Finanziamento ai partiti: la pseudo-democrazia in cui il “voto” pesa in base al reddito

Di Candide Giovedì 11 Luglio 2013 17:00 Stampa

In questi giorni, un po’ in sordina, entra nel vivo alla Camera la discussione sul disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Quale idea di democrazia cela un sistema in cui il finanziamento ai partiti è affidato alla devoluzione di una percentuale di reddito (2 per mille) e non è previsto alcun limite alle donazioni che una singola persona fisica o giuridica può dare a un partito?


Si fa un gran parlare, sin dall’insediamento del governo Letta, di riforme istituzionali. Di metodo: tramontata l’idea della Convenzione ci si è attestati su un modello che ricalca la bicamerale D’Alema, con in più i 35+7 consulenti del governo che dovrebbero preparare il terreno per disegni di legge ampiamente condivisi. E di merito: presidenzialismo versus ulteriore razionalizzazione della forma di governo parlamentare; superamento del bicameralismo; Senato delle autonomie; legge elettorale ecc.

Poco si parla, al confronto, del disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti che, se verrà rispettata la tabella di marcia dettata dal governo, potrebbe essere approvato dalle Camere prima ancora che il cammino parlamentare delle riforme abbia inizio. E che mi sembra destinato a incidere sul sistema politico e, quindi, sul funzionamento della forma di governo tanto quanto le suddette riforme. Non sfugge a nessuno, ad esempio, che un conto è parlare di rafforzamento dell’esecutivo in presenza di partiti robusti, strutturati e autonomi, un altro conto è immaginare forme di presidenzialismo o cancellierato senza contrappesi politici (e istituzionali: il Parlamento italiano, oggi, non ha una forza neanche lontanamente paragonabile a quella che, negli Stati Uniti, fa funzionare il sistema presidenziale). Oppure si pensi al sistema elettorale: mi sembra difficile che partiti ulteriormente indeboliti possano accettare a cuor leggero di passare dalle comode liste bloccate del “porcellum” ai collegi uninominali (o plurinominali di piccole dimensioni), accrescendo il rischio di farsi sfuggire di mano i gruppi e i singoli parlamentari.

Va detto che il disegno di legge del governo contiene alcuni elementi positivi: ad esempio, stabilisce i requisiti minimi cui gli statuti dei partiti devono conformarsi (non per potersi presentare alle elezioni, ma per ottenere i benefici fiscali e i servizi previsti nel disegno di legge) e rende ancora più stringenti le norme, riviste appena un anno fa, sulla trasparenza dei bilanci. Anche qui ci sono aspetti da migliorare. Ad esempio, dovrà essere rivista la composizione della commissione incaricata di verificare la conformità degli statuti alla legge, perché quella già istituita presso la Camera dei deputati è nata per controllare i soli bilanci (ad esempio, i magistrati che oggi ne fanno parte potrebbero essere affiancati e coordinati da un ex giudice della Corte costituzionale, meglio se “laico”). Ma un primo passo verso la garanzia di quel “metodo democratico” di cui parla l’articolo 49 della Costituzione è stato fatto e va valorizzato.

Se però le norme appena citate si giustificano per la funzione pubblica costituzionalmente riconosciuta ai partiti, questa funzione mal si concilia con la totale abolizione del finanziamento pubblico a loro favore che – come evidenziato da Giuliano Amato nel rapporto redatto per il governo Monti e come implicitamente riconosciuto anche nella relazione del gruppo di lavoro dei “saggi” di Napolitano – accomuna tutte le democrazie europee continentali (e raggiunge livelli particolarmente elevati in Germania).

L’aspetto più rilevante del nuovo sistema di finanziamento è il divorzio totale tra i consensi e i soldi. Se passa questo disegno di legge, potremo avere partiti con il 30% dei consensi che non ricevono un euro (neanche come rimborso delle spese elettorali effettivamente sostenute e documentate) e partiti che non superano neanche la soglia di sbarramento ma vengono lautamente sostenuti (comprati?) da una banca, un gruppo imprenditoriale, editoriale ecc. Infatti, il provvedimento in questione prevede sì un tetto per le agevolazioni fiscali, ma non un limite alle donazioni che una singola persona fisica o giuridica può fare a un partito (persino negli Stati Uniti Obama ha provato a stabilire un tetto per limitare lo strapotere delle lobbies, ma è stato sconfitto dalla Corte suprema a maggioranza repubblicana).

