionale l’importanza del negoziato di pace in corso nel paese, oggi giunto a una situazione di stallo. «Il mio desiderio è che la fine del conflitto sia la buona notizia che il futuro presidente della Colombia porterà con se in questa Assemblea il prossimo anno» ha sottolineato Santos nel suo discorso, durato oltre venti minuti e dedicato al tema della violenza e della pace nel suo paese. «Fare la guerra, e io la so fare, è più facile che fare la pace (…) per questo non sarebbe responsabile abbandonare il negoziato» ha ribadito il presidente per valorizzare la scelta fatta lo scorso anno, a metà del suo mandato, di aprire una nuova via di dialogo con la guerriglia per porre fine a un conflitto che ha provocato oltre 220mila morti. «Vogliamo mettere fine al nostro conflitto senza rinunciare alla giustizia, né tanto meno alla verità e alla riparazione per le vittime» ha affermato il presidente Santos, ricordando al mondo che, nonostante tutto, «non ci sarà impunità per i crimini conto l’umanità e i crimini di guerra perpetrati in maniera sistematica» nei decenni passati.

Dall’intervento è così apparsa con chiarezza la determinazione con cui Juan Manuel Santos, già ministro della Difesa del suo predecessore, Alvaro Uribe – uno dei più acerrimi nemici del dialogo con le FARC (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) –, ha deciso di portare avanti questo difficile negoziato, attorno al quale si gioca anche il suo futuro politico. Forte del largo consenso raccolto nei primi due anni di governo, lo scorso autunno Santos decise di rilanciare la sfida epocale di un negoziato di pace, considerato come lo scoglio fondamentale per liberare il paese da una morsa di violenza che rappresenta ancora un forte ostacolo allo sviluppo del paese. Dopo pochi mesi di governo Santos aveva portato a casa già un brillante risultato, l’approvazione della Ley de victimas y restitución de tierras, uno strumento legislativo rivelatosi fondamentale per la definizione di alcuni pilastri indispensabili per avviare un dialogo di pace: il riconoscimento della figura delle vittime e del loro diritto alla riparazione da parte dello Stato. Sono state gettate così le condizioni per avviare un ampio dibattito nel paese sul tema della riforma agraria, considerata imprescindibile per il rilancio economico e sociale del paese. La riconquista da parte dello Stato di territori precedentemente controllati dal narcotraffico e dalla guerriglia ha, infatti, consentito in pochi mesi di raggiungere l’accordo sulla riforma agraria e avviare un meccanismo certo di assegnazione delle terre.

Sull’onda di questo entusiasmo e approfittando della sua ampia popolarità, il governo Santos ha lanciato anche la nuova sfida dei negoziati di pace, agevolata peraltro da una positiva congiuntura economica. Il dialogo di pace ha così avuto inizio nel novembre del 2012, a L’Avana, sotto la supervisione di Norvegia e Cuba e l’osservazione di Cile e Venezuela. La delegazione del governo è guidata da Humberto la Calle, mentre a capo di quella in rappresentanza della guerriglia si trova Iván Márquez. In soli sei mesi, in un clima di forte attesa e positiva collaborazione, le parti sono giunte a un accordo su uno dei punti portanti dell’agenda: la riforma agraria. «Ci siamo accordati per dare il via a trasformazioni radicali nel settore rurale e agrario colombiano con equità e democrazia», si legge nel comunicato congiunto. «Obiettivo dell’accordo è contrastare gli effetti del conflitto armato, e assicurare il risarcimento delle vittime sia per quanto è stato tolto loro sia per le sofferenza procurate dallo sfollamento». Il patto, che prevede misure concrete per la riforma del settore agrario, volte a intaccare principalmente il controllo della criminalità sulle terre e la struttura principalmente latifondista dell’agricoltura, si articola in quattro assi.

Il primo consiste in una vera e propria riforma agraria. Tra le novità vi è l’istituzione di un fondo (alimentato con le terre sequestrate) finalizzato a garantire un’equa redistribuzione delle terre; una riforma del catasto (mirata a introdurre nuove politiche fiscali «destinate a penalizzare i produttori che lascino incolte le terre»). Larga parte delle terre colombiane è inutilizzata e «per avere un utilizzo più efficiente delle nostre terre», come ha dichiarato lo steso Santos commentando il nuovo accordo, «dobbiamo creare un sistema di incentivi che si traduca in politiche per riportare l’uso delle terre alla sua vera vocazione».

