Per un "pensare senza ringhiera": l'etica femminista

Di Francesca Brezzi Giovedì 08 Ottobre 2009 18:21 Stampa

Lasciando sullo sfondo l’ambivalenza e la problematicità dell’etica contemporanea, in questo contributo si affronta la riflessione femminista nella sua prismaticità, pertanto si analizza sia il filone della differenza sessuale sia la produ­zione statunitense che, contro la favola sostanzialista, pro­pone l’io nomade. Infine si affronta il tema etico-politico di una teoria critica della differenza, che deriva dal dibattito relativo alla pluralità (etnica, religiosa, culturale) presente nelle società attuali.



La sfida etica

«Avida di teorizzazione etica, la nostra epoca vive nondimeno sotto il segno di un’etica spesso problematica»,1 afferma Jacqueline Russ, offrendo le coordinate della tematica che verrà discussa in queste pagine. Se, infatti, la filosofia morale come disciplina ha una lunga tradizione, e molti sono i grandi pensatori a cui attingere, tuttavia oggi essa si presenta con nuove e specifiche caratteristiche, che sono cifra di complessità. Da una parte, godiamo di una ricca produzione ed emergono varie proposte, sì che il contesto è stato caratterizzato quale “riabilitazione della filosofia pratica”; dall’altra parte, nell’epoca della crisi delle ideologie anche l’universo dei valori appare in profonda trasformazione, in cerca di nuove fondazioni o di fondamenti “altri”.
In riferimento alle tematiche etiche, allora, si intravede una condizione di “guado”, e gli esempi potrebbero essere infiniti: si ricordano il problema dei diritti umani, la questione della cittadinanza incompiuta delle donne, il riconoscimento di codici etici altri, le questioni della bioetica, che solo qualche ventennio fa non si ponevano assolutamente all’interrogazione dei filosofi ecc. In via generale si può anticipare che di fronte alla frammentazione disparata e fragile di proposte – i valori tradizionali sono stati messi in crisi, i valori nuovi non si sono ancora affermatisi avverte la difficoltà di fondare la normatività: se permane la pretesa dell’etica di fondarsi su principi universali, insieme si apre minaccioso e drammatico l’abis so della fatticità e della nuda contingenza.
Il nostro è un “tempo di privazione”, come affermava Heidegger, in cui si è assistito al crollo delle filosofie sistematiche, alla caduta delle visioni del mondo, al rifiuto dei saperi universali e della stessa ragione che di quelli era lo strumento, ma insieme – o di conseguenza – hanno fatto irruzione i saperi nuovi. E non è senza significato sottolineare come in tale contesto le teorie che si sono venute configurando siano cifre di questa stessa crisi, espressioni dell’allontanamento da quei modelli di razionalità che hanno dominato nella tradizione filosofica occidentale.
Come MacIntyre2 ha rilevato, il progetto morale elaborato sia dagli illuministi che da Kant è fallito per autoconfutazione, perché entrambi miravano a identificare una serie di precetti morali universali, giustificabili razionalmente, mentre il mondo in cui viviamo si presenta in uno stato di grande disordine, dal momento che di esso pos sediamo solo frammenti isolati e parole di difficile uso, avendo perso i con testi da cui deriva il loro significato.
L’etica contemporanea esprime il risultato di tale situazione: «l’uomo avrebbe fatto del frammento e del disordine il pro prio comportamento», (ancora MacIntyre), da cui anche la frattura tra ontologia ed etica, o me glio l’affermarsi di una ragione calcolistica non idonea a dar conto né del l’essenza uomo né del suo telos, pertanto il proposito di una fondazione razionale dell’etica si scontra con i “progetti” diversi in cui esso stesso si incarna.
Se, conclusivamente, si palesa una forte domanda di etica, legata all’evolvere della vita sociale ed economica e allo sviluppo tecnologico, la risposta che si cerca da più parti di fornire è difficile e ardua. Ciò nonostante va sottolineato come lo sforzo teoretico e pratico di notevole rilevanza che ne è scaturito consente sia di disegnare un’etica quale riflessione sui fondamenti del nostro agire, sia individuare le etiche regionali o applicate, ovvero, si manifesta la possibilità di mettere a tema le scelte concrete che il soggetto si trova ad affrontare.

