Da Genova a Strasburgo: i ritardi dell’Italia sul reato di tortura

Di Anton Giulio Lana Mercoledì 29 Aprile 2015 11:43 Stampa
Da Genova a Strasburgo: i ritardi dell’Italia sul reato di tortura Foto: James Russell

La Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per i fatti di Genova del 2001 e ha contestato l’inadeguatezza della legislazione italiana rispetto al reato di tortura. L’approvazione, da parte della Camera, di un disegno di legge che ne prevede l’inserimento nel nostro codice penale è un passo nella giusta direzione, ma presenta delle lacune gravi nella definizione della fattispecie di reato.


I sanguinosi fatti del luglio 2001, in occasione del G8 di Genova, resteranno drammaticamente impressi nell’immaginario collettivo italiano (e non solo): tanto che a caldo si meritarono l’etichetta di macelleria messicana, appellativo che forse i paesi occidentali non erano più abituati a maneggiare da tempo. Ma le immagini di quei giorni, particolarmente vive nella memoria di chi quegli eventi li ha vissuti sulla propria pelle, sono in questi giorni tornate in auge, trovando infine, pur se a ben quattordici anni di distanza, una compiuta conclusione giuridica: è infatti del 7 aprile scorso la sentenza emanata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo (EDU) nel caso Cestaro c. Italia (su ricorso n. 6884/11).

La vicenda ha inizio nel 2004, anno in cui la Procura di Genova apre un’inchiesta sui fatti avvenuti nella scuola Diaz-Pertini di Genova nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. Un procedimento questo nel quale Arnaldo Cestaro si costituì parte civile. Anch’egli infatti alloggiava presso l’ormai tristemente nota scuola e fu vittima delle efferate violenze di quella notte.

Ventotto persone, tra funzionari e agenti delle forze dell’ordine, vennero rinviate a giudizio con le accuse più varie: calunnia, abuso d’autorità pubblica, porto abusivo di armi da guerra e soprattutto lesioni corporali semplici e aggravate. Nel 2008, dodici imputati vennero condannati in prima istanza a pene di reclusione tra due e quattro anni. Vennero infatti riconosciute delle circostanze attenuanti, come l’agire in condizioni di particolare stress e stanchezza. Per giunta, applicando la legge 241/2006 (indulto) dieci di loro videro le rispettive condanne ridotte, nonostante la Corte avesse parlato in proposito di una vera e propria «spedizione punitiva, al di là di ogni principio di umanità e di rispetto della persona».

La sentenza della Corte d’appello di Genova, di due anni successiva, confermava alcune condanne, prevedendo però uno sconto di pena. Alcuni imputati venivano invece assolti, poiché i rispettivi reati erano nel frattempo caduti nella morsa della prescrizione. Il caso veniva infine portato all’attenzione della Corte di cassazione, i cui giudici non si limitavano a dichiarare oramai prescritto il reato di lesioni aggravate, ma affermavano d’altro canto che i fatti descritti avrebbero ben potuto essere inquadrati nella fattispecie di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, di cui all’ articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Ciò, naturalmente, solo se tale reato fosse stato previsto da una norma penale ad hoc, previsione di cui viceversa difettava in modo lampante l’ordinamento interno italiano.

Avendo esaurito i tre gradi di giudizio interni, il signor Cestaro adiva la Corte europea. I giudici di Strasburgo, con la sentenza dello scorso 7 aprile hanno effettivamente riscontrato una violazione del divieto di tortura sancito dall’articolo 3 della Convenzione, statuendo che i trattamenti intenzionalmente inflitti dagli agenti dello Stato ai manifestanti avevano provocato in questi ultimi dei sentimenti di paura e di angoscia, nonché delle lesioni fisiche e corporali talmente gravi e crudeli da poter essere infatti definiti come “tortura”.

La Corte è andata oltre sostenendo che il tutto fosse mosso «da uno scopo punitivo e di rappresaglia, volto a provocare sofferenza e umiliazione nelle vittime». Da ciò è derivata la condanna dell’Italia all’unanimità per violazione dell’articolo 3 CEDU sotto il profilo sostanziale.

La Corte ha poi constatato la violazione anche sotto il profilo procedurale dell’articolo 3, in quanto l’Italia ha disatteso in questo caso l’obbligo di individuare e di punire adeguatamente i colpevoli degli atti di tortura. In particolare, sotto quest’ultimo aspetto la Corte ha ritenuto che il caso Cestaro sollevasse svariate problematiche.

Anzitutto, sulla mancata individuazione degli autori delle torture di quella notte, Strasburgo ha scritto a chiare lettere che «si rammarica che la polizia italiana abbia potuto impunemente rifiutarsi di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria per l’identificazione di agenti potenzialmente coinvolti in atti di tortura». Sulla questione della prescrizione dei reati contestati poi, la Corte ha stigmatizzato l’inadeguatezza della legislazione italiana, insufficiente rispetto al requisito della sanzione nei casi di violazione dell’articolo 3 e inoltre sprovvista del necessario effetto deterrente per prevenire in futuro simili trasgressioni.

Ciò che comunque nel 2015 appare incommensurabilmente riprovevole è la mancata previsione del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico. L’Italia, infatti, oltre ad esser firmataria della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che all’articolo 5 vieta esplicitamente tali comportamenti lesivi della dignità umana, ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti del 1984. Eppure ancora nel XXI secolo, quello che la stessa Corte EDU riconosce come uno dei principi cardine di ogni società democratica, ossia il divieto della tortura, non è riuscito nel nostro paese a trovare concreta applicazione.

Quello che appare ancora più incredibile su questo tema è che da anni il legislatore continua a procrastinare sine die l’emanazione di una legge che dia attuazione alla Convenzione ratificata nel 1988 (ben 27 anni fa). Uno spiraglio sembra esser stato aperto lo scorso 9 aprile, con l’approvazione alla Camera della proposta di legge del marzo 2014 che prevede l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Il provvedimento è adesso tornato al Senato, auspicabilmente per l’ultimo passaggio parlamentare.

C’è da dire comunque che la nuova previsione non è esente da critiche, poiché, tradendo la lettera del trattato del 1984, prevede che la fattispecie di tortura sia un reato comune e non invece un reato proprio, con la previsione che se lo stesso venga commesso da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblici servizi scatti soltanto un’aggravante.

La questione a ogni modo non può dirsi definitivamente conclusa visto che la Corte EDU a breve si pronuncerà sui fatti della caserma di Bolzaneto, proseguo della vicenda del G8 di Genova. Trovandosi a decidere sul caso in questione infatti la Corte di cassazione italiana all’epoca parlò addirittura di «un clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto».

In conclusione, dunque, questa sentenza impone una riflessione sulla “salute” dei diritti umani e della loro garanzia e tutela, anche in quegli Stati occidentali che spesso si fanno promotori del rispetto di tali stessi principi in altri paesi, ma che sembrano chiudere ben più di un occhio quando si tratta invece di lacune e/o violazioni a livello interno.

 


Foto: James Russell

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