Il secondo asse prevede il finanziamento di programmi di sviluppo rurale in aree particolarmente disagiate con importanti investimenti da parte dello Stato. Con il terzo asse si intende intervenire nel settore dell’educazione e della salute, e in quello delle infrastrutture finalizzate a «ridurre l’emarginazione sociale e la povertà». L’ultimo punto dell’accordo si concentra invece sulle misure necessarie per sostenere nuove politiche a favore della sicurezza alimentare e nutrizionale, con programmi mirati a combattere la fame in diverse aree del paese. Si tratta di un “cambiamento storico” del settore, che supera la visione tradizionale «di una riforma agraria, nel pieno rispetto della proprietà privata e degli attuali proprietari terrieri del paese» ha dichiarato il negoziatore governativo de La Calle.

Molti i commenti positivi, a partire da quelli, soddisfatti, dello stesso Santos, che lo ha definito un passo fondamentale verso la pace, e della comunità internazionale, in particolare dei vicini Nicolàs Maduro ed Evo Morales. Lo stesso vicepresidente statunitense Joe Biden si è recato a Bogotà per appoggiare il nuovo accordo e sostenere i negoziati, che da giugno sono tornati a occuparsi del secondo punto, cioè quello della smobilitazione della guerriglia e del suo inserimento nella vita democratica del paese. Anche sul fronte interno sono stati molti gli apprezzamenti provenienti dalle forze di governo. In particolare, il presidente del Senato Roy Barreras, di Unidad Nacional, ha sottolineato che si tratta di un passo in avanti irreversibile. Il Partido Liberal, attraverso il presidente della Camera, Simon Gaviria, ha definito l’accordo «una tappa storica». Anche il Polo Democratico, seppur dall’opposizione, ha accolto con entusiasmo la notizia: «questa giornata deve rimanere nella memoria dei colombiani», ha dichiarato Ivan Cepeda.

Di tutt’altro tono, i commenti di Alvaro Uribe, che ha colto l’occasione per scagliarsi contro il suo successore, accusato di essere passato dalle posizioni antiterroriste e antichaviste di quando era suo ministro a negoziatore con i terroristi e sostenitore del governo di Caracas: «Santos fu il giornalista latinoamericano e ministro più schierato contro la guerriglia e il castrochavismo. Oggi si è convertito nel gran leggittimatore della dittatura venezuelana» ha dichiarato, «i terroristi ricevono oggi come premi o un accordo» ha scritto su Twitter a poche ore dalla notizia, ribadendo che è inaccettabile che lo Stato negozi con la guerriglia il modello di sviluppo rurale della Colombia.

E proprio queste reazioni, sia dentro il paese che fuori, probabilmente hanno complicato il processo negoziale, che oggi, quasi a un anno dal suo inizio, si è arenato su un nodo politico fondamentale: la partecipazione, dopo gli accordi, del gruppo guerrigliero nel processo politico interno. Tra i nodi venuti al pettine anche il metodo da adottare per ratificare gli accordi: da un lato il governo, con i negoziati in corso, ha presentato al Parlamento una legge per convocare un referendum, in concomitanza delle prossime elezioni (2014), per ratificare gli accordi raggiunti; dall’altro le FARC si sono opposte con forza, chiedendo che in caso di raggiungimento di un accordo di pace, questo venga ratificato da un’Assemblea costituente ad hoc. Negli ultimi giorni di agosto il confronto tra le delegazioni è divenuto aspro destando molte preoccupazioni sulle prospettive del negoziato. Il leader delle FARC noto con il soprannome di Timoshenko, ha affermato che il presidente Juan Manuel Santos si oppone a un ampio “coinvolgimento popolare” nelle decisioni del percorso di pace: l’esecutivo, con questa proposta di legge referendaria, «ha fatto credere che darà una chance ai colombiani di votare “sì” o “no” su ogni singolo punto dell’accordo finale. Invece, ha affermato Timoshenko, vuole far esprimere la popolazione allo scopo di acquisire poteri straordinari per emettere decreti e fare in modo che gli accordi raggiunti a L’Avana entrino in vigore.

Al di là di queste tensioni, il percorso negoziale, che prevede altre cinque tappe (tra cui smobilitazione della guerriglia, partecipazione politica, riparazione delle vittime), inizia a intrecciarsi con il futuro politico del paese. Non a caso, in coincidenza con l’annuncio del suddetto accordo, il presidente Santos ha fornito nuovi elementi in merito a una sua possibile ricandidatura alle presidenziali del prossimo anno, anche se ha dichiarato che non scioglierà la riserva prima dei sei mesi dalle elezioni. In alcune dichiarazioni pubbliche si è, infatti, augurato che nel 2014 «venga eletto chi vuole avanzare sulla strada per la pace», riferendosi alle tante polemiche sollevate dal suo predecessore Uribe. A corroborare questa ambizione presidenziale concorrono anche alcuni cambiamenti interni alla compagine di governo, fra i quali l’uscita del ministro della Giustizia Germán Vargas Lleras, del segretario della Presidenza Juan Medina, e del ministro dell’Agricoltura Camilo Restrepo (interessante notare che le dimissioni di quest’ultimo hanno coinciso proprio con il lancio dell’accordo sulla riforma agraria).