Verso un’etica femminista

In questa complessa temperie si sono aperti infiniti itinerari di riflessione il cui sfondo teoretico può essere rappresentato dal “pensare senza ringhiera”, 3 di cui parla Hannah Arendt, una metafora facilmente comprensibile: siamo abituati ad appoggiarci alla ringhiera dell’identità, al valore dell’unità, al logos, al sistema; oggi, invece, “abbiamo perso la ringhiera”. Da qui sorgono aporie, ma anche interrogativi di grande rilevanza; il filone che si intende seguire è identificabile come pensiero della differenza sessuale, o filosofia di genere, intrecciato con i temi, sopra accennati, relativi al crollo della ragione sistematica, a cui si deve aggiungere la messa in crisi del soggetto monolitico e l’irrompere dell’alterità o della pluralità nel cuore del sé. In particolare si focalizzerà la dualità di genere come fattore imprescindibile di interpretazione del sé, del mondo e della storia quale rinveniamo nelle riflessioni di molte pensatrici femministe, quali Luce Irigaray, Judith Butler, Rosi Braidotti, la Comunità di Diotima ecc.
Non è possibile in questa sede approfondire come meritano le caratteristiche di fondo, i percorsi più significativi e considerevoli del pensiero femminista, che è stato disegnato da una studiosa americana, Susan Moller Okin, quale un “prisma dell’appartenenza sessuale”,4 espressione con la quale si allude al cammino percorso dagli women’s studies, esplosi, con molta generalizzazione, negli anni Sessanta; oggi, un quarantennio dopo, possiamo senza fatica cogliere quanto tale cammino sia stato qualitativamente e quantitativamente di crescita. Il grande sviluppo di ricerche in tale ambito e in contesti disciplinari molto diversificati ha mostrato l’emergere di un continente da troppo tempo sommerso, continente o altopiano molto frastagliato, caratterizzato da tante regioni unite da affinità diversamente relazionate.
Affrontare il pensiero femminista all’inizio del Terzo millennio significa fare i conti non solo con una ricca produzione bibliografica, ma anche con un arcipelago di posizioni, appunto un prisma, di grande originalità e forza che può confrontarsi paritariamente con la tradizione filosofica (e spesso questa si mostra impreparata).
Si è parlato di un “pensare senza ringhiera”, si è detto che le filosofe contemporanee intraprendono un itinerario, un viaggio, tentando l’interpretazione dei segni e delle cifre del mondo in cui ci troviamo. Inoltre è significativo evidenziare come il pensiero femminista abbia lasciato un’impronta paticolare, sia rispetto alle scelte dei temi sia al modo di affrontarli e svolgerli: è quindi necessario mostrare il vantaggio che deriva alla storia della filosofia dall’elaborazione delle massime questioni da parte delle donne.
Se è vero, come affermava Parmenide, che il percorso della filosofia non si svolge «lontano dal cammino degli uomini» ma lungo il loro stesso sentiero, ciò sta ad indicare che i filosofi non vivono in un mondo privato, né in un empireo astratto e pertanto la filosofia riceve dal contesto sociale, culturale e storico in cui gli esseri umani vivono gli stimoli e gli interrogativi cui dare risposte. Si giunge così con successivi passi di avvicinamento al tema più urgente per il nostro contesto cioè la riflessione eticopolitica, nella quale troviamo sia le elaborazioni già avanzate dal femminismo degli anni Settanta sia i più recenti ripensamenti di alcuni concetti chiave.
Dopo quanto osservato circa l’ambivalenza che le problematiche etiche evidenziano, venendo all’argomento che ora interessa – la possibilità di un’etica femminista – dobbiamo rilevare come l’interrogarsi della donna su se stessa, la ricerca sull’identità femminile in quanto tale, comporti dei cambiamenti radicali non unicamente in relazione all’indagine sulla verità, non solo in riferimento al recupero del soggetto dimenticato nell’odierna crisi del Cogito ma in vista di una ricodificazione etica e quindi di un’etica della differenza sessuale; su questa strada il pensiero femminista diventa interlocutore primario di quel dibattito che nel pensiero contemporaneo costituisce uno dei momenti più interessanti, soprattutto nell’ambito bioetico. La vita quotidiana pone, infatti, in maniera ineludibile e stringente questioni etiche: ad esempio scelte e azioni in relazione alla fecondazione artificiale, interventi sugli embrioni, il dibattito sull’eutanasia, il tema dell’aborto; problemi tutti che richiedono una rinnovata elaborazione etica, in quanto la decisione che verrà presa cambia le condizioni della vita associata e le concezioni stesse di vita, di morte, di corpo connesse all’idea e alla consapevolezza di maternità e paternità.
Il punto di partenza, ormai palese rispetto a quanto detto, è stato ripensare il sé da parte del soggetto, e del soggetto femminile, evitando almeno nelle riflessioni più “pensate” l’egualitarismo astratto come una mistica della femminilità.
Se grande è stata la ricchezza di contributi derivati da “una voce di donna”,5 il percorso è difficile – il dibattito è ancora in corso e in questa sede si può solo accennare – perché si tratta di una metanoia da compiere nel campo etico e non di semplici aggiustamenti nel senso di una ricodificazione.
Tuttavia non si può nascondere la difficoltà intrinseca che il pensiero della differenza sessuale incontra in questo settore, cioè nell’ambito etico, in cui si gioca una sfida, a parere di chi scrive, drammatica: parlare di soggetto morale femminile e tentare di risolvere il problema della soggettività morale, infatti, contrasta con il concetto di morale come superamento delle inclinazioni particolari sensibili e ricerca dell’universale, teoria secondo la quale la differenza sessuale è solo un vincolo naturale da superare per giungere al soggetto morale che è neutro.
La soluzione a tale difficoltà anche in questo caso è complessa, non univoca, in quanto si opera non già per sostituire semplicemente valori e norme prescrittive con altre, secondo un superato concetto di etica, ma per «decostruire i valori di fatto esistenti e costruire criticamente valori che possano essere condivisi come risultato di una procedura razionale accettata», come afferma Claudia Mancina.

