Il mosaico mediorientale: le linee di faglia della politica e della religione. Gli USA dentro o fuori?

Di Fabio Atzeni Lunedì 27 Gennaio 2014 17:34 Stampa
Il mosaico mediorientale: le linee di faglia della politica e della religione. Gli USA dentro o fuori? Foto: Aleksandr Zykov

Le tensioni e i conflitti che attraversano il Medio Oriente hanno una natura duplice, da una parte quelli che si insinuano nelle consuete divisioni etno-religiose e dall’altra quelli che vedono contrapposte forze islamiste riformatrici e monarchie tradizionali. Il già composito quadro è reso ancor più complesso dal ruolo giocato dagli Stati “sponsor” – Iran e Arabia Saudita – e dalla presenza di altri attori, da Israele alle formazioni di al Qaeda. La decisione di Obama di ridimensionare l’impegno USA nella regione ha poi contribuito a deteriorare una situazione già critica.


Negli ultimi anni, in tutto il Medio Oriente ha avuto luogo un forte deterioramento del quadro di sicurezza accompagnato da un’escalation della violenza. Nel recente passato la politica interventista di George W. Bush, orientata al riassetto dell’area in termini più favorevoli agli Stati Uniti e ai suoi alleati regionali, aveva ottenuto l’effetto opposto, favorendo l’allargamento dell’influenza iraniana e aprendo il vaso di Pandora dei nazionalismi etno-religiosi e transfrontalieri. In seguito, Barack Obama, con l’abbandono del coinvolgimento diretto degli USA nell’area, pur sostenendo la diffusione della democrazia nel mondo islamico, ha di fatto fallito nel tentativo di piegare “l’arco della storia”. Tale scelta ha causato potenziali effetti destabilizzanti al suo tradizionale alleato nell’area: l’Arabia Saudita. E la nuova linea, avviata con il discorso tenuto al Cairo nel giungo 2009 (“Un nuovo inizio” tra USA e Islam), è giunta ad avvallare, dopo un lungo processo, l’insediamento di Morsi in Egitto.

L’aumento dei disordini e degli scontri in Medio Oriente è dunque in qualche modo legato anche alla nuova strategia politica americana nella regione. Guadagnata una maggiore libertà d’azione, i principali attori in gioco per il controllo dell’area hanno sfruttato le linee di frattura etnico-religiose per perseguire i propri obiettivi politici, operando anche con strumenti a forte caratterizzazione radical-religiosa, quali al Qaeda e Hezbollah, per innescare una reazione a catena, come risulta evidente nel caso siriano.

Da questa complessa situazione, sempre di difficile lettura, emerge una duplice matrice dei conflitti in atto. Esistono due tipologie di scontri: la prima, di natura religiosa, vede contrapporsi i sunniti agli sciiti e i rispettivi paesi sponsor, l’Arabia Saudita e i suoi alleati per gli uni, l’Iran e i suoi satelliti per gli altri; la seconda invece, di carattere sostanzialmente politico, è determinata dalla sfida lanciata dalle forze islamiste “riformatrici”, legate alla Fratellanza Musulmana, al potere assoluto tradizionale, rappresentato in particolar modo dalla monarchia saudita: in altre parole dal variegato mondo delle primavere arabe.

Queste tensioni che apparentemente operano su piani paralleli e ben distinti, tendono al contrario a intersecarsi, rendendo il fenomeno ancora più complesso. In definitiva, il fattore religioso spesso maschera le reali finalità politiche, ossia la conquista dell’influenza se non addirittura dell’egemonia regionale. Come ci si potrebbe aspettare, i teatri più violenti sono proprio quelli in cui questi elementi convergono, come la Siria e l’Iraq; ma anche il Libano, dove gli effetti della guerra siriana si stanno espandendo, il Bahrein,[1] dove la popolazione a maggioranza sciita è governata da una monarchia assoluta sunnita, lo Yemen, dov’è in corso uno scontro tra il Nord sunnita e il Sud sciita, e ancora la Tunisia, l’Egitto e la Libia.

In questo quadro si aggiunge Israele, da sempre in guerra con il mondo arabo, ma che per vicinanza d’interessi sul campo, si trova paradossalmente a sostenere le dinamiche saudite nei confronti di Teheran, tenendo sempre presente che l’attuale caos interno al mondo islamico è la sua più grande garanzia di sicurezza.