C’è, è vero, il 2 per mille che ciascun contribuente potrà destinare al suo partito. Va detto però, prima di tutto, che in realtà stiamo parlando a mala pena dello 0,4 per mille: il 2 per mille del gettito IRPEF, infatti, equivale a circa 300 milioni di euro, mentre la somma destinata ai partiti non potrà in nessun caso superare, a regime, i 55 milioni di euro. Se, per ipotesi, tutti i contribuenti decidessero di destinare il proprio 2 per mille a un partito, lo Stato direbbe loro: mi dispiace, ma non potete!

Sul 2 per mille si è detto: in materia di finanziamento i contribuenti voteranno con la dichiarazione dei redditi. Il che però significa: chi non ha redditi sufficienti, non vota. E soprattutto: il “voto” di alcuni contribuenti peserà 10 o 100 volte più del “voto” di altri. Se si aggiunge che mancherà la segretezza (l’amministrazione finanziaria saprà di ogni cittadino a quale partito ha destinato il suo 2 per mille) e dunque, potenzialmente, la libertà, si può vedere quanto poco questo sistema di finanziamento abbia a che fare con la democrazia.

E ancora: si dice che i partiti meritano queste misure perché hanno usato male i soldi ricevuti. Ma qualcuno ha pensato a cosa potrà succedere – in termini di corruzione, voto di scambio ecc. – quando la sopravvivenza stessa dei partiti sarà nelle mani della banca o dell’imprenditore di turno?

L’iter parlamentare, che in questi giorni entra nel vivo alla Camera, si incaricherà di mostrare se i partiti italiani hanno la forza di difendere a viso aperto le ragioni della loro esistenza, rispondendo colpo su colpo all’ennesima riedizione della campagna di opinione antipartitica (i cui brillanti esiti, sotto la forma del movimento di Grillo e del conseguente stallo del sistema politico, sono sotto gli occhi di tutti). Per ora, purtroppo, sembrano più che altro traccheggiare, prendere tempo, offrendo così il fianco agli attacchi più violenti: se vanno avanti su questa strada, l’esito più probabile è che il disegno di legge passi così com’è. Con uno scontato effetto boomerang quando, tra due o tre anni, bisognerà correre ai ripari.

È del resto un film già visto dopo il referendum radicale del 1993. Si parla spesso del referendum “tradito”. Ma ogni referendum, proprio perché abrogativo, implica logicamente la possibilità di una successiva riforma fatta dal Parlamento. In quell’occasione, il Parlamento introdusse dapprima il 4 per mille ai partiti. Fallita questa soluzione, fu la volta dei “rimborsi” elettorali, giustamente criticati perché non erano veri rimborsi. Ma va ricordato che quando nel 2000 la legge sui rimborsi elettorali fu sottoposta a un nuovo referendum, il quorum non fu raggiunto perché non andò a votare neanche un italiano su tre! Come dire: a volte gli italiani sono più saggi ed equilibrati di quanto non pensi chi li governa.

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Filippo Patroni Griffi, all’indomani dell’approvazione del disegno di legge in Consiglio dei ministri ha scritto: aboliamo il finanziamento, non i partiti. E meno male. Leggendo la sua lettera, torna alla mente il catastrofico precedente dell’abolizione delle Province. Protagonisti e tifosi furono, in gran parte, gli stessi. C’è da augurarsi che, almeno, si impari dagli errori del passato. E ci sarebbe molto da imparare.

Mi riferisco, in particolare, alla minaccia di adottare un decreto-legge in autunno se le Camere non approveranno il disegno di legge del governo così com’è. Intanto si fatica a comprendere il senso della minaccia, visto che, da un lato, le Camere possono modificare o “insabbiare” i decreti al pari di ogni altra proposta e, dall’altro, il governo può sempre porre la fiducia su qualsiasi progetto di legge, anche quello già all’esame del Parlamento. Ma, soprattutto, la recente sentenza della Corte costituzionale sulle province lascia pensare che difficilmente una riforma profonda della “forma partito”, di fatto attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, si possa fare per decreto. Mentre se si trattasse solo di abolire il finanziamento pubblico mancherebbero palesemente i presupposti di necessità e urgenza, almeno fino all’estate prossima, quando si avvicinerà la data del pagamento della tranche annuale prevista dall’attuale sistema.

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