Etica della differenza sessuale e l’io nomade

Rilevante in tal senso – ma possiamo solo alludere – l’apporto teoretico di Luce Irigaray, una delle capostipiti del pensiero della differenza sessuale, che ha affrontato le tematiche etiche carica delle domande forti della filosofia; la pensatrice vuole smascherare il carattere sessuato che si nasconde sotto la pretesa neutralità della tradizione speculativa, come della cultura tutta, sconfiggere la metafisica e proporre un’etica nuova, da lei definita etica della differenza sessuale. Etica che rappresenta il “da pensare della nostra epoca”, ma occorrerà una rivoluzione di pensiero, e Irigaray sottolinea la forza alternativa del pensiero femminista: una creatività nuova e una nuova poetica che vengono delineate come etica contro l’ontologia, etica che determinerà rapporti diversi tra i soggetti: «tutto è da reinterpretare nelle relazioni tra il soggetto e il discorso, il soggetto e il mondo, il soggetto e il cosmo, il microcosmo e il macrocosmo».6
Dopo Irigaray, la prismaticità delle posizioni femministe, di cui si è detto, si manifesta nelle elaborazioni della fine del secolo scorso in due filoni molto interessanti, su questa linea dell’interrogazione sul soggetto, rappresentati dal pensiero delle femministe statunitensi contemporanee: alcune più trasgressive, altre in dialogo con la storia della filosofia del passato.
Del primo gruppo le autrici più significative al riguardo sono Donna Haraway, Teresa de Lauretis, Judith Butler, cui si può aggiungere Rosi Braidotti, docente a Utrecht; studiose che si possono accomunare per essersi domandate “che cos’è una donna?”. Domanda alla quale hanno risposto in termini polemici. Esse, infatti, propongono, contro la favola sostanzialista, l’io nomade, mostrando come lo stesso concetto di donna debba essere decostruito a favore del ruolo che ogni essere umano recita o interpreta. Soggetto come farsi e non come fatto, intreccio di identità e differenza, e per questo molte studiose parlano, in termini teatrali, della necessità di uscire da certe “parti”, nelle quali le donne sono state obbligate ad entrare, per recitarne di nuove, per addentrarsi nel mondo del travestimento. Haraway, come è noto, a causa dell’impossibilità di definire la soggettività femminile passa a termini affini e parla di cyborg: se la donna è sempre stata costruita come oggetto del desiderio, con Baudrillard si può affermare che i cyborg sono copie senza originali, cioè simulacri. Anche Teresa de Lauretis opera una demolizione teorica di concetti di genere e di identità sessuale, tutti di provenienza maschile ed esamina, con l’ausilio delle suggestioni letterarie e teatrali, il tema dell’io da costruire e decostruire: ogni identità è una parodia dell’altra, simulacro di ciò che non c’è. Rosi Braidotti, a sua volta, dialoga con il pensiero post strutturalista francese e utilizza il concetto di nomadismo per sottolineare tale mutevolezza delle singole soggettività.
Judith Butler, in particolare, rifiuta in “Gender Trouble” la tradizione filosofica e la metafisica della sostanza e, attraverso acuti riferimenti polemici, raggiunge posizioni molto radicali. Il suo contributo critico verte sia sul concetto di identità individuale come sostanza monolitica, soggetto identico, sia sul concetto di natura e di naturale, che questa idea di soggetto porta con sé. Interrogandosi su cosa è naturale – ed è evidente il richiamo a Foucault e alla genealogia da lui elaborata, molto nota, secondo cui le categorie di identità non sono origine e causa, ma effetti delle istituzioni, delle pratiche, dei discorsi, in particolare di due istituzioni, il fallogocentrismo e l’eterosessualità obbligatoria – la filosofa considera la naturalizzazione o reificazione del genere come il problema più grave.