Infine, l’azione trasversale a tutta la regione di gruppi affiliati ad al Qaeda e delle formazioni di Hezbollah conferma come essi siano dei meri strumenti nelle mani degli sponsor (l’Arabia Saudita[2] e l’Iran, più o meno apertamente) per estendere il conflitto politico e accrescerne la radicalizzazione ideologica. Le attività di questi gruppi terroristici, benché ancora enfatizzate dai media come potenziali minacce per l’Occidente e per il mondo, sembrerebbero invece perseguire obiettivi locali, circoscritti all’area mediorientale e dalla natura più politica che religiosa o ideologica.

In altri termini, il vuoto lasciato dagli Stati Uniti in seguito all’abbandono di una politica assertiva nei confronti dei “failed states” e in seguito al ritiro delle truppe dall’Iraq nel 2011 sembra concedere troppo spazio a Israele e all’Arabia Saudita, che potrebbero essere tentati di condurre un’azione diretta contro l’Iran. Se così fosse, si avrebbe una crescita delle tensioni nella regione, con il rischio di un’espansione dei conflitti su larga scala. Infine, un attacco diretto a Teheran, pur limitato ai siti nucleari, avrebbe esiti incerti e rischierebbe di degenerare in uno scontro aperto con prospettive imprevedibili.

La mancanza di un leader regionale e l’emergere di attori locali dagli obiettivi contrapposti sta contribuendo a deteriorare la già grave situazione. Oltre a ciò, il ridimensionamento del ruolo di Washington in Medio Oriente ha portato alcuni elementi di novità inaspettati. La Turchia, ha recentemente preso accordi diretti per attivare l’oleodotto che collega la regione autonoma del Kurdistan iracheno con la centrale turca di Ceyhan, senza l’autorizzazione preventiva del governo centrale di Baghdad, riacutizzando le tensioni derivanti dall’autonomismo curdo. Un’altra realtà recentemente emersa è la nuova intraprendenza russa nella regione. Putin, perseguendo lo storico obiettivo di ottenere uno sbocco sul Mediterraneo, ha riportato Mosca in gioco, sostenendo di recente, pur con molta cautela, la Siria, l’Iran e le forze ribelli islamiste e democratiche.

Il “ritorno” di Washington nell’area, con un approccio diverso e più assertivo di quello finora adottato, improntato al realismo, potrebbe portare a un grado accettabile di stabilità e di controllo dei conflitti. La via da percorrere sarebbe quella suggerita da Kenneth Waltz, ossia accettare la realtà e ricorrere maggiormente alla diplomazia. Significherebbe quindi riorganizzare i rapporti politici nella regione in base al principio già impiegato in passato di “equilibrio delle potenze” cercando, in aggiunta, di favorire l’interdipendenza politica sulle questioni fondamentali e comuni, come la proliferazione nucleare, la politica di fornitura energetica o la spinosa questione curda.

Per gli Stati Uniti non significherebbe soltanto favorire il mantenimento dello status quo, ma operare attivamente per il proprio rilancio nell’area, recuperando il prestigio internazionale perduto, soprattutto in seguito alla rinuncia di un attacco alla Siria. Il Medio Oriente è ancora fondamentale per l’America. Il rinnovo della tentazione isolazionista di Washington, non aiuterebbe a migliorare il quadro politico e strategico dell’area. Al contrario, un approccio più pragmatico e “conservatore” di Obama, potrebbe costituire un punto di partenza per raccogliere e riunire le tessere dell’insanguinato mosaico mediorientale.



[1] Il 14 marzo 2011 l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con il tacito assenso di USA e Gran Bretagna, hanno inviato un contingente militare in Bahrein in supporto alle forze lealiste della monarchia sunnita degli Al Khalifa, minacciata da una ribellione della popolazione a maggioranza sciita.

[2] Secondo una registrazione di una dichiarazione del dicembre 2009dell’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton, resa pubblica da Wikileaks nel 2010, l’Arabia Saudita avrebbe preso misure molto limitate per combattere il terrorismo. In particolare, nonostante la repressione in patria dei terroristi dopo l’attacco di Riyadh nel 2003, la monarchia Saudita sarebbe la maggiore finanziatrice delle attività di al Qaeda all’estero.

 

 

 


Foto: Aleksandr Zykov

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