Tutti e tre gli ex membri di governo sono stati destinati alla guida della Fundación Buen Gobierno, la struttura che organizzò e sostenne la candidatura di Santos nel 2010. Sembra così più chiaro l’obiettivo di Manuel Santos di arrivare al 2014 con uno strumento efficace di coesione e consenso per la gestione di una campagna elettorale, per la quale la dote principale potrebbe essere rappresentata dal raggiungimento di un accordo di pace. Germán Vargas Lleras sarà il presidente della Fondazione, nonché il probabile coordinatore della campagna di Santos, mentre Juan Medina ne sarà il direttore.

Il destino del negoziato sembra dunque indissolubilmente legato alla prossima campagna elettorale. E infatti, qualora non si riuscisse a concludere il negoziato entro quest’anno, prima dell’avvio della campagna stessa che si chiuderà con il voto il prossimo maggio, il timore di una strumentalizzazione politica dell’eventuale accordo allontanerebbe di molto le probabilità di una soluzione positiva del dialogo di pace. Alcune concrete difficoltà sono già emerse nei mesi scorsi in seguito alle imponenti manifestazioni contadine nei dipartimenti di Boyacá, Cundinamarca, Nariño e Huila che hanno incrinato la stabilità del governo proprio nei momenti più difficili del negoziato, costringendo Santos a un sostanzioso rimpasto. Difficoltà che sono rientrate solo grazie alla consolidata esperienza negoziale del vicepresidente Angelino Garzón.

Per queste ragioni, come ha sottolineato Roy Barreras, sarà determinante la capacità dei negoziatori di chiudere entro l’anno i capitoli dell’accordo rimanenti, al fine di evitare che le trattative diventino argomento della contesa elettorale e vengano bloccate dalla disputa tra le parti. Per le FARC lo stimolo a chiudere i negoziati potrebbe essere costituito dalla prospettiva di un reintegro nella vita politica nazionale (nel più breve tempo possibile, per arginare eventuali spaccature interne alla guerriglia), e dunque dalla possibilità di potersi costituire in partito politico, partecipare direttamente alle prossime elezioni, mettendo a frutto il successo conseguito con il varo della riforma agraria. Per il governo lo stimolo potrebbe essere dato dalla possibilità di riscuotere nelle urne il successo della chiusura dello storico accordo di pace.

A complicare il percorso del negoziato di pace, tuttavia, c’è il suo carattere “regionale”. Le trattative vanno, infatti, avanti da quasi un anno grazie al ruolo dei paesi “facilitatori”, Cuba e Norvegia, e dei paesi “osservatori”, Cile e Venezuela. Proprio a partire da questo intreccio di equilibri tra governi di diverso orientamento politico e con il pieno coinvolgimento del governo cubano, tradizionalmente affine alla rivendicazioni ideologiche di alcuni settori della guerriglia delle FARC, è stata costruita l’intelaiatura regionale del dialogo tra le parti. La tenuta di questo negoziato – e il fatto stesso di essere ancora in piedi rappresenta di per sé un successo, visto il fallimento dei precedenti tentativi – è anche frutto del ruolo assunto progressivamente dalla Colombia nello scenario regionale di attore emergente in grado di costruire nuovi equilibri di potere.

Attorno al negoziato con le FARC ruotano, infatti, importanti fattori di livello regionale: tra gli altri, le nuove relazioni tra Colombia e Venezuela, le conseguenze della morte di Chavez sugli equilibri dei paesi ALBA, la transizione cubana, il lancio da parte di Bogotà di una campagna internazionale volta a cambiare l’approccio della lotta alla droga e al narcotraffico, superando lo schema della repressione violenta in favore di una visione legalitaria del consumo (sostenuta già da altri paesi come Guatemala e Uruguay), e da ultimo, la decisione del governo di avviare i preparativi per un tavolo di pace anche con l’altra guerriglia interna, l’ELN (Ejército de Liberación Nacional), con il sostegno dell’Uruguay.

Per tutti questi motivi il fallimento del negoziato potrebbe rappresentare un colpo significativo alla nuova leadership regionale del paese sudamericano e alle sue importanti prospettive di crescita (lo scorso maggio sono state avviate le procedure per l’ingresso della Colombia nell’OCSE). Per le stesse ragioni, tuttavia, il negoziato in corso potrebbe avere concrete speranze di successo, nonostante le complesse vicende interne.