Si chiede, pertanto, non solo come contrastare la violenza perpetrata dalle norme, ma elabora la sua tesi più nota: non solo il genere, ma anche il sesso e quindi il corpo, che per Foucault era il dato ultimo, vanno considerati una costruzione culturale, ideologica, linguistica, di codici comportamentali, pertanto la donna è il termine di un processo, di un divenire, senza una origine e una fine vera e propria, aperto alla risignificazione.7
Tutte queste filosofe, conclusivamente, disegnano un soggetto multiplo e senza centro, un’entità fluttuante e non unitaria, tale da inventare continuamente la propria identità e questo con forte accentuazione eversiva.8
In queste autrici il gioco del travestimento è colto nella sua positiva valenza trasgressiva, quale parrhesia, come diceva Foucault, cioè quale frattura nei confronti dei saperi costituiti, capacità di un parlare (e pensare) libero, di un modo nuovo di dire la verità, dal momento che lo specchio intero dell’identità si è infranto in mille pezzi (come voleva Virginia Woolf), o meglio si è trasformato in un caleidoscopio mobile e cangiante. Da qui anche la giocosità di questo evento, l’ironia utopica di Donna Haraway, che di fronte alla cupa mistica della femminilità, potremmo dire all’integralismo femminista, afferma “meglio cyborg che dea”, o il richiamo alla parodia in de Lauretis.
Ma sussistono anche altri aspetti di tale travestimento o metamorfosi o invenzione continua, che qui si vorrebbero richiamare: innanzi tutto queste teorie corrono il rischio di cadere in uno scientismo efficientista e ottimista, laddove a mio parere il pensiero femminista è sfida e opposizione non solo ad una ragione assoluta e sistematica, ma anche nei confronti di una razionalità strumentale, tecnica, apparentemente neutra, di fatto maschile.
Ben più grave un secondo pericolo, ovvero la minaccia del patologico e l’impossibilità della morale: i molteplici sentieri della precarietà esistenziale, precarietà esprimibile nelle possibili maschere – occorre ricordare l’etimologia di persona che rinvia a maschera? – possono essere il segno drammatico di un sintomo, di un disagio lieve o grave nella sfera dell’identità personale. E qui ritroviamo la metafisica, ma la vertigine metafisica nel contrasto tra essere e apparenza, o meglio la dialettica che si instaura tra apparenza (ruolo, creato o inventato) ed essenza, sul possibile primato dell’una sull’altra, infine sulla complessità del loro rapporto oggi, in cui l’apparenza può essere vista come epifenomeno di una mancanza di essenza o vuoto di essere. Se tale vertigine è evidenziata dalla psicoanalisi, la filosofia si chiede se le soggettività mobili, di cui parlano de Lauretis, Butler e le altre possano coprire un’angoscia generata da un vuoto di possibilità identificatorie; e ancora come rispondere alla necessità di conservare l’enigma e il mistero della differenza sessuale, enigma e mistero che va mantenuto in un difficile equilibrio, quale un funambolo sul filo? In altre parole se queste concezioni rappresentano gli esiti ultimi della morte del soggetto, arrivando a negare anche il poter usare il termine donna, in nome dell’antiessenzialismo, lo sbocco può essere una situazione di disagio, infeconda sul piano della prassi politica, nella misura in cui contro l’essenzialismo si afferma l’impossibilità di una politica delle donne.

Ricostruzione dell’identità: il femminismo dentro la filosofia

Se l’io frantumato si è mostrato incapace strutturalmente di riconoscere l’altro, come ha sottolineato Rosi Braidotti, un percorso significativo della speculazione femminista nel versante costruens delinea la strada del “partire da sé” come riflessione che vuole e deve comprendere l’altro in me e fuori di me, in quanto l’enigma dell’esistenza nel suo farsi trova l’altro nel cuore del sé, cioè l’identità come dualità antropologica, la differenza di genere.
Alcune filosofe, in particolare la Comunità di Diotima di Verona,9 definiscono l’identità quale una “matassa” da dipanare, nella quale il partire da sé è il filo composito e non facile, che racchiude precarietà esistenziale e azzardo, sicurezza e fragilità, filo indispensabile per evitare la rete o ragnatela del relativismo soggettivo e gnoseologico, ma anche la gabbia della verità assoluta.
Un altro indirizzo della più recente riflessione è rappresentato da quelle pensatrici che, ritenendo necessario un lavoro di “riparazione della barca” esprimono un approccio diverso nei confronti della tradizione filosofica e del suo senso.10
Il lavoro di riparazione (il riferimento è ad una famosa metafora di Otto Neurath) si svolge in tanti settori, ma qui si considera solo la concezione etico-politica che ne scaturisce.
Innanzitutto si offre una rilettura della tradizione etica sette-ottocentesca: molte pensatrici convergono nella critica sia dell’etica utilitaristica che di quella kantiana, ritenute entrambe etiche astratte, perché non considerano la differenza di genere e di sesso; ma simili censure si possono rivolgere altresì alle etiche individualiste che, come afferma Marilyn Friedman, concentrano la loro attenzione ai singoli senza considerare la dimensione interpersonale dell’agire etico. Ugualmente altre autrici (come Alison Jaggar) combattono il liberalismo e l’universalismo, affermando che non esiste un punto di vista morale generalizzabile.
Ne consegue che il soggetto morale femminile – lontano da un’etica dei diritti e delle norme, privilegiata dalla riflessione maschile – vuole tratteggiare una morale sostanziata di categorie come libertà (di costruirsi come persona, sfuggendo dai ruoli prefissati o funzioni rigide umanamente ingiuste, 11 libertà dell’interscambio dei ruoli), responsabilità, fiducia.
Tuttavia, scavando all’interno di tali nuove categorie si operano alcune divaricazioni: da un lato si riconosce il valore, se non altro dirompente, del testo della Gilligan, “Con voce di donna”, in cui l’autrice propone un’etica della responsabilità, etica della cura, da contrapporre ad un’etica giusnaturalistica, mostrando con numerosi esempi come anche al livello di formazione del giudizio etico il pensiero dell’uomo e della donna differiscano. Un’etica della responsabilità, molto più concreta e meno trionfalistica di una “grammatica dei diritti”, fondata sulla polisemanticità dell’essere e sul pluralismo.
Dall’altro lato, tuttavia, si vogliono sottolineare anche i pericoli di una radicalizzazione che dopo Gilligan l’etica della cura ha subito, risultando non più liberatrice per le donne (come sostiene Marilyn Friedman). Sabina Lovibond, a sua volta, si chiede se la cura non rischi di rendere la donna ostaggio (richiamandosi ad un celebre film, di Lars von Trier “Le onde del destino”), accentuando la tendenza all’obbedienza incondizionata, pericolosa per le donne.
Entrambe le studiose vedono una soluzione nella rilettura di concetti classici dell’etica, quali la virtù o la giustizia aristotelica: Lovibond riprende la contrapposizione limitato-illimitato e interpreta il concetto di giustizia come riconducibile alla ragione finita, mentre quello di cura a illimitato. Pertanto è nodale rifarsi alla misura e al limite della tradizione greca e la cura va ridistribuita fra uomini e donne, fuori da ogni retorica, in altre parole la cura va portata dentro la filosofia: la riconcettualizzazione ne facilita la contrattualizzazione.
Marilyn Friedman, a sua volta, sempre in riferimento all’etica aristotelica e al tema della virtù, delinea un’autonomia morale femminista “relazionale”, differente quindi dalla proposta kantiana, ma anche dall’utilitarismo: non si nasce e vive da soli, né si è mai stati tali, la scelta morale – indipendente e libera – è sempre relazionale, contestuale, sociale; «gli individui non creano se stessi, non esistono affatto gli uomini fattisi da sé... il processo di socializzazione incorpora risorse culturali quali linguaggio, modi di pensare e abitudini pratiche proprio nell’identità e nella coscienza delle persone».12
Simile linea interpretativa in Alison Jaggar, che affronta il problema della giustificazione morale (di cui esamina le varie soluzioni) proponendone poi la versione femminista: per combattere ogni forma di universalismo o individualismo, che si presentano sempre con modalità astratta, come si è detto, l’autrice afferma che non esiste un punto di vista morale generalizzabile, si deve sempre e in maniera paradossalmente illimitata focalizzare la situatezza e contestualità delle scelte; «...il punto di vista morale perde il suo status trascendente e diventa non singolo ma multiplo, radicato nel mondo sociale piuttosto che fluttuante al di sopra o all’esterno di esso».13
La sfida alla ragione “una” in ambito etico permette di parlare di esperienza morale non quale relazione di possesso, ma come legame con l’altro in cui nessuno dei termini è annullato, bensì rispettato, perché compreso – come afferma una studiosa americana, Anita Baier – attraverso l’ottica della fiducia. Categoria questa che supera, riassorbendoli, sia l’obbligazione che l’amore,14 e fonda una relazione, diremmo, usando termini lévinasiani, asimmetrica e irreversibile, che non è mai “inserimento in” o “in confusione con”, ma esperienza nel senso forte del termine. Non si tratta di contrapporre la voce delle donne a quella degli uomini, ma misurarsi con il pensiero maschile in modo autonomo, dal momento che le donne vengono dopo, e sono capaci di salire sulle spalle dei moralisti uomini, come dice Baier, parafrasando il famoso nano sulle spalle dei giganti di cui parlavano gli autori del Rinascimento.
In seconda istanza, o meglio come seconda risposta, la sfida etica si combatte proprio nella ridefinizione di concetti etici classici, fondamentali come libertà e autonomia, trasportandoci sì sul piano della formalità morale, ma per affermare un’universalità sessuata, «specie in cui non ci si è mai imbattute nella nostra storia», sottolinea Francesca Izzo. Si tratta, infatti, di riparare al vuoto concettuale prodottosi nella storia della morale (Hobbes, Locke, Kant), in cui la libertà, come ha ricordato Kant, è ratio essendi della moralità; oggi si deve andare oltre e parlare di libertà femminile, con tutte le conseguenze di ridefinizione dei problemi legati alla sessualità e alla procreazione, colti come momenti di scelta autonoma e non sotto il segno della necessità.
Etica della responsabilità per le donne impegnate in difficili scelte procreative è l’altra faccia di un’etica fondata solo sulla libertà: si abbandona, infatti, la grammatica dei diritti (diritto della donna e diritto del feto), dal momento che non si tratta di diritti di due identità indipendenti, due individui, ma una relazione tra due entità inscindibili che vivono la stessa vita, che a loro volta sono legate da una rete di relazioni con altre entità (padre, altri figli, progetto di vita ecc.).
In conclusione, da quanto esposto si evince che i valori femminili mettono in crisi e contestano l’individualismo dei diritti, riconoscendo anche la fragilità dei valori nuovi proposti, quali responsabilità, amore, fiducia, relazionalità.

Il pensiero della differenza tra etica e politica

Si è sottolineato che l’etica della responsabilità, molto più concreta e meno trionfalistica di una “grammatica dei diritti”, è fondata sulla polisemanticità dell’essere e sul pluralismo dei valori, come cifre del nostro tempo e si evince da tali sommarie indicazioni come alla riflessione contem poranea si apra un ventaglio disparato di suggestioni, un’infinità di percorsi da affrontare.
Un ulteriore itinerario è rappresentato dall’elaborazione di una teoria critica della differenza, che deriva dal dibattito relativo alla pluralità (etnica, religiosa, culturale) presente nelle attuali società, su cui ci si soffermerà brevemente (anche in questo caso l’argomento richiederebbe maggiore attenzione). È tema significativo non solo perché il pensiero della differenza dice una parola inedita su questioni etiche, ma anche perché allarga la propria visione prospettica all’ambito politico, rilevando il forte spessore di tale contesto, in quanto è su questo piano che si deve giocare, nei prossimi anni, la partita del pensiero della differenza: qui, “la sapienza di partire da sé” può riassumere, sconvolgendola, l’affermazione kantiana, au de sapere.
Il dibattito su questo tema è amplissimo, specie in area angloamericana e non possiamo darne conto in poche righe;15 non solo, ma qui troviamo con au torevolezza sia le autrici più note della prima metà del Novecento, sia le nuove generazioni. Lasciamo sullo sfondo il pensiero al riguardo delle “grandi madri” quali Edith Stein, Hannah Arendt, Simone Weil e Maria Zambiano, che tutte – in modalità diverse – agirono nello spazio politico del loro tempo riuscendo, anche drammaticamente, ad intrecciare l’impegno teorico, morale, religioso, in linea con il superamento dell’intellettualismo astratto di cui si è già detto.
Venendo alle pensatrici dei nostri giorni è interessante focalizzare quella che si può definire una teoria critica della differenza: essa contiene in sé sia gli esiti ultimi della morte del soggetto, sopra ricordato, sia il dibattito relativo al rapporto tra femminismo e multiculturalismo, sintetizzabile nel titolo del libro curato da Susan Moller Okin: “Is Multiculturalism Bad for Women?”.16
Dire teoria critica significa evidenziare innanzitutto la valenza filosofica delle domande e delle risposte, una filosofia che parte da esperienze condivise, “luoghi comuni”, interrogativi urgenti.
La differenza poi, in seconda istanza, indica che di fronte al pluralismo radicale si vogliono evitare sincretismi di comodo e superficiali tolleranze di facciata, e, senza cadere in relativismi o riduzionismi, esprimere le varie identità e diversità per una differenza che diventa generatrice di giustizia: con (e oltre) Rawls, si opera contro una tradizione di ugualitarismo, vanto delle società democratiche, ma anche, come si è detto, contro l’utilitarismo classico, contro l’individualismo e l’universalismo astratto, tutti concetti derivati dal soggetto neutro.
Pensatori politici e filosofi sono consapevoli che oggi l’e quazione tra giusto e uguale sia difficile da mantenere, non solo per i beni materiali di mercato, ma in relazione ai problemi di sicurezza, protezione sociale, educazione, autorità e responsabilità; si va, pertanto, affermando una concezione paradossale di spar tizioni ineguali non ingiuste, ovvero un’idea di giustizia che equilibri vantaggi e svantaggi, non rimanendo sul piano formale e quantitativo, ma scendendo nel contesto qualitativo.
Ed è in tale contesto che il soggetto morale femminile parlerà con voce diversa, altra anche dal sogno utopico dell’uguaglianza pura e semplice o dalle teorie e correnti comunitaristiche, che considerano la società un con glomerato di gruppi omogenei in cui l’unicità e irripetibilità dell’individuo è persa.
Il problema è molto dibattuto e si può solo alludere ad un nodo importante: d’accordo con Iris Marion Young, studiosa di queste tematiche e autrice di un testo cruciale come “Justice and the politics of difference” (1990), chi scrive ritiene che la differenza sia una risorsa imprescindibile, unica possibilità nel nostro tempo di evitare l’ingiustizia.
«La riflessione normativa nasce quando si ode un grido di dolore o di disagio o quando si provano personalmente sofferenza e disagio», così Young che indica un partire dal soggetto, un ascolto dell’altro e dell’altrove o uno struggimento come atto di nascita di norme e ideali: necessità sia di un partire da sé che è anche concretezza storica e sociale di una riflessione legislativa (il nowhere land, puramente metaculturale è impossibile), sia di “immaginazione” o creazione di vie alternative all’esistente, in altre parole emerge una “poetica (poiesis) della integrazione”, che dice anche un progressivo aggiustamento delle proprie idee e posizioni, in quanto la democrazia, come afferma Young, è definibile quale un processo, e si può aggiungere, fragile e paradossale.
Per concludere questa troppo breve analisi si assumerà come para digma di tale politica che parte dal sé la figura di Antigone, espressione, a parere di chi scrive, di una philia condivisa, l’amore, e come tale a gente politica e non una ribelle all’interno di un ordine del diritto. Enigmatica ancora oggi, seppure lungamente interpretata e reinterrogata, la tragedia di Sofocle è carica di ambiguità e pertanto si sottrae a utilizzazioni univoche.17
Sottolineare il gesto di Antigone come atto di philia consente la reintegrazione di uno specifico femminile nello spazio pubblico, nello spazio della legalità, sì da modificarlo e quindi si delinea una modalità diversa di abitare nella città e da qui nuove domande sulla cittadinanza, sulla fondazione autentica dello Stato e insieme su ogni convivenza umana. È difficile dire in poche parole la ricchezza del termine philia,18 in particolare in un’epoca come la nostra, che ha visto l’ascesa e la caduta dei totalitarismi, ma altresì l’emergere di politiche nazionalistiche, unite a una frantumazione identitaria, in una società sempre più prigioniera di scontri fra etnie contrapposte. A parere di chi scrive la philia come prassi politica indica un’“assunzione di responsabilità nella costruzione di connessioni” (seguendo le suggestioni di una studiosa statunitense Jodi Dean) e cioè il costituirsi di una soggettività e autorappresentazione delle donne come soggetti politici, quindi una pratica di philia che superi dicotomie ancora oggi presenti e cristallizzate quale universale/ particolare, inclusi/esclusi.
Antigone non accetta il compromesso consueto, ovvero la formale e asettica scissione tra politica e moralità, tra pubblico e privato, ma la sua affermazione della non-separazione (e la condanna che ne segue), può proporre a noi percorsi obliqui di attraversamento, nuove azioni che superano la disgregazione. Antigone è un soggetto autonomo che nella polis in guerra non si rinchiude nel privato, ma agisce nello spazio pubblico, il suo gesto diventa l’emblema di ogni rifiuto di un dominio e di un potere ingiusto, potere che non riconosce i propri limiti.

 

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[1] J. Russ, L’etica contemporanea, il Mulino, Bologna 1997, p. 7.

[2] A. MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988.

[3] H. Arendt, Political Thinking without a Bannister, in On Hannah Arendt the Recovery of the Public World, M. Hill, New York 1979, p. 336.

[4] S. Moller Okin, Justice,Gender and Family, Basic Books, New York 1989.

[5] Cfr. C. Gilligan, Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987.

[6] L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985, p. 12.

[7] La concezione del sesso come sostanza, cioè identico a se stesso, secondo Butler si fonda sulla logica binaria, da cui la sua significativa analisi a livello epistemologico su cui non ci si soffermerà in questa sede.

[8] Come sottolinea anche una studiosa italiana, Adriana Cavarero, in Il pensiero femminista. Una storia possibile, in Cavarero, F. Restaino (a cura di), Le Filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 155-56.

[9] Si veda Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987; Id., La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli 1996.

[10] Si rinvia ai testi raccolti nei volumi A. Jaggar, I. M. Young (a cura di), A Companion to Feminist Philosophy, Blackwell, Oxford 2000 e M. Fricker, J. Hornsby (a cura di), The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

[11] La sfida etica del pensiero della differenza sessuale presuppone (e postula) un nuovo rapporto antropologico tra i sessi e questa è già una visione etica di cui si è fatto garante anche l’ONU, con la Convenzione sull’eliminazione di ogni discriminazione contro le donne del 1980 e successivamente con la conferenza di Pechino. Non solo si nega e si proibisce la gerarchizzazione fra i sessi ma si rifiuta anche una sistematica loro specializzazione, senza nello stesso tempo cadere in confusioni fra concetto di eguaglianza e di identità, l’una riguardando i diritti e i doveri, l’altra attinente alla personalità, la quale non è determinata dalle norme sociali.

[12] M. Friedman, Feminism in Ethics, Conceptions of Autonomy, in The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy cit., p. 211.

[13] Jaggar, Feminism in Ethics. Moral Justification, in The Cambridge Companion to Feminism in Philosophy cit., p. 241

[14] Cfr. A. Baier, What Do Women Want in a Moral Theory?, in “Nous”, 1985.

[15] F. Brezzi, Gli altri siamo noi, in A. Ales Bello e F. Brezzi (a cura di), Il filo(sofare) di Arianna, Mimesis, Milano 2002. Sul tema si veda anche la ricca bibliografia al riguardo in D. Sartori, Nessuno è l’autore della propria storia, in Diotima, La sapienza di partire da sé cit., pp. 27 e segg

[16] S. Moller Okin, Is Multiculturalism Bad for Women, Princeton University Press, Princeton, New Jersey 1999 (trad. it., Raffaello Cortina Milano 2004, ma il titolo italiano nonrende la pregnanza del dibattito).

[17] Si veda la riscrittura di M.Zambrano, La tomba di Antigone, La Tartaruga, Milano 2000.

[18] Mi sia consentito di rinviare al mio libro Antigone e la philia, FrancoAngeli, Milano 2004.

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